Per chi abita o è nato in una grand'isola, come la Sicilia, la Sardegna, la Corsica o Creta, l'Isola d'Elba potrà apparire al massimo come uno scoglio; e, in effetti, gli elbani stessi, specie quando si trovano a viverne lontani, la chiamano proprio così: Lo Scoglio. Addirittura una rivista che si pubblica all'Elba si chiama in questo modo; eppure, nemmeno tanti e tanti di quegli anni fa, c'eran dei vecchi e delle vecchie che fuori dal loro paese non avevano mai messo il naso, e che non conoscevano niente di quello Scoglio al di fuori delle dieci case che avevano davanti agli occhi, e del pezzo di mare che diceva loro il mondo. E bisogna capirli, perché di strade ce n'erano poche e malagevoli, e anche se c'erano si trattava di farsi ore di carretto, a dorso di mulo o a piedi. Al Poggio, ancora negli anni '30, c'era la Spesina; siccome in paese di negozi o di spacci non ce n'erano, le altre donne del paese la pagavano perché andasse a fare la spesa a Marciana Marina. La sera prima le davano i soldi, e la mattina presto partiva a piedi. Comprava tutto quel che c'era nella lista e se ne tornava al Poggio, in salita, e salita dura per i sentieri, carica come un somaro, con la roba nelle borse e nel grembiale (all'Elba si dice grembiale, non grembiule). A volte le lasciavano il resto dei soldi, ma lei preferiva tenersi qualcosa della spesa, ché la zuppa di soldi non è buona: un pezzo di cacio, tre acciughe salate, un po' di baccalà, la verdura per farsi la minestra o per condirsela con l'olio e il sale. Ma questa è una storia vera. Della Spesina esiste persino una fotografia. La storia che vo a raccontare, invece, non lo so se è vera. Me l'hanno detta così, con poche parole, due o tre frasi rotte da risate e meraviglie; e allora, stanotte, questo blog doventa (all'Elba si dice doventa, non diventa) il portico di casa mia, dove sto da solo a raccontarmela.
In ogni isola, anche se è uno Scoglio, esistono dei posti lontanissimi, irraggiungibili. Posti favolosi di cui si sa soltanto il nome, e dove nessuno è mai stato. A Marina di Campo, qualche vecchia, se vuol parlare d'un posto remoto, dice: è più lontano di Margidore. Margidore è una spiaggia e tre case nel comune di Capoliveri, sul Golfo della Stella, sì e no a cinquecento metri da Lacona; da Marina di Campo, ora, in macchina ci si va in venti minuti. Ai tempi di questa storia, invece, doveva essere lontana per davvero, anche perché per la vecchia strada militare ci potevano passare, appunto, soltanto i militari. E non soltanto era lontana: era in una zona che, allora, era palustre, una specie di Maremma in sedicesimo dove si diceva ci fossero degli zanzaroni che mangiavano la gente. Lo stesso nome del posto sembra derivare dal latino Marcitorium, che non ha bisogno di traduzione; si aggiunga che, nello stesso comune, c'è un'altra spiaggia che si chiama Straccoligno ed il cui nome par invece venire da Sterquilinium, ovvero “merdaio”. I capoliveresi, poi, come sanno tutti all'Elba, sono matti da legare e fanno cose strane: i loro posti li chiamano putridume e merdaio, e insomma c'erano tanti ottimi motivi perché Margidore fosse la quintessenza della lontananza.
A Margidore viveva, sembra, una famiglia ch'era fatta da due sposi ancora belli giovani e che avevano già messo al mondo tre figlioli; a quindici o sedici anni una ragazza era già da marito, portava in dote tre pentole e il corredo fatto a mano dalla mamma e dalla nonna, e il viaggio di nozze non c'era perché, invece, c'era da lavorà. Nei campi, in mare, nel bosco, in culo o dove capitava. A un certo punto, poi, maritato o non maritato che fosse, un giovanotto si imbatteva all'improvviso in quella cosa che quando ti fa pagare le tasse si chiama Stato, e quando ti manda a crepare in guerra si chiama Patria; e toccava partire per andare a a ammazzare e a farsi ammazzare un po' più lontano di Margidore, tipo essere inchiodati a un filo spinato sull'Isonzo. A Oreste, così m'han detto che si chiamava, gli toccò d'andare non si sa dove, in fanteria benché venisse da un'isola. La moglie, invece, non me l'hanno detto come si chiamava; lei la guerra, doppia, dovette farsela in casa e nel campo.
Quando Oreste partì, sicuramente ci fu una frase tipica che non fu pronunciata. Quella della moglie in lagrime che, abbracciando il consorte che va al reggimento, gli dice: “Scrivimi!”. Non si poteva scrivere un accidente di niente, perché lui non sapeva scrivere e lei non sapeva leggere. Niente lettere. Non si poteva nemmeno farsele scrivere da qualcuno, le lettere, a Margidore, ché magari qualcuno a Oreste le avrebbe lette; a Margidore c'erano nove o dieci abitanti tutti rigorosamente analfabeti. E allora nulla. Passa un anno. Ne passano due. Dopo due anni e mezzo, per qualche motivo che non si sa, arriva a Margidore il prete di Capoliveri, a piedi, accompagnato da un carabiniere pure lui a piedi. So' stanchi come capre e chiedono da bere. Cercano la moglie di Oreste. Il resto, naturalmente, ve lo immaginate; a que' tempi, quand'arrivavano il prete e il carabiniere a cercare la moglie d'un soldato, era per dirle ch'era diventata una vedova. E quella povera donna, e con lei il figliolo più grande che capiva, si fecero i su' pianti e si misero il lutto. Però era d'estate, e faceva un caldo boia; il nero non s'addice a quella stagione, specie se il pianto c'è da asciugarselo in un campo a faticare, perdipiù con quel ragazzetto di undici o dodici anni che, come si vuole nelle campagne, morto il babbo già s'atteggiava a omo di casa e dava comandi.
La vedova d'Oreste aveva, allora, e sempre così m'hanno detto, ventott'anni. Ora, a ventott'anni, si è ragazze. Anche a quaranta o quarantacinque s'è ancora ragazze o giovani donne. Allora, a ventott'anni e con tre figlioli s'era donne e basta. Passava di lì il contadino o il pescatore di Capoliveri o dell'Acona (si diceva così: L'Acona), un po' più in là cogli anni e che in guerra non ce l'avevano mandato, e vedeva una donna di ventott'anni sulla terra ch'è bassa. Magari le diceva due parole. Magari la nonna era pure morta e non stava quindi a rompere i coglioni. Magari c'erano tre figlioli con uno stomaco che, con un'ardita variazione rispetto a' posti dove questa storia si svolge, si potrebbe paragonare al Ginnungagap, al cosmico baratro vuoto dell'Edda antica. Le cose eran presto fatte. Si combina il matrimonio, un pianto alla vigilia per il primo marito morto, altre du' pentole di dote e, porca miseria, prima di ritornare a zappare il mattino dopo, finalmente si ritromba. Anche questo è un aspetto che va lievemente, benché rudemente, considerato.
E d'anni ne passarono un altro paio, le cose andavano un po' meglio, il figliolo grande aveva smesso di fare l'omo di casa e di voler comandare beccandosi una scarica di calcinculo da lasciarlo con una chiappa a dir “merda” all'altra, e di figlioli n'era venuto un altro, anzi un'altra. E andò che la guerra finì pure a Margidore, che così si ritrovava a partecipare dei sacri destini della Patria, invitta e con un abitante in meno. Quel che stava per succedere, però, coi sacri destini non ci ha proprio nulla a che vedere; piuttosto, coi destini bizzarri d'un posto bruciato dal sole; ché nel Mediterraneo siamo fatti sovente all'incovercio.
Ché, poi, di bizzarro non è nemmeno che ci abbia tanto. Di soldati dati per morti e tornati vivi a casa son piene le cronache, le canzoni popolari e gli archivi militari. Così pure di mogli risposate, il cui secondo matrimonio, sebbene con nessuna conseguenza penale data la “forza maggiore”, veniva annullato. Cassato. Invalidato. Con tanti saluti al secondo marito che ci aveva pure un figliolo (legalmente riconosciuto), e spesso con un'indimenticabile scarica di legnate alla moglie, da parte ovviamente del primo marito che l'accusava di non essere stata fedele alla sua memoria, d'essersi subito data da fare e via discorrendo; e la moglie aveva voglia, mentre su di lei si abbatteva l'ira del legittimo consorte, a dirgli che non c'era da mangiare, che i figli avevan bisogno d'un padre, che l'altro portava tre somari, una vigna, una barca e un maiale. Tutte considerazioni più che ragionevoli e giustificate, ma che non servivano ad evitare il massacro da parte del becco redivivo. Insomma, per farla breve, c'era stato uno sbaglio. Era morto un altro Oreste del comune di Capoliveri, dal cognome simile; e in quel momento, in quel preciso momento, altre lacrime, altro dolore in un'altra casa.
Qui, nel portico della mia mente, da solo, per quanti sforzi faccia non mi riesce proprio d'immaginarmela, la scena. Tentativi a vuoto. Dunque: Oreste torna a casa, la moglie (probabilmente) sviene o roba del genere, c'è il secondo marito bianco come un cencio, i figlioli piccoli non capiscono bene e quello grande corre a abbracciare il padre. Fin qui ci siamo. Poi c'è un vuoto incolmabile, quel momento in cui, ad una persona qualsiasi di questa terra, viene inviata l'antimateria. Può toccare a tutti quanti, sapete. Può toccare al più grande genio dell'umanità come al contadino soldato di Margidore tornato vivo a casa dalla guerra quando lo si credeva morto.
Non riuscendo a mettere niente in quel vuoto, salterò solo a due altri anni dopo. C'era una casa, a Margidore, posto lontanissimo da Marina di Campo, Isola d'Elba, dove vivevano in santa pace, d'amore e d'accordo, un marito di nome Oreste; una moglie, il cui nome ignoro; un altro marito, seppure non più per il Padreterno e per la legge ma chi se ne fotte, del Padreterno, e ancora meno della legge; e quattro figlioli, tre maschi e una femmina. S'arrangiavano tutti quanti a lavorare; mangiavano tutti insieme; la notte, boh, facevano a turno, facevano tutta una lettata, più spesso dormivano stanchi come bestie, oppure infila tu che infilo io. Quello che volevano. Gli altri scarsi abitanti di Margidore si facevano, come dice Severino Boezio nel De Consolatione Philosophiae, una caterva di cazzi propri; e al prete che veniva a benedire casa per Pasqua si regalavano du' bottiglie di vino, e che se le bevesse ben bene se non voleva che gli fossero rotte sul capo. Sarebbe stata un'indicibile disgrazia, perché il vino era buono.
C'è che a Oreste, tornato a casa dalla guerra, Qualcuno aveva mandato un savio consiglio d'amore, che avrà elaborato, nella sua testa, nelle semplicissime forme che sono proprie delle cose più alte; e quel Qualcuno, ognuno lo chiami come gli pare. Io sono morto, però sono vivo. Sono tornato a casa, e la mi' moglie, che era vedova, s'è risposata e ha fatto bene, l'avrei fatto anch'io. Però non sono morto, sono vivo, e questa è ancora la mi' moglie. Saòsa? Ci si mette tutti insieme, morti rinviviti, vivi, figlioli, maiali, barche, vigne, somari e topa, e vaffanculo, ma che ci si pole stà a ammazzare pe' una cosa del genere? Dovrei ammazzà la mi' moglie? Dovrei ammazzà quel brav'omo? N'ho vista anche troppa di morte, dio sagrataccio.
Madonna, che bellissima nottata nel portico. Dev'essere proprio arrivata la primavera. Sto qui, apro la porta e guardo verso in là. Guardo lontano. Lontano come Margidore.