Magari sbaglio, perché è una cosa che -sicuramente- tocca tutti quanti; chi più chi meno, ma ci dobbiamo fare i conti (in senso traslato e in senso proprio). Di che cosa sto parlando? Ma della famosa crisi, ovviamente; tanti bei conti in tasca, abitudini -almeno così si dovrebbe- più morigerate, le targhe automobilistiche che prima cambiavano una lettera al mese e che ora la cambiano ogni quattro o cinque, gli hard discount non più frequentati soltanto da immigrati...insomma, tanti segnali, piccoli e grandi, che 'sta crisi c'è sul serio, e la si vede.
Detto questo, a me quasi sta cominciando a garbare, e non poco. Sarà senz'altro perché il sottoscritto, in crisi (finanziaria, monetaria, economica eccetera) c'è sin dall'età delle figurine e delle prime, timide pippette: una consuetudine inveterata allo sparagno, all'accontentarsi a volte di una bella giornata e d'una matita, ai vestitacci del mercatino. Singolarmente, la mia crisi eterna si è venuta almeno un po' a mitigare proprio nel momento in cui il mondo spendi-e-spandi s'è ritrovato a dover meditare seriamente sulla grande, enorme importanza di avere dodici telefonini in famiglia, cinque macchine per quattro persone, le vacanzine alle Mardive, le settimane bianche con annessa frattura esposta tibia e perone, e diverse altre cosine tolte le quali una famiglia in tempi di dopiguerre avrebbe campato non bene, non agiatamente, ma addirittura da nababbo. Così è, ed anche se sento già nell'aria parolette magiche tipo ragionamento semplicistico, debbo confessare che, ultimamente, mi sta riuscendo di tornare a certe semplicità che, per un motivo o per un altro, avevo perso; adelante a la reconquista, e pure con mucho gusto.
Ci sono poi, perché no, le cose divertenti in questa crisi. Quelle, insomma, che fanno godere i' popolo. Certo, le godurie del popolo vanno prese sempre con le molle, perché a volte gode nel linciarti, nel metterti alla gogna, nel bollarti come mostro; però non bisogna neppure rifiutarli a priori, 'sti godimenti popolari. In un modo o in un altro sono sempre dei segnali, e spesso ben precisi; più precisi di tante approfonditìssime anàlisi. A meno che non siano pompate ad arte (come nel caso della sicurezza, fomentata già da ben prima dell'attuale crisi) -cosa sempre possibile e grama-, le reazioni popolari, se genuine, sono un'indicatore che sarebbe sbagliato sottovalutare o, peggio ancora, snobbare.
Così, ad esempio, bisognerebbe tenere nel giusto conto l'autentica goduria che tutti quanti (anche quelli che hanno fatto finta di no) hanno e abbiamo provato nel vedere gli eleganti giovinotti e le signorine in taièr sortire dalla Lehman Brothers con in mano gli oramai celeberrimi scatoloni di cartone; addio stipendi da favola (erogati per non fare generalmente una sega, peraltro), addio appartamenti prestigiosi a Manàtta (manàtte ner muso!), addio squòsh, addio Botox, addio ferrarine nel box (che fa pure la rima). Sembra che un manipolo di giòvini spose di ex manager americani abbia messo su un blogghe, nel quale le suddette si lamentavano della povera vita che si sono ritrovate a dover fare da un giorno all'altro, vista la decurtazione satanica degli stipendi dei consorti e, in frequenti casi, anche la decurtazione a zero. Il blog, inutile dirlo, è stato fatto chiudere a tonnellate di insulti. Quando ho visto quella scenetta in tivvù ci ho provato a dirmi: ma poveracci, ma poverine, sono pur sempre gente che si ritrova senza lavoro. Poi ho ripensato al cinquantaduenne che perde un posto alla fresa per milleduecento euro al mese; ho ripensato a una città delle dimensioni del Cairo che potrebbe essere riempita soltanto coi precari di questo paese; ho ripensato alle finanze creative, alla niù ecònomi e a tutto il resto e mi sono messo a berciare come un assatanato, stappando una bottiglia di spumante del Lidl (euro 1,45); e ancora doveva arrivare la vicenda di quel tizio della megatruffa del millennio, quello dello schema Ponzi, i' Madòffe insomma.
Gli scatoloni della Lehman Brothers mi servono oramai per prendermi certe carognesce soddisfaziuncielle, specie con dei tipini ben vestiti per i quali una persona è definita dalla giacchina di marca, dalla camicina Tommy Hilfiger, dalle scarpette da 200 euro a paia. Mi è capitato non molto tempo fa, peraltro con un poveraccio che deve vestirsi a quella maniera perché fa il portiere d'albergo ed al quale voglio tutt'altro che male anche se dice d'essere di destra. Appena varcata la soglia l'ho diacciato: Bàdalo lì bellino! Ti ci manca lo scatolone e tu sembri uno della Lèman Bràderz! E' rimasto lì, con la mano alzata in un cenno di saluto, l'aria inebetita. Mi pento amaramente. Faccio pubblica ammenda. Ma m'è venuto spontaneo.
Eh sì, potremo dire d'aver visto cose che voi umani. D'aver visto persino le agenzie di rating. Ve ne ricordate? Fin dai tempi di Everardo Dalla Noce, ex cronista sportivo che tentava di “umanizzare” Piazza Affari (detta ora, familiarmente, piazza Affarinculo), non passava giorno che dai tiggì, dai giornali e delle agenzie di stampa non arrivassero le notizie sul rating: quella parola che tutti sentivano, e che magari spappagallavano dal pizzicagnolo, al bar o dalla parrucchiera, e che nessuno -naturalmente- aveva la minima idea di che cosa esattamente significasse. E pensare che è presto detto: il rating altro non è che la valutazione di solvibilità di qualunque società emetta delle obbligazioni. Ma certo, dire agenzia di valutazione della solvibilità è troppo lungo e non è “in”; meglio il rating. E poiché, com'è noto, lo stato da un po' di tempo è diventato un' “azienda” (la famosa “azienda Italia”), giù a farsi ratinghizzare a più non posso. Sembrava il campionato di calcio: c'erano le promozioni (in serie AA1 o roba del genere), le retrocessioni (fino alla AA3: al di sotto si era nel terzo mondo o giù di lì), la metà classifica. Alla vigilia di ogni responso, il paese sembrava stare col fiato sospeso: saremo stati promossi? Relegati? Stabili? Il tutto, chiaramente, continuando a non capirci un beatissimo cazzo di niente. Il marito tornava a casa dal cantiere, e la moglie lo accoglieva festante: “Amore! E' s'è stati promossi n'i' ràtinghe! T'ho fatto i fagioli all'uccelletto che ti garbano tanto!”; oppure: “Oh te, pulisciti i piedi che tu se' zozzo come un magnano, 'e ciànno retrocessi n'i' ràtinghe e stasera 'e tu t'accontenti di tonno e fagioli, la cena de' becchi.”
Preposte alle sentenze (inappellabili) sul rating erano principalmente due apposite agenzie ammeregàne dai nomi stravaganti. Una era la Moody's (pronunce correnti: mùdiz, mòdisse, mùdisse, anche mùdi), che più che un'agenzia di valutazione finanziaria faceva pensare a languidi gruppi vocali, rotonde sul mare, dischi che suonano e settembre poi verrà ma senza sole; l'altra era la Standard & Poor's, che ha singolarmente anticipato quel che sarebbe successo dopo (lo standard attuale, infatti, è che s'è tutti pòeri). Imperversavano. C'era la febbre del rating, di fronte alla quale quella del sabato sera impallidiva, sbiadiva, scompariva. Un responso negativo di Moody's era una catastrofe nazionale, un'onta, una vergogna che gettava nello sconforto più nero anche chi seguitava imperterrito a ignorare cosa fosse il rating; un responso positivo si trasformava in una specie di vittoria ai mondiali. Avendo vissuto per un po' all'estero, quando mi ci trovavo avvertivo talora un senso di vuoto, la sera, guardando i telegiornali di France 2, di France 1, della Tv Svizzera Romanda, di Arte: non c'era il rating. Nessuna notizia da Moody's. Come se non esistesse. Eppure, accidenti, vivevo in paesi che pure avevano uno stato e un sistema finanziario; ma non se lo facevano valutare dalle agenzie, o comunque giudicavano i relativi responsi come cose riservate agli addetti ai lavori e non come notizie da dare in pasto la sera, tra la strage sull'autostrada e l'ultima love story di Briatore.
La crisi s'è (finalmente) portata via Moody's e il rating. Non che, probabilmente, i responsi non vengano ancora emessi, anche se le relative notizie compariranno sul Sole 24Ore e sugli inserti finanziari dei vari quotidiani (quei malloppi di carta che vengono, nel 97% dei casi, gettati nel cestino della carta straccia circa 3,2 secondi dopo l'acquisto del giornale, e che vengono ritrovati a migliaia abbandonati sui sedili dei treni): semplicemente ora s'ha altro a cui pensare. Il paese in cui hanno sede Moody's e Standard & Poor's avrebbe ora come ora bisogno di agenzie di smerding ed è tornato ai salvataggi statali dopo decenni in cui ha imposto a tutto il mondo di sregolare, di privatizzare, di “incentivare i mercati”; e tutti, ovviamente, dietro come cagnolini. E così tutti, oramai, si sono scordati del rating. Si può tornare, finalmente, a ballare Nights in White Satin senza pensare a un'agenzia finanziaria.