venerdì 13 marzo 2009

Ci rifiutammo tutti



Ero seduto su un moletto, le gambe ciondoloni, gli spruzzi sui pantaloni. C'era una bottiglia vuota, e non sapevo più neanche di che cosa fosse stata piena; sarà stato di gennaio, sì. Il gennaio del 2002. Erano le tre di notte, non faceva freddissimo; mi accendevo una sigaretta dietro l'altra, scientificamente, mi sembrava quasi di accenderle schioccando il dito. Ogni tanto una crisi dei miei tic; e i miei tic consistono spesso nell'impulso a fare qualcosa che non si può proprio fare, specie se a rischio della vita. Se la crisi mi prende quando sono appoggiato al parapetto di una nave, sta nel fare movimenti, gesti, salterelli per buttarsi di sotto; così su un ponte, così dovunque in alto. Su quel molo consisteva nell'appoggiarsi con le mani a terra, e fare leva per scivolare in mare. Quando ho una crisi di tic, mi hanno detto talvolta che sono uno spettacolo; tra smorfie, denti digrignati, balletti, contrazioni e tutto il resto. Per questo evito di sporgermi, di mettermi a sedere su muretti che danno sul vuoto, di avvicinarmi alle balaustre, alle ringhiere. Quello che chiamo il mio orrore del vuoto non è soltanto la cosa in sé; è la consapevolezza che mi prenderanno i tic, e possono essere pericolosissimi. E' una cosa che ho fin da quando ero bambino piccolo; avrò avuto cinque o sei anni.

Ci vuole uno sforzo di lucidità per resistere. Bisogna guadagnarsela e aiutarsi, specie quando si è briachi come autocisterne, specie quando si vivono certi momenti della propria vita; e in quei momenti, un porto è un luogo cui si finisce sempre per andare. Specie quando ci si abita, a due passi, a portata di barcollo. Bastava arrivare al ponticino e girare subito a sinistra in via del Molo Mediceo; non c'era mai nessuno. Solo una volta due a baciarsi, che non si sarebbero accorti nemmeno se fosse loro arrivata addosso la corazzata Potëmkin vestita da Maga Maghella; tirai oltre senza guardarli. Non c'era nulla da guardare, fino al posto dove andavo a mettermi a sedere. Era quasi sempre vicino alle motovedette dei Carabinieri. Di lì si vedeva tutto il porto vecchio, i traghetti fermi, le barche a perdita d'occhio; e mi sentivo d'abbracciare tutto quanto. Se andavo indietro, e indietro, e indietro, e ripensavo a cosa m'aveva messo in tutto questo, ricordavo un'espressione che mi veniva rivolta da ragazzino; “cane d'un livornese”, mi dicevano. Con mia madre dell'isola d'Elba, e mezza vita passata da quelle parti, il mio accento è sempre stato strano. A Firenze mi pigliavano per livornese, a Livorno per fiorentino. Poi mi sono perfezionato ed è intervenuta la mia personale barriera linguistica. Quando ancora metto piede a Livorno so parlare in livornese, fin dal bivio della FI-PI-LI, perché mi metto a pensare in livornese. Al ritorno, allo stesso bivio ricomincio a pensare in fiorentino. Ma sono cose strane, lo so. Io ve lo dico sempre che nella mia testa ci sono cose bizzarre, non dite che non vi ho avvertito e soprattutto, poi, non fate gli indignati perché, tanto, della vostra indignazione non me ne importa un cazzo.

Cane d'un livornese! E andavo indietro, sempre più indietro; perché un ricordo, un ricordo qualsiasi, impegna la mente; e se la mente s'impegna, i tic arretrano assieme al tuo culo che s'allontana dal bordo del moletto, dalla possibilità di finire in acqua, a gennaio, briaco; senza nessuno intorno, pronto a andare a fondo. Intervenivano, spesso, i compagni. I compagni non c'erano, ma me li fabbricavo. Tutta una serie di personaggi, perlopiù animali antropomorfi, con cui mi mettevo a chiacchierare sottovoce; ed era un dialogo fitto, un bisbiglio continuo sui fatti del giorno, su come andare avanti, su quale pretesto inventare, su quando e come sarebbe arrivata l'alba. Non era l'alba del giorno dopo. Di albe del giorno dopo avevo fatto la collezione. Mi si vedeva arrivare a un bar qualsiasi, il primo aperto, a mangiare come un bisonte. Sono arrivato a bermi, dopo fatta una colazioncina del genere, quattro ponci uno dietro all'altro; poi arrivavo il sole e scrivevo cose dai titoli mica male per i cestini della carta straccia, tipo Una notte di sir Aldingar.

E ci rifiutammo tutti, quella notte.

Io e i miei compagni s'era impegnati a disquisire di qualcosa. Una partita di calcio, forse; o una donna immaginaria. Oppure d'una povera crista sola in un letto, senza più nemmeno a chiedersi dove fossi, o forse sì, e fors'ancora a viversi le sue disperazioni senza che si potesse oramai più abbattere il muro che le divideva dalle mie. Oppure, ancora, a scambiarsi ricette di cucina; dev'essere stato allora che ho inventato la mia “famosa” pasta alla carbonara, un delirio con la tequila infilata nelle uova da sbattere, con la pancetta cotta in mezzo litro di birra, con due quintali di peperoncino. E chissenefrega, dio merda; vadano affanculo, e per il culo d'un elefante diarroico, i puristi della carbonara e della maiala di su' ma'. Oppure, infine, si chiacchierava di quel che si vedeva davanti a noi, io e i miei compagni, gatti per l'aria, formichieri blesi, un buffo coso a pera col ciuffo, un pesce femmina dagli occhi belli. Sì, ci rifiutammo tutti, quella notte di gennaio, di credere che fossero lampare. Erano anche loro dei nostri compagni. Erano tutti lì a dirci che eravamo vivi, che ero vivo, e che non bisognava buttarsi nel mare; né per uno stronzo di tic, né per un male che ti rodeva dentro, né per nessun'altra ragione al mondo. E me ne voglio ricordare oggi, quasi all'alba, lontano dal porto, lontano da quegli anni. Ce l'ho lasciata anch'io qualche cosa sul porto di Livorno, ma non credo affatto sia il cuore; più probabilmente ci ho lasciato me stesso, e tutto quanto, com'ero. C'è ancora, là seduta su quel moletto, un'ombra. Puzza d'ogni cosa. Parla fitta con i suoi compagni, e quando le luci s'accendono sul mare non crede che siano lampare, ma la meraviglia ondeggiante di tutti i fili della vita.