Non fa più freddo, finalmente. Magari tornerà; ma il riscaldamento stasera è chiuso, e fuori si comincia a stare bene senza più il giubbotto pesante. Marzo è tra i mesi che adoro. Detesto l'inverno in tutti i suoi aspetti. Maledette le coperte, i piumoni; maledetto quel tristo dicembre con le sue pseudo-giornate che finiscono alle quattro del pomeriggio, con le sue feste, con le sue brume. E maledetto soprattutto febbraio, ché ringrazio i miei d'aver trombato al momento giusto per non farmici nascere. Mi sarebbe dispiaciuto dover dire che ho un anno in più in mezzo a quel mese idiota, d'invernaccio e d'invernino, senza mai una scusa per essere ricordato. M'è toccata una fine di settembre, che a volte è ancora calda, o tiepida, a condizione di non stare in Svizzera.
Marzo è la fine di tutto questo. A marzo si ricomincia a vivere sul serio, si può andare a fumare fuori senza trasformare il parallelepipedo ipogeo in una versione casereccia di una camera a gas, si può lasciare il giubbotto all'attaccapanni. Domani pioverà? Sì, ma a marzo tutto cambia, tutto è mobile. Di notte è tutto un rincorrersi, lassù; la nuvola cane, la nuvola gatto. Ed è una notte senza luna, questa; cerco di immaginarmela. Nella testa si allungano le giornate, fino al momento meraviglioso in cui scatta l'ora legale.
A noialtri odiatori dell'inverno basta poco per addentare un momento di felicità, con una sigaretta dozzinale tra le dita; basta che l'inverno se ne vada. Ci contentiamo addirittura della percezione della sua partenza, anche se alla sua fine mancano ancora diciotto giorni. Stolido figlio di puttana, lo sappiamo che tornerai; ma intanto va' in Argentina, o in Australia. Raus. Presto si toglierà il piumone dal letto; presto si tornerà a fare l'amore tutti scoperti, sudati. Presto torneranno le amiche zanzare, gli occhiali da sole, le cochecole ghiacciate, le comari fuor dall'uscio la sera, a San Bartolo a Cintoia, sulle seggiole a ragionar d'un niente secolare.
E io? Me ne stavo a fumare, tranquillo, senza dover rendere conto d'alcunché a niente, e a nessuno. I tre pini stavano fermi, e me li facevo ondeggiare con la mente, a mio piacimento. Forse chiudevo gli occhi, che mi prendessero, mi accarezzassero il tempo Chronos e il tempo Wetter. Ché marzo è il ritorno, si può fare ogni cosa a marzo. Sorridere largo, e davanti non c'è un'anima viva. Ci sono le porte dei box, tutte chiuse. Dalle finestre si sente qualcosa che l'immaginazione fa presto a trasformare in musica, anche se è la voce gracchiante d'un calciatore o d'un giornalista; e marzo s'addormenta sulla periferia, si rimbocca la coperta più leggera e comincia a russare di primavera.
Torna, quell'ombra dove Apollo dorme,
A trasparenze incerte.
Il sogno riapre i suoi occhi incantevoli,
Splende a un'alta finestra.
Gli voli un desiderio,
Quando toccato avrà la terra,
Incarnerà la sofferenza.
Giuseppe Ungaretti, "Notte di marzo", 1927.
Un grido, un insulto,
una voce che urla – Martina -
di marzo, di notte, per strada.
Martina che scappa
incerta sui tacchi, fra incerti
lampioni e pozze d’acqua.
All’angolo il vento l’abbranca,
la fruga violento, le strappa
le vesti, la bacia
dentro la bocca.
Martina stordita
si arrende alla danza,
pazzia dell’altrove, del vuoto.
Martina, le braccia dell’uomo
che corre a salvarti
ti tengono al suolo, Martina.
E il vento rabbioso,
menando colpi di coda
ai muri dell’alba,
sparisce ingoiato
dal giorno che avanza.
Riccardo Mannerini.