Verso le quattro e mezzo, le cinque, le cinque e mezzo di mattina, sento, con tocco gentile e strano, bussare alla porta. Sono le Storie; e io sarò morto quando avrò smesso di raccontarle. Anche se, putacaso, fossi ancora vivo. Entrano, si accomodano tranquille, mi aprono il frigorifero e si servono. In casa mia non c'è nessun problema, poi: si fuma a proprio piacimento. Le case che non puzzano di fumo sono case senza storie, sono case di televisioni che troneggiano, case d'inutili e lindi soprammobili, di famiglie inebetite. Arrivano nel mezzo, le Storie, delle mie curiali notti d'ingaglioffato in un quartiere di periferia; e con esse viaggio libero, navigando fino al porto dell'alba quando, da dominatrice, nel silenzio acuto entra la luce.
E le Storie vengono, in parte grande, dall'Isola. Per due motivi principali. Perché l'Isola è il mio luogo della memoria; e perché il più della mia gente, o di quel che ne rimane, viene di lì. Specialmente le donne. Le Storie sono donne. Sono nonne, zie, parenti anche lontane; sono vicine di casa, vecchie di passaggio, cugine di quando da ragazzi s'amava ragionar di sogni. Da parte di mio padre, ci sono invece sempre state poche storie. Mio nonno ne raccontava poche, e quella più grande che aveva se l'era seppellita per sempre dentro se stesso. Mio padre lavorava, chino sul suo tavolo da disegno tecnico, tra inchiostri, normografi e pennini. Faceva a mano, in venti giorni, quel che un plotter ora fa in due ore e mezzo; però io, che disegnare proprio non ho mai saputo, non guarderei mai affascinato un plotter. Mio padre, spesso, lo stavo a guardare sbalordito, chiedendomi come facesse, e perché a me non riuscisse. Disegnare. È stato anche stando a guardare mio padre che m'è nata la voglia di disegnare con le parole, per quanto mi fosse possibile.
Però ne raccontava sempre una, di Storia, mio padre. Periodicamente. Diversa da quelle delle donne dell'Elba, dove il sole a picco, la polvere di granito e il vino grosso fabbricano le mattane della fantasia e del rimbeccarsi su dettagli che dicono, a chi le ascolta, di stare al gioco e d'entrarci dentro, nelle Storie. Da bambino ho imparato a ascoltarle in questo modo; ché quelle donne sapevano raccontare proprio perché l'ascoltatore chiudesse gli occhi e non solo s'immaginasse, ma partecipasse. Perché avesse la libertà di cambiarle come e quando gli pareva.
Diversa, quella storia di mio padre. Diversa e semplicissima. Nessuna mattana, nessuna fantasia. Era la storia, sua propria, d'un ragazzino di tredici anni che, in una città lontana dal mare e da ogni isola, aveva finito la scuola elementare; che, allora, durava fino alla sesta. Se ne usciva a dodici o tredici anni, e le scuole medie erano già per i ricchi. Lui era figlio d'un ferroviere e d'una casalinga, con due sorelle maggiori che già portavano i soldi in casa, coi lavori manuali e donneschi. Ricamo a mano, rammendi, pulizie nelle case dei signori. Mio padre era del '24; l'anno è il 1937. In quell'anno, finite le scuole, e con il maestro che implorava i suoi genitori di fare un sacrificio e di mandarlo alle medie perché era intelligente e aveva gran predisposizione alla tecnica e al disegno, gli toccò invece d'andare a fare l'apprendista operaio. Rispose così mio nonno: “Qui se tutti vanno a scuola, chi ci va più a fa' l'operaio?”
Ché, essendo l'unico maschio tra i figli, uno stipendio d'operaio faceva comodo. Poco guadagnavano le sorelle coi tomboli, coi ricami e con i cenci da dare in terra, e guai se non si tirava a lucido da scivolare. Dopo la fine della scuola, a mio padre fu permessa una cosa bizzarra, come del tutto bizzarro era mio nonno: un'estate per la strada. Senza orari. Senza costrizioni. Dai primi di giugno fino al venti di settembre in punto. Gli brillavano gli occhi a mio padre, quando ricordava l'estate del '37; abitavano, allora, in via Taddeo Alderotti ch'era quasi campagna, verso Careggi. L'ospedale ancora non c'era; pochi passi in quel quartiere allora di periferia, e c'erano campi e colline. C'erano ragazzacci e ragazzine. A volte non tornava a casa manco di notte, tra le proteste di mia nonna; mio nonno diceva: “Avrà da patì' dopo”. Una volta un vigile urbano lo riportò a casa tenendolo per un orecchio, perché s'era messo a spaccare lampioni a sassate. Probabile, anche se non l'ha mai detto, che qualche bimbetta gliel'abbia fatta vedé' e magari pure toccà'. Le prime sigarette arrotolate; e con quell'estate di libertà totale, mio padre cessava d'essere un bambino e diventava un uomo, anche se forse non lo sapeva, anche se forse non gliene importava nulla. Il ventuno di settembre, alle sei di mattina, dovette presentarsi alla fabbrica dove mio nonno, con qualche sua conoscenza in ferrovia, gli aveva trovato un posto da apprendista: una fabbrica di chiavi.
Con la tuta da operaio cucitagli dalle sorelle. La gavetta col mangiare. Il basco messogli in testa da suo padre, ché voleva dire: tu sei un omo. Allora nessun omo usciva senza il copricapo. E furon le sei e mezzo di mattina, quando entrò un tizio in mezzo ai macchinari che mio padre guardava affascinato, appassionato com'era di qualsiasi cosa che fosse tecnica, ruote che giravano, meccanismi, marchingegni. Il tizio era il direttore del personale, ma si faceva chiamare “capoccia”. Girava con un'uniforme della Milizia fascista, di cui faceva parte, e teneva un frustino in mano. Chiese dov'erano gli apprendisti; assieme a mio padre ce n'erano altri cinque o sei.
Senza nemmeno dire un “buongiorno, ragazzi”, li prese con sé e li mise a delle macchine dove c'erano degli operai esperti, quelli che dovevano insegnare il mestiere ai nuovi entrati. Tredici anni, quattordici, quindici; bene farlo presente, e presente sul serio, a quelli che dicono che i “sindacati sono la rovina”. Come apprendista, mio padre prendeva un salario di centesimi cinquanta all'ora; la giornata di lavoro durava dalle sei di mattina fino alle sei di sera, con mezz'ora per mangiare, il divieto di parlare se non per fare domande sul lavoro, l'assenza di ogni assicurazione e guai a sgarrare perché il capoccia il frustino non lo teneva per figura. Lo adoperava.
Le chiavi sono quelle cose che servono per aprire e chiudere le porte. Proprio allora era stata importata da altri paesi la cosiddetta “serratura all'inglese”, quella che usiamo ancora oggi, con le chiavette zigrinate; i macchinari erano nuovi, gli operai specializzati ancora li sapevano usare male, ed erano pericolosi. Da rimetterci un dito o una mano. E, infatti, al quinto giorno di lavoro uno degli apprendisti che erano entrati con mio padre, ci rimise due dita. Gli apprendisti dovevano imparare alla svelta perché non erano lì per giocherellare: dovevano far fare soldi al sor padrone, iscritto al Partito Nazionale Fascista, con la villa a Settignano e l'automobile. Il capoccia passava ogni mezz'ora, a passo marziale, e controllava i ritmi di lavoro con un cronometro a cipolla. Se non si rispettavano i ritmi di lavoro previsti, al primo avvertimento erano urli e minacce; al secondo, due colpi di frustino sul culo; al terzo, il licenziamento in tronco. La fabbrica era stata messa apposta in un quartiere di comunisti; quello in cui era nata la prima società operaia della città, all'inizio del secolo; quello che, alla fine della guerra, gliela fece pagare salata al sor padrone. Al capoccia no, perché aveva pensato bene d'immolarsi per la Patria in Albania, o in Grecia, o chissà dove; al sor padrone, invece, lo rincorsero e lo bastonarono fitto in piazza Dalmazia, lasciandolo per terra con qualche ossicino da raccomodare. E gli andò pure dimolto bene, perché lo lasciarono vivo.
Quando mio padre raccontava del capoccia col frustino, lo vedevo a volte alzarsi in piedi e mimarne il passo; quando non aveva voglia d'alzarsi, mimava il passo con le dita. Anche a tavola, a volte, mentre si mangiava. Abituato a lavori di pazienza, certosini, era un tipo per natura ripetitivo; quella storia la finiva sempre con la frase più tipica, rivolta a me e mio fratello. “E vu' avete visto un bei' mondo”. Imparò a fare le chiavi. Due mesi dopo, a novembre, con un freddo da pelare nel capannone perché di riscaldamento non ce n'era, nel maneggiare roba d'acciaio gli presero i geloni alle mani e dovette restarsene a casa per qualche giorno; senza stipendio. Mica penserete che gliela dessero la paga, se era malato, e perdipiù se si era ammalato proprio grazie alle condizioni di lavoro (per un tredicenne): se stai a casa non pigli nulla. Gli operai ch'eran padri di famiglia andavano a lavorare anche malati, anche sputando sangue se necessario. Tornò dopo dieci giorni senza paga e lo rimisero alla macchina, col suo maestro; ma aveva ancora le mani non a posto, perché al terzo passaggio del capoccia gli toccò assaggiare il frustino sul culo. Tornò a casa e lo raccontò a mio nonno.
Il giorno dopo, alle sei di mattina, mio padre si presentò in fabbrica accompagnato da suo padre. Il quale aspettò il capoccia che arrivasse, tronfio, vestito da miliziano. Chiese di parlargli a quattr'occhi e i due s'appartarono. Mio padre dice di non aver mai saputo cosa si fossero detti; vide il capoccia tornare dentro senza salutare nessuno e con la divisa un po' in disordine, zoppicando leggermente. Mio nonno prese mio padre e se lo riportò a casa: “Babbo...ma devo anda' a lavorare!” “No, a lavorare qui 'un ci vai più. Vai a fa' qualcos'altro. Se trovo i soldi ti mando alle professionali”. Però gli ci vollero anni per trovarli, quei soldi; da mandare i treni fino a Ancona, a Roma, a Genova e a Milano s'era ritrovato a mandare quelli per Carmignano o per Bagni di Lucca. Stipendio dimezzato o quasi, sulle tratte locali; il capoccia era andato dal sor padrone, il sor padrone era andato da qualche altra parte, e il macchinista s'era ritrovato sui trenacci di campagna. Lui che sapeva mandare l'elettrotreno. Lui che era stato tra i primi a fare la Firenze-Bologna con la galleria degli Appennini, quella stessa galleria sotto la quale i nipotini del capoccia e del sor padrone avrebbero, qualche decennio dopo, messo le bombe sui treni. Quando c'era Lui i treni arrivavano in orario; quando non c'era più, i suoi seguaci i treni li facevano ritardare. A volte per sempre.
“Bei' capo di laòro t'ha' fatto”, diceva mia nonna a mio nonno. “Se tu' avessi dato retta a'i' maestro e tu gli avessi fatto continuà' la scola!”. Mio nonno non diceva mai nulla; poi arrivò la guerra. Così come ora sta arrivando la luce del giorno. Le Storie salutano, gentilmente, e se ne vanno; stanotte avevano poca voglia di fantasia, e volevano forse saldare un debito. Finisce la notte, la città si sveglia e io vado a letto; ci son disegni di meraviglie, ci son disegni di macigni e tutti quanti bisogna disegnarli.