C'è bisogno del terremoto, perché questo paese -o comunque lo si voglia definire- ritrovi e riveda le sue facce. Quelle non mediate da niente, perché il dolore spiana quasi più del terremoto. Quelle nella polvere di un'alba livida, quelle dei vaganti nel vuoto, quelle del risveglio che sembrava un incubo, e che invece era ben peggiore. E tornano le facce antiche d'un paese antico, quello che si credeva sepolto nell'ignava pancia piena; persino la faccia di Bruno Vespa, nella sua città devastata, riesce ad assumere un barlume di umanità. La riperde immediatamente, non appena varcata la Porta a Porta.
Ci sono le facce degli abruzzesi in questo terremoto che, per la prima volta, propone morti venuti da lontano. In Friuli erano tutti friulani. In Irpinia erano tutti irpini. In Abruzzo ci sono bambine russe, studenti greci, badanti albanesi, lavoratori macedoni, immigrati magrebini e rumeni. C'è persino il ragazzo scappato da Gaza, la cui storia viene raccontata contemporaneamente all'offerta di fraterno aiuto alle popolazioni colpite da parte di Israele. Mi sono immaginato la scena. Il ragazzo di Gaza sepolto nelle macerie abruzzesi che viene magari salvato da una squadra di soccorso israeliana. “No! Ancora voi!” -dice mentre lo tirano fuori. “Avete raso al suolo anche L'Aquila!” Fine dell'immaginazione.
Facce di ragazze, di vecchi e di vecchie, di uomini. Non si sa da dove vengono. Il terremoto cancella esistenze che nemmeno lontanamente si riescono a immaginare, e stavolta non c'è più niente di compatto. I paesini di montagna, quelli dove le case vecchie o addirittura decrepite costano meno, sono proprio quelli dove si concentrano gli immigrati e le loro famiglie; villaggi ancora coi nomi da Víteliú entrano nel mondo nel momento esatto in cui la morte li trascina con sé, assieme a nomi del Riff, di Priština o del Banato. E chi vive ancora, mostra la propria faccia senza più nulla. Le proprie mani che scavano.
Scava alla ricerca della ragazza rumena sepolta anche chi, tre ore prima, davanti alla tv inveiva contro quella maledetta razza di criminali. Scava alla ricerca della vecchia aquilana il ragazzo marocchino che, tre ore prima, meditava di tornarsene a Marrakech e di lasciare questo paese di razzisti. Scavano mentre arrivano autocolonne da regioni del nord dove gli abruzzesi sono più o meno visti come i marocchini. Si invocano magari tutti gli dei e tutti i santi di questa o quella religione mentre crollano le chiese. Si sarebbe scavato anche nelle rovine dell'eventuale moschea alla ricerca di sopravvissuti, tre giorni dopo l'altrettanto eventuale manifestazione di protesta contro la sua costruzione.
E sempre facce, facce livellate nella paura, ché la paura è un anticipo tremendo dell'equalizzazione della morte. Le televisioni sono spente. Dimenticata ogni differenza. Si arriverebbe a voler linciare l'abruzzese che sciacalla nella casa distrutta del macedone. Si arriverebbe persino a ricordare che siamo tutti esseri umani messi in questo mondo, che é largo e stretto al tempo stesso, e che ha anche una sua profondità di cui ci si ricorda soltanto quando invia le sue onde sismiche da dieci o venti chilometri più sotto.
E si apre davvero il Libro delle Facce, quello vero, non quello inventato per perdere tempo. Si apre, e un giorno si richiuderà quando tutto sarà tornato alla famosa “normalità”. Allora torneranno gli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani. Torneranno i rumeni che stuprano. Qualcuno dirà allo studente di Gaza di tornarsene a casa; nel frattempo, le placche tettoniche fanno il loro lavoro. Lo fanno da milioni di anni. Il lavoro di far notare ad ogni essere umano che la vita è tutto quel che si ha davvero; e tutto il resto è superfluo. E a tutte quelle persone che sono state colpite dal terremoto, lo si legge in faccia.