Da un po' di tempo ho imparato ad essere più attento, quando mi metto alla tastiera con l'intenzione di raccontare qualcosa. Di solito, qualunque fosse la consistenza di quel che narravo (nel senso che ha nella lingua sarda: narrare è il verbo comune per “dire”), mi piaceva essere molto preciso: luoghi e nomi. Poi mi sono accorto che il mio modo di elaborare le cose che vedo è soltanto mio; e, allora, meglio essere tanticchia più prudente. Ad esempio per questa storia; vi avevo accennato qualche giorno fa. Avevo cominciato a scriverla, ma c'era qualcosa che non andava. La stavo scrivendo, a partire dal titolo, coi suoi veri nomi; meglio di no. Meglio stendervi un paio di veli sopra. Meglio ricoprire tutto quanto. Anche perché non è poi tutto 'sto gran ché di storia, come del resto tutte le altre. Io non vivo e non ho mai vissuto avventure mirabolanti; forse una sola, ma non amo affatto parlarne.
Restando quindi estremamente sul vago, dirò che, per certi miei motivi, qualche notte fa mi sono trovato in un posto un po' bizzarro. Bizzarro forse per molte persone, che la notte sono (giustamente) abituate a dormire; questa, per me, è invece un'abitudine che sposto quasi sempre alla mattina, o al pomeriggio. La notte, generalmente, sto sveglio. In casa o fuori. Quando sono fuori, mi capita spesso d'entrare in altre case dove non sono mai stato e dove non starò mai più; una fugace apparizione, in situazioni quasi sempre poco piacevoli, faticose, a volte persino comunemente dure, banalmente pericolose. La notte, quando dormite, c'è un'altra città; ma non ha nulla di straordinario. A nessuno prenderebbe mai la voglia di farci un film o un fumetto. C'è solo il buio sopra ogni cosa.
Da un suo capo all'altro, a volte addentrandomi in improbabili campagne, la percorro. Coi capisaldi del conforto per una birra, un panino, un caffè: tutta la mappa dei bar aperti 24 ore, dei porchettari, delle pasticcerie che aprono alle cinque -che di questa stagione comincia a essere l'alba. E càpita davvero di doverla girare tutta la santa notte, la città: in due, fumando anche se non si potrebbe, ragionando del più e del meno, in compagnia di qualcuno che vedi solo in quell'occasione. Raccontandone, sento il bisogno di farlo senza esagerare niente, senza indulgere alla minima nota di “autoeroismo”: si tratta semplicemente di un servizio, anche se succede di mettere un granello per salvare una vita. Succede poi di vedere anche cose buffe e divertenti. Succede di vedere diciotto minuti d'una disperazione. Succede di rischiare di pigliarti una piattata in testa, durante una lite familiare. Succede di osservare cosa può fare un coltello. E di dover stendere un lenzuolo sopra qualcuno che non se ne accorge più. Finita la notte, si torna a casa; chi va a lavorare, chi si mette a letto, chi fa altre cose. Non se ne parla più. Ne parlano i giornali nei casi che interessano la cronaca, ma a me la cronaca interessa poco; l'unica volta che sono finito, involontariamente, su un giornale con una foto avevo un'espressione a metà fra l'imbecille e il cadavere, e di cadaveri ne avevo visti cinque. Due di loro avevano un'espressione stupita, incredula.
Già, ma dovevo raccontare la storia. A pensarci bene, è presto detto. Verso le tre della notte mi sono ritrovato in uno spazio dove sembrava non ci fosse più il tempo; o, perlomeno, è l'impressione che mi stava in quel momento facendo. Non che non ci fossi mai stato, tutt'altro; sovente, addirittura, in medesime notti. Anche quando bisognava farci aprire il cancello dalla guardia armata, perché là dentro c'erano i matti (che, peraltro, scappavano lo stesso). Anche quando, a volte, si sentivano delle urla di quelle che non si scordano tanto facilmente; urla in una notte normalissima. Ora, invece, il cancello è sempre aperto. Non c'è più nemmeno un custode. I luoghi delle urla sono diventati decine d'altre cose: il bar, il teatrino dei musicanti, la villa occupata dagli anarchici, il percorso di educazione stradale, l'unità sanitaria, i centri diurni. E' un luogo vastissimo, con viali e vialetti senza nome pur avendo le dimensioni di un paese; in uno di questi vialetti c'è una vecchia costruzione, mezza diroccata, con le vestigia di un mural.
Ricorda, questo mural, di un episodio vecchio e dimenticato; di un ragazzo ammazzato mentre manifestava contro la repressione; di un grande poeta che arrivò, una volta, in questa città, a parlare di maestà del popolo che regnava. Il poeta era morto da due anni, allora; si sta scrostando tutto. Tra poco non ne rimarrà più niente, e nessuno ovviamente pensa più, ora, a preservarlo sia pure come semplice memoria. Può darsi che, semplicemente, la costruzione che gli fa da supporto crolli da un giorno all'altro: e così, via tutto quanto. Via il ragazzo morto. Via il grande poeta. Via pure la maestà del popolo, ché quella, del resto, è andata via oramai da un bel pezzo senza che ci sia stato bisogno di far crollare quella povera stamberga. Di fronte, un'altra costruzione. Senza nessun pericolo di crollo, almeno sembra e si spera. Notte umida, freddina dopo un'illusione d'inizio estate. Ha un nome, questa costruzione.
Si chiama, anzi non si chiama affatto, Il Patio delle Camelie. È un bellissimo nome, senz'altro; solo che non c'è nessun patio, e non si vede alcuna camelia. Magari c'è anche; ma è buio pesto. È appena cominciata l'ora e mezzo della notte più fonda, quella che va dalle tre alle quattro e mezza; l'ora del deserto, come la chiamo sempre. Camelie o non camelie, patio o non patio, noialtri che si gira di notte in quegli strani recessi lo sappiamo benissimo cosa sia e chi ci stia dentro; bisogna aspettare che qualcuno venga a aprire una portaccia vetrata di metallo, ché, di certo, quel posto non lo si poteva chiamare L'Uscio a Vetri. C'è il tempo per dare un'occhiata al mural che si disfa, illuminato dalle fotocellule ausiliari sulla Barra Federal (si chiama così ma non vi dico che cos'è). Lo sappiamo benissimo, sì, cos'è. È la storia di quel posto. Ci stanno i matti. Prima stavano ovunque, lì dentro; ora, alcuni di quelli che non hanno più nemmeno una porcilaia dove stare, stanno nel Patio delle Camelie; come R.V. (iniziali false), ad esempio, che aveva deciso di far ammattire tutti quanti, compreso il qui presente. Quando un matto decide di far ammattire, ha una competenza estrema; siccome è matto, si fa meravigliosamente e straordinariamente beffa d'ogni logica, e agli ammattendi chiamati a prestargli assistenza non resta che armarsi di pazienza.
Che cosa avesse lamentato R.V. non ha importanza dirlo; ma, addirittura, era arrivata una specie di mezz'esercito. Appena arrivata l'armata, era guarito. Non voleva più l'esercito. Voleva tre cose: un bicchiere d'acqua, una sigaretta e che non gli mettessero addosso tutta una serie di apparecchi che fanno bip bip. Per l'ultima di queste cose aveva degli argomenti convincenti: si trattava infatti d'un nòdo d'un metro e ottantacinque per una novantina di chili; in più, matto. Hai voglia di ragionarci tu con uno del genere? Vieni, vieni. Anche se magari sai le tènniche. Anche se hai una preparazione specifica. In quel caso, sei molto più matto di lui. Io non lo sono; e allora sono rimasto bello fermo e zitto. Pure con una leggerissima strizza addosso. Ma non è questa la storia. La storia è un'altra.
In quel posto là, anni e anni prima, avevo visto come si procedeva in questi casi. Una cosa che, tra l'altro, devo avere raccontato quando facevo ancora nomi e cognomi veri. Credo sia stata una delle esperienze più schifose della mia vita. Stavolta, invece, è successa una cosa assai differente. Proprio mentre, con somma prudenza e l'intenzione di darmela coraggiosamente a gambe al minimo accenno di trattamento, ché non sono certo nato per fare l'eroe e che comunque ne avrei toccate quante un ciuco, mi ero messo a vagare un po' per il Patio delle Camelie, fuori dalla stanza dove R.V (iniziali sempre più false) faceva il diavolo a quattro. Edificio di rara bruttezza, quel “Patio”. Corridoi spogli pitturati d'un begìno squallido. Un tranquillo, silenzioso squallore. Ma anche, cosa del tutto singolare, un pochino d'ordine e i bagni pulitissimi; ché me li ricordavo i bagni di prima, da quelle parti, con un puzzo di piscio atroce (come dovunque) e la merda incrostata sui muri. Mi ricordavo le monture degli addetti ai lavori, più zozze dei muri incrostati di merda. Mi ricordavo tutto e forse anche troppo. E' comparso un addetto, appunto; o forse c'era già e non me ne ero accorto. Giovane. Coi vestiti in ordine, mentre l'esercito si addannava col matto che aveva cominciato persino a prenderci gusto; e che gli vuoi dire. Sarà stato il suo divertimento. In quei posti non ci si diverte tanto, per non dire punto.
Con la massima calma ha fatto tutto quello che non si doveva fare. C'era il cartellone “VIETATO FUMARE” e lui, carezzando il testone rasato di R.V. (iniziali falsissime), ha cacciato fuori dal taschino una MS e gliela ha offerta. E pure accesa. O andate a dirlo a Sirchia! E poi, puttana dell'eva, mica aveva chiesto un bicchiere di Dom Pérignon; voleva un bicchier d'acqua. E così, il tizio giovane è andato alla cannella del bagno e, pensate un po', ha riempito un bel bicchierone d'acqua e glielo ha portato. E R.V. (delle iniziali oramai non dico più niente) se l'è bevuto e ha tirato pure un rutto. Noialtri, quelli dell'esercito, tutti quanti zitti come mosche. Siccome siamo tanto bravi, non c'era venuto a mente di fare così; e mal ce n'era incolto, perché s'era lì da un'ora a fare i bischeri, chi a berciare, chi a girare per i corridoi. È arrivato un ragazzo, ché ragazzi come lui prima non ce n'erano e c'erano invece avanzi di galera che facevano gli ex-pugili, e ha contravvenuto alle regole. Sigaretta e acqua. E carezze sul testone del matto. Ci si è messo anche a scherzare, mentre, buono buono, finalmente s'è fatto sistemare gli apparecchi che hanno rivelato che era più sano di me, di te e anche di tua nonna in carriola, caro il mio lettore, cara la mia lettrice. E alla fine, per la gioia di tutti, s'è addormentato. Non proprio come un bambino, ché russava come una sega circolare; ma su questo fatto io devo ragionevolmente stare zitto. Ho costretto una giovane cittadina della Confederazione Elvetica a dormire coi tappi nelle orecchie per tre anni; e temo, se mai rimetterò piede nella terra di Guglielmo Tell, di essere additato al pubblico disprezzo per non dire messo alla gogna.
Insomma, tutti felici e contenti? Una sega. Quando il tizio giovane che contravviene alle regole, e un suo collega, hanno richiuso la porta del Patio delle Camelie, quando metà dell'esercito se n'è andata a correre altrove, quando l'ora del deserto si stava avvicinando alla fine, mi son venuti dei pensieri un po' confusi; e siccome sono confusi, non li dirò. Dovevano avere a che fare, però, col fatto della porta chiusa; e con l'immaginarmici io, in quella stanza, a chiedere un bicchiere d'acqua e una sigaretta, solo come un cane. Oppure, caro lettore, diletta lettrice, prova almeno per mezza volta a immaginartici tu, così per fare; o anche no, va da sé. Sia mai. Non darmi retta e vivi felice, magari senza giocherellare alla distruzione e senza lamentarti eccessivamente del mondo di merda.
Per quel che mi riguarda, prima di riavviarmi, ho dato un'ultima occhiata al mural là fuori. Mi sentivo, al cospetto di quei gesti semplicissimi d'uno sconosciuto, un mediocre circondato da me stesso. Accettando questa mia condizione, e prendendone pienamente atto, mi è caduto l'occhio sulla scritta della “maestà del popolo che regna”; e avevo appena visto regnare la maestà d'un ragazzo qualsiasi, che faceva il suo lavoro per mille euro al mese, se li piglia. Ho rimesso in moto, ho spento le fotocellule e il buio ha inghiottito ogni cosa. Un buio al quale vorrei offrire una specie di fiore; magari, che so, una camelia.