Mi piacerebbe usare i nomi, perché li conosco. Non è neppure perché non siano noti: c'era di mezzo un libro, e un libro pieno di storie dure. E dolorose. E vere. Raccontate a un giovane giornalista a cui era sorto l'imperativo di riannodare dei fili; cosa che ha fatto. Non si trattava di fili semplicemente rotti, bensì di fili spezzati. Non si erano rotti da soli. Non li scriverò, qui, quei nomi, forse per prudenza, forse per pudore. E forse, anche, per altri motivi che mi terrò per me; non ultimo perché mi trovavo di fronte a un'appartenenza che ho ritenuto opportuno non invadere, sia pur minimamente. In questo, realmente, mi sono sentito cambiato, diverso. Né migliore e né peggiore; solo un'altra cosa rispetto a ciò che sono stato.
Una sala gremita, in cui sono stato tante altre volte. Un luogo che mi è assolutamente consueto. Ciò che non percepivo consueto era il silenzio, mentre chi era sul palco stava parlando. In altre occasioni, anche importanti, si avvertiva sempre un brusio; non sabato sera. La presentazione di un libro, di cui già conoscevo l'esistenza e che avevo cercato: impossibile. Esaurito. Un libro che, in un frangente del genere, può ricevere soltanto pubblicità sotterranea. Gente che ne parla, in rete o in giro. Un frammento pubblicato su un sito. Un paio di recensioni. È la storia, anzi sono le storie, di un gruppo di ventenni o poco più. Storie di ribellione, rivolta e lotta armata; è l'unica citazione diretta che mi concedo, questo sottotitolo. Duecentocinque pagine dense di tutto.
Il martedì sera, in quel luogo, si svolge l'assemblea. Non l'autore, ma uno dei protagonisti di quelle storie, ha sentito il dovere, in modo sommesso, di parteciparvi per chiedere che la presentazione di quel libro si svolgesse lì. Ero presente. Il silenzio è cominciato là, perché tutti sapevamo chi ci stava chiedendo quella cosa. Alla richiesta precisa sono seguiti momenti, lunghissimi, in cui nessuno se l'è sentita di dire nulla; e, almeno lo sospetto, non perché qualcuno volesse opporsi. Perché ci sembrava una cosa che andava ben oltre quel luogo. Nessuno di noi sa che cos'è stata, e che cos'è, la lotta armata; neanche quei pochi presenti che, per età, erano presenti e coscienti politicamente in quegli anni. Chi stava parlando, si era fatto invece ventuno anni di carcere per banda armata, scontati interamente. Aveva visto morire di mala morte dieci compagne e compagni. In un gruppo che, come del resto specificato fin da subito nel libro, si rifaceva ai Dannati della Terra. Da qui il silenzio. Poi è successa una cosa strana. Alle assemblee del martedì sera, io prendo la parola più che raramente; si era presentato il problema dei pochissimi giorni che sarebbero intercorsi, per fare un minimo di pubblicità, di diffusione dell'iniziativa. Ho preso la parola per dire che quel libro girava oramai da più di un mese, forse un mese e mezzo. Che la pubblicità e la diffusione se l'era già fatta da sola, o per tramite di chi ne aveva parlato in rete. Cercandolo in una libreria cittadina, la commessa mi aveva risposto che le quattro copie pervenute erano volate via in un pomeriggio. Su quei Dannati della Terra, in questa città e altrove, sembrava essere caduto l'oblio; non era, evidentemente, affatto così. Ci devono essere ombre che camminano, ma sono ombre vive. Ne avevamo una lì, seduta sulle pancacce della mensa, con un berretto di lana in testa e una sigaretta in bocca. Il mio intervento è durato pochissimo, perché poco c'era da dire. Se ha avuto un merito, è stato forse solo quello di sbloccare gli altri. Logico che, sabato, il libro sarebbe stato presentato lì; quella persona ce lo aveva chiesto espressamente, anche se quasi con timidezza, con dolcezza addirittura. Parlando a bassa voce.
Sabato sera, alle sei. Finalmente il libro lo posso prendere, perché ne sono state portate una cinquantina di copie. C'è l'autore, giovane, gentilissimo. Ci sono due fratelli; uno di loro era la persona presente martedì all'assemblea. C'è un altro signore che appartiene a un archivio storico, cui sarà probabilmente demandata un'introduzione; e c'è un anziano avvocato. I ventenni di tanti anni fa, che avevano lottato, che si erano messi in gioco, che erano stati distrutti dallo stato con la morte e con la galera; il difensore; lo storico; il giornalista appena nato a quei tempi, eppure al tempo stesso il riannodatore. Questo il palco. Tra il pubblico, visi che mi erano consueti, altri soltanto conosciuti, altri ancora visti per la prima volta. Dovessi definire l'atmosfera che si respirava in quella sala, era rarefatta. E qui non farò un rendiconto di quel che è stato detto durante quella presentazione. Il rendiconto è il libro stesso. Chi lo vuole trovare, basta che si serva di quell'unica citazione diretta che ho fatto poc'anzi.
Ho visto lacrime sul viso di una delle persone che parlavano; ne ho sentito la voce rotta. Stavano parlando della loro vita, della loro gioventù morta. Ho sentito usare il termine "famiglia" in un modo raro, e ho sentito dei nomi. Il 29 ottobre 1974 avevo undici anni e stavo dentro una cantina condominiale: da un mese era la mia stanza. Fui chiamato per il pranzo col segnale consueto: mia madre mi spegneva la luce da casa con un interruttore, e poi la riaccendeva subito. Arrivò mio padre terreo in volto; tornando a casa era passato da una piazza bloccata. "C'è stata una rapina, ci sono stati tre morti", disse solo questo; aveva sbagliato. I morti erano stati due. Non ci capii niente. Rapina, morti, spari: erano soltanto dei film per me. Gli assalti alla banca dei western; e non posso dire altro. Eppure, mentre stavano parlando quelle persone per le quali quei due morti erano dei compagni, degli amici, dei fratelli, sono tornato indietro. Si è spenta e riaccesa la luce della cantina. Ho chiuso gli occhi; e è squillato il telefonino. Era mia madre. Una goffa fuga per rispondere, travolgendo quasi della gente. Poi sono tornato dentro.
Zitto, ad ascoltare. E a percepire una cosa che, malauguratamente, non mi è rimasta in passato troppo chiara. Non si può inventarsi un'appartenenza. Non la si può basare né sulle proprie idealità, né sui racconti altrui. L'appartenenza esiste solo in quanto presente e vissuta sulle proprie spalle, sulla propria pelle. Di fronte avevo persone che me la stavano raccontando, nel libro altre persone la esprimono. Mi sono ritrovato, quindi, in una specie di terra di nessuno. A combattere, come sempre, tra un ingenuo desiderio di situarmici in qualche modo, e la coscienza precisa che non solo questo è impossibile, ma che mi ha provocato degli sconquassi tremendi. Ma, stavolta, mi è subentrata una strana serenità. Quale che sia, ho una mia appartenenza. Se avrò modo, e se ci sarà la necessità di esercitarla, non mi tirerò indietro. Ascoltavo storie di persone che non si sono tirate indietro, che si sono assunte delle responsabilità; e la responsabilità non è in alcun modo retrodatabile. Non ho sentito più paure. Non ho sentito più rancori. E vorrei che il futuro fosse oggi.
Corre purtroppo l'obbligo di segnalare che la pubblicità ha funzionato benissimo anche nei pochi giorni tra il martedì e il sabato. Dico "purtroppo", riferendomi al solito volgare tentativo di certi squallidi personaggi che hanno presentato interrogazioni sulla presenza di terroristi, ed altre miserie consimilari. Non ne avrei fatto menzione, se non la avesse fatta anche una delle persone che parlava dal palco. Ricorrere in questo caso al vomito sarebbe un'offesa nei confronti del vomito.
Dentro quella sala, ad un certo punto ho pensato una bizzarra cosa. Ho pensato a che cosa quel che veniva detto, espresso, raccontato stava operando su ognuno dei presenti. Ricordi, rabbie, incubi, desideri mai sopiti, visi, relazioni, storie, galere, amore, durezze, tutto. Poi c'è stata una cena, e nessuno è andato via. Neppure una persona che non c'è più, e che di galera e di emarginazione ne aveva vista parecchia; ma non va mai via da quel posto. Le inesistenze sono l'unica cosa che non può esistere. Esiste lui. Esistono quei dieci ragazzi sparati via dalla vita, e esistono i loro compagni che un giovane di questi tempi ha riallacciato. Magari solo per un poco. Magari solo per lo spazio di duecentocinque pagine. Ma parlano, e parlando riallacciano non soltanto le loro esistenze e le loro storie. Riallacciano fili che, forse, neppure loro riuscirebbero ad immaginare; e ne costruiscono di nuovi, ed urgentissimi.
Ancora nella sala, e prima della cena, ho fatto un'altra cosa che non mi è affatto consueta.
Se c'è qualcosa che non sopporto, è andare a chiedere gli autografi e le dediche. Se mi spediscono un libro autografato, lo prendo volentieri; ma non vado mai a chiederlo. Stavolta, invece, mi sono sentito di farlo. Mi ha scritto: "Per non dimenticare un frammento importante". Non soltanto non me lo dimenticherò, ma me lo porterò dentro. Assieme ai frammenti del frammento. Assieme alle esistenze di quei frammenti, che erano e che sono vite, lotte e oltre. Assieme a tutti coloro che erano in quella sala sabato sera, nessuno escluso. E vorrei, in ultimo, esprimere anch'io un frammento.
Tra le persone presenti nel libro, con la sua storia, la sua vita e la sua morte, c'è una ragazza. Non era certo la prima volta che ne sentivo parlare. Sapevo chi era. Sapevo di chi era sorella. Sapevo com'era stata uccisa. E non sapevo niente, in realtà. Me l'hanno presentata, in quel libro, tre o quattro righe che non mi scorderò, ancor meno delle altre. Presentata, certo, alla mia immaginazione; altro, purtroppo, non si può fare. Anche se nel libro se ne parla, per forza di cose, molto. Fin dalle prime pagine, per bocca di un'altra persona; mi si perdoni la vaghezza estrema, ma sarà fugata a chiunque acquisti e legga il libro. Mi sto addentrando nel territorio del pudore, che in questo momento, ore 4.31 del 31 gennaio 2011, sto provando profondamente. Devo circumnavigare, e non mettere nemmeno una molecola fuori posto.
Questa persona, che vive lontana, aveva chiesto all'autore del libro se sapesse dov'era sepolta. Non era mai riuscito a saperlo; cosa, invece, che all'autore è riuscita. Riannodare i fili. Il senso di un lavoro. La cosa curiosa è che dov'era sepolta questa ragazza, lo sapevo anch'io. Per vie traverse, chiamiamole così. Per la memoria che ho di fronte a qualsiasi testo scritto da altri. Ad un certo punto, tempo fa e molto prima che questo libro fosse stato scritto e pubblicato, mi era presa la voglia di andarci anch'io, in quel posto, per portarle magari un fiore, o un pensiero. Non l'ho mai fatto, e ho fatto bene. Non lo farò mai. Non andrò a invadere terre che non mi spettano, e mi limiterò, qualche volta, a immaginare chi invece ci va avendola conosciuta, avendole voluto bene, avendo con lei condiviso tutto o qualcosa, avendola amata. E provando verso queste persone, chiunque esse siano, un rispetto al di sopra di ogni cosa. Al di sopra dell'amore e dell'odio, al di sopra della comunanza e dell'indifferenza. Il resto, sarà la mia vita. Quel che sarò capace ancora di farne. Quel che potrò dare. Quello a cui e di cui potrò rispondere.