lunedì 5 dicembre 2011

Il crack delle banche


La canzone popolare che chiuderà questo post proviene dagli anni successivi al 1893, quando scoppiò il famoso Scandalo della Banca Romana. La Banca Romana, che poi era l'ex Banca dello Stato Pontificio, era allora uno dei sei istituti di credito che erano autorizzati a emettere moneta corrente, prima dell'istituzione della Banca d'Italia.

Lo scandalo prese avvio da una serie di prestiti a lungo termine che le maggiori banche italiane avevano concesso al settore dell'industria edilizia. Nel 1887 sopravvenne una crisi, che colpì particolarmente proprio l'edilizia la quale non poté onorare i debiti contratti nei confronti nelle banche (le quali, a loro volta, si erano ritrovate del tutto dipendenti dal settore edilizio). Cominciarono i tonfi rovinosi di alcune banche, tra le quali il il Banco di Sconto e Sete, la Banca Tiberina, il Credito Mobiliare e la Banca Generale.

La Banca Romana pensò di far fronte alla crisi in una maniera piuttosto semplice: in piena depressione, poiché era autorizzata a emettere moneta, cominciò a farlo senza nessuna autorizzazione. Non contenta, emise banconote munite "a coppie" dello stesso numero di serie, così da raddoppiare senza darne ad accorgere la moneta in circolazione. In pratica, la banca stessa agiva da falsaria.

Nel giugno 1889 il ministro dell'industria, del commercio e dell'agricoltura del governo Crispi, Luigi Miceli, dispose un'ispezione su tutti gli istituti di emissione, affidata al senatore Giuseppe Giacomo Alvisi. Venne alla luce un disavanzo di nove milioni di lire (una somma enorme per quei tempi); in pratica, in Italia stavano circolando nove milioni di lire false non fabbricate da qualche banda di malfattori, ma direttamente da una banca di emissione. Curiosamente ma non troppo, il disavanzo fu prestissimo reintegrato e gli inquirenti furono accusati di imperizia.

Nel 1891 Alvisi era pronto a presentare i risultati della sua inchiesta in parlamento, ma il presidente del Consiglio, Di Rudinì, si oppose "in nome dei supremi interessi del Paese e della Patria". Prima di morire (il 24 novembre 1892), Alvisi rivelò però i risultati della sua inchiesta al deputato radicale Napoleone Colajanni. Tali risultati possono essere così riassunti: la Banca Romana era stata autorizzata a emettere moneta per 60 milioni di lire, per i quali aveva copertura in oro; ne aveva emessa invece per 113 milioni, compresi 40 milioni di lire in serie doppia.

Fu proposta un'inchiesta parlamentare, immediatamente rifiutata dal nuovo presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti (cui sono tuttora intitolate parecchie vie). Pare che il rifiuto di Giolitti intendesse coprire il coinvolgimento nello scandalo di una persona che era fortemente indebitata con la Banca Romana; tale persona faceva di mestiere il Re d'Italia e si chiamava Umberto I.

Il 20 gennaio 1893, venuto a galla oramai il terribile scandalo mentre il popolo italiano era chiamato a sacrifici, si ebbero alcuni arresti: finirono in cella il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo, e il direttore della stessa, Michele Lazzaroni. Un deputato della Destra, Rocco De Zerbi, si suicidò dopo che era stato scoperto un suo debituccio con la Banca Romana, circa 500.000 lire, e anche che la banca gli aveva elargito denaro illecito (assieme ad altri, naturalmente). La Camera dei Deputati aveva concesso l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti; erano tempi in cui i deputati si suicidavano ancora per la vergogna di essere mandati a processo come ladri.

Dal carcere, il governatore Tanlongo vuotò il sacco: somme di denaro illecito erano state consegnate anche a due presidenti del Consiglio, Giovanni Giolitti e Francesco Crispi. Il 21 marzo 1893, un comitato di sette parlamentari cui era stata demandata la stesura della relazione finale sullo scandalo, presentò in aula le proprie conclusioni: tra i "beneficiari dei prestiti" vi erano ventidue parlamentari, tra i quali Crispi. Il processo fu tenuto nel 1894 e si concluse, incredibilmente, con l'assoluzione di tutti gli imputati. Per evitare che l'inchiesta travolgesse l'intera politica italiana, i giudici nella sentenza denunciarono la sparizione di importanti documenti, necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato senza emettere alcuna condanna.

In quegli anni, l'Italia era una galera. Vi era un detto popolare che simboleggiava le enormi difficoltà quotidiane che tutti erano costretti a vivere: "Se abbiamo passato Crispi, passeremo anche questa". Il decennio crispino fu il periodo ruggente della nuova borghesia: dopo il suo passato di "rivoluzionario garibaldino", Crispi si era fatto monarchico e ultraconservatore, uomo d'ordine e sostenitore (pienamente ricambiato) dei principali potentati del capitalismo italiano. Non è esagerato affermare che il decennio crispino furono dieci anni di dittatura e di regime repressivo e poliziesco, ancor più accentuato dai suoi successori (Di Rudinì e Pelloux).

La nascente borghesia imprenditoriale italiana utilizzava un linguaggio parecchio attuale: desiderava infatti entrare in Europa (le prime attestazioni di questa fortunata espressione risalgono giusto a quegli anni). "Entrare in Europa" aveva, allora come oggi, una valenza puramente economica e di competizione capitalistica; per il resto, l'Europa poteva pure scannarsi (come avrebbe fatto di lì a poco) oppure sfogarsi con la corsa al colonialismo. I necessari sacrifici che vennero chiesti al popolo consistettero nel peggioramento terrificante delle condizioni di vita dei lavoratori e sullo sfruttamento selvaggio delle campagne, basato sulla più dura brutalità del bracciantato. Leggendo i documenti di quell'epoca ci si imbatte in altre parole attualissime: gli oppositori erano generalmente facinorosi e terroristi, anche se perlomeno erano così definiti in un'epoca in cui non ci si limitava al lancio di uova. In un paese povero, dove la ricchezza era in mano a pochissime "grandi famiglie", si gettavano però somme enormi in imprese coloniali disastrose, come quella abissina nel 1896 che si concluse con la disfatta di Adua; ora, chiedendo sacrifici, si continuano a gettare somme egualmente enormi in Afghanistan e nelle altre missioni di pace. Forse era meglio quando si chiamavano "colonialismo" tout court, meno ipocritamente.

Condizioni drammatiche che suscitavano continue rivolte, alle quali si rispondeva con la repressione più scatenata; eccidi dimenticati, come quelli di Caltavuturo, di Pietraporzia, di Serradifalco e della Lunigiana (1894). Carabinieri che sparavano sulla folla che chiedeva pane e lavoro. Nello stesso 1894 si ebbero i moti dei Fasci Siciliani, repressi ferocemente; e, ancora, a Napoli e a Firenze (i cosiddetti "moti per il pane"). In quei pochi anni furono decretati quattro stati d'assedio, durante i quali furono soppresse le garanzie costituzionali e la possibilità di manifestare. Si trattava di provvedimenti da guerra civile. Poi ci furono le giornate di maggio e giugno a Milano, nel 1898. Poi ci fu Bava Beccaris. Poi, nel luglio del 1900, un operaio tessile di Coiano di Prato partì dalla sua emigrazione a Paterson, diretto a Monza. E la sua pistola "colpì nel punto giusto", come ebbe a dire una persona che, certamente, non può essere sospettata di simpatie anarchiche: Palmiro Togliatti. Colpì al cuore non soltanto chi aveva decorato al valore Bava Beccaris per la sua repressione spietata; colpì anche il "re" che non si peritava di immergere le zampe nel denaro delle banche truffaldine.

E, a proposito delle banche, si cantava così:

S’affondano le mani nelle casse - crak!
si trovano sacchetti pieni d’oro - crak!
e per governare, come fare?
Rubar, rubar, rubar, sempre rubare!

I nostri governator
son tutti malfattor,
ci rubano tutto quanto
per farci da tutor.

Noi siam tre celebri ladron
che per aver rubato ci han fatto senator.

Mazzini, Garibaldi e Masaniello - crak!
erano tutti quanti malfattori; - crak!
gli onesti sono loro: i Cuciniello,
Pelloux, Giolitti, Crispi e Lazzaroni.

I nostri governator
son tutti malfattor,
ci rubano tutto quanto
per farci da tutor.

Noi siam tre, ladri tutti e tre,
che per aver rubato ci han fatto cugini del re.

Se rubi una pagnotta a un cascherino - crak!
te ne vai dritto in cella senza onore; - crak!
se rubi invece qualche milioncino
ti senti nominar commendatore.

I nostri governator
son tutti malfattor,
ci rubano tutto quanto
per farci da tutor.

Noi siam tre celebri ladron
che per aver rubato ci han fatto senator!


La composizione, anonima, fu pubblicata nel 1896 dalla rivista L'Asino. La stessa che, pochi anni dopo, indisse un concorso per una traduzione italiana dell'Internazionale. Vinse l'orrenda e infedelissima versione firmata "E. Bergeret", quella che si canta generalmente ancora oggi nonostante Franco Fortini.