Stanotte m'è toccato di farla bianca, ma non certo nel senso delle kermesses che da qualche tempo si svolgono nelle grandi città europee. Lavorare. La famosa "consegna mattutina urgente" di un'appassionante traduzione di tredici certificati di collaudo di tubi d'acciaio. E così, ecco di nuovo il necessario corredo del traduttore notturno: caffettiera piena, tabacco, e un po' di musica a volume bassissimo a tenere compagnia. Ci ho fatto le sette e mezzo di mattina; e quando si fa quell'ora senza dormire, a letto è meglio non andarci. Si tiene almeno fino al pomeriggio; alle quattro e un quarto ci sono andato. E i sonni pomeridiani sono cose strane. Mi devo essere addormentato subito, sfinito. E ho sognato l'inizio di un nuovo amore, senza più volti consueti, ma in quella specie di meravigliosa e indefinibile ebbrezza che si vive in quei momenti. Nei minimi particolari, a conoscenza avvenuta da poco tempo, durante un momento di una quotidianità di cui è raro accorgersi quando la si vive, e che si rimpiange quando non la si vive più.
C'erano tutti gli ingredienti necessari per la ricetta. I sorrisi e gli slanci, le parole e gli sguardi, la reciproca voglia di conoscere i luoghi cari all'uno e all'altra, i progetti di andarli a vedere in vacanze che già s'immaginano bellissime, insieme, a godere delle piccole e grandi meraviglie di due vite che la sorte ha fatto incontrare. È qui, è in questo scenario, che è intervenuta l'imponderabile bizzarria; una canzone. In tutto questo sogno anelante alla novità, si è introdotta una vecchia canzone, e non una qualsiasi. Una specie di simbolo di cose passate, anche se talmente recenti da sembrare oramai vecchie di secoli.
Ce ne stavamo, io e questo mio nuovo amore onirico, a sedere su un muretto di campagna che poi, da sveglio, ho individuato alla perfezione: quello che sta sotto a un'antica torre nei dintorni di Mercatale val di Pesa. Luciana si chiama quel posto, come mia madre; un luogo che, per me, è una notte di San Lorenzo passata steso su un prato assieme ad un amico, a ragionar di niente, di tutto e d'altre stelle; e anche un pomeriggio di luglio in cui, proprio su quel muretto, mi capitò di farci un'altra cosa, nemmeno stavolta da solo. Nelle cose nuove, insomma, erano comunque intervenuti la propria vita e i propri ricordi.
Ora, si dà il caso che, da sveglio, io conosca alla perfezione quella canzone, che la sappia cantare a memoria, compresa la sua parte in finlandese. E' una canzone di Damien Rice, Eskimo, il cui ritornello è formato dalla semplice ripetizione di una frase in crescendo: I look to my Eskimo friend, ricorro al mio fratello eschimese. Io e quel mio nuovo amore che non c'è ce ne stavamo a chiacchierare appoggiati al muretto, quando ho cominciato a cantare. Un mio gesto normale, perché io canto ovunque, senza nessun timore. In mezzo di strada, in coda alla cassa del supermercato, mentre cammino. Nonostante tutto, o nonostante niente, mi canta ancora dentro; a diciassette anni e mezzo non solo non si è mai troppo seri, ma si canta. Di continuo. Spudoratamente. Fregandosene d'ogni cosa.
Il sogno si occupa anche di mettere in atto una delle cose più tipiche di amore che nasce: la scoperta, la sorpresa. Ma stai cantando Eskimo di Damien Rice!, dice lei illuminandosi. Lo conosci?, dico io con una faccia quasi buffa. Lo adoro…dai cantamela tutta. Tutta quanta; e obbedisco più che volentieri, sbagliando il ritornello. Nel sogno; ma che era un sogno lo si sa sempre dopo, quando è finito, quando si è magari alla tastiera di un computer a raccontarlo. In quel momento ho sbagliato il ritornello. Cantavo I hope in my Eskimo friend, spero nel mio amico eschimese, e lo ripetevo anche; e sono stato corretto. Con aria interrogativa, lei mi dice: Ehi, Riccardo, non dice così. Dice I look, non I hope. I look to my Eskimo friend. Hai ragione, perdio. Mi interrompo. Ma non ricomincio a cantare, non ce la faccio. Il sogno mi aveva comandato di sperarci, nell'amico eschimese, non di ricorrervi. Lei si accorge del mio strano imbarazzo e mi abbraccia. Mai mi era capitato, a mia memoria, di sbagliare in un sogno il verso di una canzone; in sogno ho cantato una volta, e con la perfezione dei sogni, tutta A coloro che verranno di Bertolt Brecht su una musica inesistente, composta dal mio sonno, che poi non mi è mai più riuscito di ricordarmi. Il sogno se l'è voluta tenere.
Mi sono svegliato poco dopo, anche se il tempo dei sogni non lo si calcola mai esattamente. Ma il ricordo del sogno è finito lì. Ho acceso la lampada con gli occhi ancora impastati. Accanto a me il libro che stavo leggendo prima di addormentarmi, perché, seppure sfinito, ho sempre bisogno di leggere tre righe prima di addormentarmi. Capita di ridestarsi nella delusione, quando il sogno ti ha portato cose belle; il vantaggio di un'età un po' più matura è quello di trarne, o di cercar di trarne, qualcosa che stemperi la delusione nel presagio o nella speranza. Probabilmente è proprio questo, ciò che voleva dirmi il mio amico eschimese. Di sperare, sempre. Mi è venuto a far visita in quelle lande nitidamente nebulose mandandomi un bel sogno di speranza, anche a costo di farsi sbagliare la sua canzone. È come la famosa caramella Big Frut. Non basta, ma aiuta.
2 commenti:
La canzone di questo post:
Eskimo
Damien Rice
Tiredness fuels empty thoughts
I find myself disposed
Brightness fills empty space
In search of inspiration
Harder now with higher speed
Washing in on top of me
So I look to my eskimo friend
I look to my eskimo friend
I look to my eskimo friend
When I'm down, down, down.
Rain it wets muddy roads
I find myself exposed
Tapping doors, but irritate
In search of destination
Harder now with higher speed
Washing in on top of me
So I look to my eskimo friend
I look to my eskimo friend
I look to my eskimo friend
When I'm down, down, down.
Kosketa minua
Älä käsilläsi
Vaan niin että tunnen sinut
Halaa minua
Älä käsilläsi
Mutta sielussasi
Minä kaipaan eskimo-ystävääni
I miss my eskimo friend
When I'm down, down, down.
When I'm down, down, down.
When I'm down, down, down.
Hier ist mein Kommentar, als Alptraum, nel senso di sogno alpino..., mi hai voluto nel tuo tributo?
allenati in alte vette elvetiche o colline toscane a cantare canzoni rokoko, altro che barocco...
io intanto me la scarico perché proprio non la conoscevo, la faremo al piano, tetta a tetta, a Varese Ligure???
è peggio dell'ultimo Guccini...
NUVOLE BAROCCHE
Poi un'altra giornata di luce
poi un altro di questi tramonti
e portali colonne fontane.
Tu mi hai insegnato a vivere
insegnami a partir.
Ma il cielo è tutto rosso
di nuvole barocche
sul fiume che si sciacqua
sotto l'ultimo sole.
E mentre soffio a soffio
le spinge lo scirocco
sussurra un altro invito
che dice di restare.
Poi carezze lusinghe abbandoni
poi quegli occhi di verde dolcezza
mille e una di queste promesse.
Tu mi hai insegnato il sogno
io voglio la realtà.
E mentre soffio a soffio
le spinge lo scirocco
sussurra un altro invito
che dice devi amare
che dice devi amare.
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