Il faro che, ancora, sta in cima al Capo Poro e che segnala alle imbarcazioni l'ingresso al golfo di Campo, è da anni completamente automatico. Si accende e spegne a una data ora, a seconda delle stagioni, con un dispositivo di temporizzazione; ma fino almeno alla metà degli anni '80 non era così. Ogni giorno qualcuno doveva andare a accenderlo e a spegnerlo alle ore previste; ci andava, finché non è morto, il Soldatino col suo somaro.
Dico somaro perché non so se fosse un asino vero e proprio, un mulo, un bardotto o cosa. Non sono mai stato capace di distinguerli bene, ma c'è quella parola, somaro, che serve per tutti. Il Soldatino era un vecchio senza figlioli, mai stato sposato e secco come un giunco; a una cert'ora lo si vedeva partire da casa, su una delle salite che dal Vapelo vanno al Crino e poi a Galenzana, e poi tornare una volta svolto il suo compito. Doveva essere pagato, credo, dalla Capitaneria di Porto o da qualche altro organismo militare; il Capo Poro sarebbe tuttora zona militare a causa dei ruderi di alcuni bunker e di qualche batteria contraerea della II guerra mondiale. Per andarci c'è un sentiero che, nell'ultima parte, sale non dico in verticale ma quasi; in tutta la mia vita mi sono azzardato solo due volte a farmelo a piedi, e quando ci avevo non molti anni. Ora ci avrei dei grossi problemi, per usare un eufemismo.
Ci volevano un uomo secco e un somaro, per andarci ogni giorno, lassù. Il somaro, a un certo punto, doveva prendere l'uomo secco in groppa; e era una femmina. Una somarina più secca di lui, che sapeva la strada a memoria, e non solo quella. Siccome lui la lasciava libera, già in tempi di macchine con lo stereo, di discomusic e di tv commerciali la si vedeva girare da sola per il paese, dov'era diventata una specie di attrazione. Una volta fece epoca, vicino all'ufficio postale, fermandosi alle strisce pedonali per fare attraversare una comitiva di tedeschi esterrefatti; magari, chissà, avranno pensato che all'Elba i somari erano più educati degli automobilisti.
Il Soldatino, invece, manco mi ricordo come si chiamasse per davvero. Era il Soldatino, e basta. Quando aveva diciott'anni era dovuto andare a fare il servizio militare, e alla prima licenza era tornato a casa vestito da soldato; cosicché le donne e le ragazze del paese, a furia di dirgli "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", lo avevano fatto rimanere il Soldatino per sempre. Nei paesi, un soprannome conta molto di più del nome vero; ancora oggi, mi capita di vedere i manifesti mortuari affissi ai muri con dei nomi del tutto sconosciuti finché qualcuno non passa e dice: "Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma!"; allora capisco subito chi sia passato a miglior vita. E' successo così per tutti e per tutte; tranne che per una, Maria Barile. Si chiamava così per davvero; ma siccome era, giustappunto, un barile, quel suo cognome le aveva fatto anche da soprannome. Però bisognava dire "mariabarile" tutto attaccato, sennò non andava bene. Non si doveva chiamarla né "Maria", né "Barile".
Il Soldatino, come milioni di soldatini, a un certo punto era dovuto andare a fare la guerra. Mi raccontavano che era stato in Africa, a Tobruk, a Giarabub, a El Alamein. Contrariamente all'uso dei posti di mare, se n'era andato in fanteria; ma certuni assicurano che si vedevano degli elbani, di Marciana o del Poggio, persino negli alpini. Finita la guerra, non era tornato subito a casa; lo si rivide mesi e mesi dopo, e s'era riportato due cose. Una fotografia assieme al feldmaresciallo Rommel mentre gli stringeva la mano in mezzo al deserto, e una ragazza dalla carnagione olivastra, che non parlava l'italiano. Veniva dalle Isole Canarie, e dio solo sa dove mai, e in quale circostanza, l'avesse conosciuta. Ma ci devono essere, al mondo, di quegli amori che davvero non conoscono barriere; e così, dalle Canarie era approdata all'Elba assieme al suo Soldatino. Si chiamava Conchita.
Negra non era. Era, probabilmente, una guanchi, una discendente dell'antichissima popolazione delle Canarie, famosa per il suo "linguaggio fischiato" che poteva intendersi a chilometri di distanza, e con il quale, a forza di particolari modulazioni, gli isolani erano capaci di comunicarsi notizie importanti sulla caccia, sul tempo, su tutto quel che poteva servire. L'italiano lo aveva poi imparato, anche se aveva sempre mantenuto l'accento spagnolo; andava a servizio nelle case, dove era nota per la sua velocità nello sbrigare tutte le faccende. Le domandavano come facesse, e lei, seduta sull'uscio di casa, cominciava a parlare di un paesino dal nome strano dove, quando aveva sette anni, i genitori la lasciavano sola in casa a occuparsi di fare da mangiare e di badare a due fratellini di due e tre anni. Aveva imparato alla svelta a fare le cose.
Lui aveva lavorato per un po' come tuttofare. Uno di quelli che, quando si guasta la luce, s'intasa lo scarico o qualsiasi altra cosa, sapeva sempre come fare. Poi gli avevano offerto di occuparsi del faro del Poro, e s'era dovuto prendere il somaro. Io mi ricordo degli ultimi tre che aveva avuto. La somarina è l'ultima; nel frattempo Conchita faceva le sue faccende e, ogni tanto, diceva che le sarebbe piaciuto rivedere le Canarie anche per una volta sola. Non fu accontentata.
Un pomeriggio che stava sull'uscio di casa, disse che aveva mal di testa e s'alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua in cucina. Si sentì un tonfo; una trombosi fulminante. E così è rimasta per sempre all'Elba, in un cimitero dove le fanno compagnia altre ragazze capitate lì per chissà cosa. C'è un'irlandese, che a quarant'anni o poco più era volata di sotto da un burrone con la macchina. Una norvegese, o danese, che aveva un'edicola di giornali vicino alla Foce. E una slava, che la chiamavano "Zorro" perché di cognome faceva Zgrno; la cosa più pronunciabile che avesse un senso, insomma. A volte mi chiedo come ci si possa sentire, da donna, ad essere chiamata Zorro; ma non se ne dev'essere fatta un problema. Un giorno o l'altro tanto me la fo, la mia Spoon River personale; l'Antologia della Grotta, visto che il cimitero si chiama così. La Grotta.
Il Soldatino continuò a andare a accendere e spegnere il faro anche il giorno dei funerali della sua donna. Già, perché non s'erano mai sposati. Mai stato sposato, come ho detto all'inizio; si erano accompagnati, come si diceva allora. Stavano bene così. Nessun figliolo. C'era il somaro, e poi un altro, e poi la somarina che si fermava alle strisce pedonali. Come farà, come farà quando moio, diceva sempre; non ce l'ha fatta. Il Soldatino è morto e l'hanno sotterrato vicino a Conchita, ma non accanto perché il posto era già occupato e non si può dirgli certo, a un morto, di farsi in là. La somarina è morta esattamente dodici giorni dopo di lui. Me la ricordo che ci stava a guardare, in riva al mare, mentre io e un mio amico s'aiutava il Soldatino a costruire il moletto di Galenzana. O meglio, l'ha fatto lui, da solo; noi gli si portava gli attrezzi e gli s'andava in paese a prendere qualcosa se gli serviva. Però mi garba sempre dire che quel moletto l'ho fatto un po' anch'io, anche se non è vero.
2 commenti:
La tua Elba è più bella di quella fisica e le storie che racconti sono di una umanità che sempre mi commuove!
Leggerti è sempre una goduria!
Fulvio
Forse, chissà, i "luoghi della memoria" sono sempre più belli di come sono in realtà. Sempre un gran piacere leggerti, Alle; ci si vedrà tra qualche giorno, vai. Magari qualche storia te la racconto a voce. E' uno dei miei sogni, questo. Stare davanti a un caminetto acceso a raccontare, con due o tre persone che mi ascoltano. Senza blog, senza macchinette, senza niente. Un abbraccione forte.
Posta un commento