Il titolo di questo post, ed anche alcune cose nella sua presentazione generale (il profilo e l' "Avviso ai Facebabbei"), sono -qualcuno forse ci avrà fatto caso- in una strana lingua. Sarebbe perfettamente inutile che cercaste di capire qual è, per il semplicissimo motivo che tale lingua è stata inventata di sana piana dal sottoscritto. Ma non ieri, e nemmeno ier l'altro; il kelartico (così si chiama la lingua) ha oramai quasi trentacinque anni. È, oramai, una parte di me stesso; logico che un po' compaia anche qui. Ha una sua grammatica (piuttosto semplice), ha avuto una sua evoluzione (all'inizio, quand'ero ragazzino, era più complessa) ed ha le sue parole. In buona parte si tratta di storpiature a ruota libera di parole greche (ad esempio, nyăuto che si trova nel titolo di questo post proviene da ένιαυτός "anno"), ma vi sono molte parole di diversa origine ed altrettante inventate per pura creazione verbale, o verbigerazione. Utilizzo il kelartico quando mi va, per scrivere "cose mie", appunti, traduzioni e, a volte, per parlare con me stesso; ogni tanto mi è capitato di parlarlo a voce alta, da solo, e una sola volta l'ho parlato a un controllore su un autobus di Berna che voleva farmi la multa perché ero senza biglietto (
Si tratta di un "aggettivo privativo", esattamente come "asociale". Di quegli aggettivi che rappresentano il negativo di un concetto positivo, che di solito vengono formati tramite prefissi (a-, in-, un- in inglese e tedesco). In kelartico, invece, si formano con un suffisso: -hār- (una radice che vuol dire "cessare, smettere"), al quale viene unito il comune suffisso generale degli aggettivi che indicano una qualità, -ig (nel quale, così per curiosità, la "g" finale non si pronuncia mai: si legge quindi qualcosa come "leissanhààri"). Insomma, vuol dire "privo di" qualcosa. Privo di leisan.
Se qualcuno andasse a vedere nel dizionario, cosa d'altronde impossibile perché ce l'ho io e basta, vedrebbe che leisan significa qualcosa di un po' bizzarro se rapportato all'asocialità: vuol dire, infatti, "accendino". È un derivato di leis, che vuol dire "fuoco": con -an si formano dei nomi di strumenti. Ad esempio, da slad "botta, colpo", si forma sladan "martello"; oppure da plok "fiamma", si forma plokan "fiammifero, cerino". Leisanhārig vuol dire, quindi, "privo di accendino".
Ogni parola ha una sua storia, anche se si tratta di una parola "inventata"; e questa è una storia di quand'ero all'incirca adolescente. Sedici o diciassett'anni. Nel quartiere dove abitavo c'era un tipo un po' bislacco. Può darsi che fosse venuto fuori dal (non lontano) manicomio di San Salvi, o anche no; non era comunque un "barbone" o qualcosa del genere. Vestiva con discreta cura, era pulito e doveva avere un posto dove dormire e mangiare; stazionava fisso nel viale dietro casa mia, tra il capolinea dell'autobus, il bar "Camelia" e la casa del popolo "Arrigoni" e fumava. Fumava. Fumava. Da far impallidire persino una ciminiera come me. Solo che non chiedeva mai sigarette alla gente: se le comprava, le sue Esportazione col filtro. Chiedeva, invece, da accendere. A tutti. Mai che gli si vedesse un accendino o una scatola di cerini in tasca. Era leisanhārig e plokanhārig (a questo punto il procedimento di formazione dovreste averlo capito). Non dico di essere stato una delle sue "vittime" preferite, ma capitava sovente, specialmente quando andavo a prendere l'autobus, di ritrovarmelo a chiedere da accendere. E io accendevo, naturalmente.
Avrà avuto, almeno così mi sembrava, una sessantina d'anni; ma a persone del genere, specialmente quando d'anni se ne hanno molti di meno, l'età si dà male. Era magrissimo, piuttosto basso e dai capelli piuttosto folti; sul viso, uno di quegli accenni di barba durissima come filo spinato, fatta finché il rasoio non dichiarava forfait. La aveva così anche mio padre: a passargli una mano sul mento, sembrava di toccare carta vetrata. Alla mia età di allora si è, talvolta, deliziosamente stupidi. Un giorno che stavo a prendere il diciassette, e che quello mi aveva chiesto da accendere, mi venne da dirgli una cosa assolutamente imbecille: ehi, ma perché non te lo compri un accendino?
Mi guardò sogghignando un po', e nel frattempo gli avevo acceso la sigaretta. E me n'ero accesa una anch'io (allora fumavo le Chesterfield). Mi disse così: Perché io sono libero e mi state tutti sul culo. E se ne andò attraversando la strada, per andare a sistemarsi alla fermata di fronte. Io rimasi là a fumarmi la Chesterfield. Probabilmente volevo ragionare, collegare; com'è che uno non si compra un accendino perché è libero e gli si sta tutti sul culo? Fu allora che mi venne in mente la conquitescenza mirtica dell'alveatico. È una frase "inventata da un operaio fonditore pazzo, ma intelligentissimo", così come racconta Alessandro Bausani nel suo libro Le lingue inventate (che è uno dei libri più importanti della mia vita). Non era , a rigore, un caso del genere: la frase che quel tipo mi aveva detto non era formata da parole inventate. Ma mi venne a mente lo stesso. Non c'era da collegare un bel niente. Lui era libero, gli si stava tutti sul culo e, logicamente, non comprava mai accendini. Quel che non hanno mai capito i logici, è che di logiche ne esiste una per ogni essere umano che vive su questa terra; e sono tutte differenti.
Ci rimuginai sull'autobus, ci rimuginai la sera e ci rimuginai un po' anche il giorno dopo. Finché non entrò in scena, come gli si confà, un cantante. Siccome col mio kelartico mi ci baloccavo parecchio, allora, un bel giorno decisi di tradurre una delle sue prime canzoni: L'antisociale. il cantante si chiama Francesco Guccini. Se non ce l'avete presente, eccola qua:
Solo che c'era un piccolo problema con la traduzione. In kelartico, ancora, non esisteva una parola per "antisociale, asociale". Mi sarebbe toccato crearla. "Società" si dice, con un pigèrrimo imprestito, sotsiet; e "sociale" è sotsietig. Sarebbe bastato fare un bel sotsiethārig, et voilà. Ma non mi piaceva; e allora mi venne in mente il fumatore delle fermate, quello che gli si stava tutti sul culo, che era libero, e che non comprava mai accendini. Il "senza-accendino" asociale. Il leisanhārig. Oltretutto la parola suonava assai bene:
mă năkatlăs piot săn nyer
mă năkatlăs săn frōnāi nă to lyŭt...
Ora, il bello è che, mentre sto scrivendo, guardo il tavolo dietro di me. C'è una specie di salsiera, che mai salsa ha portato in vita sua, dove tengo ogni sorta di paccottiglia che non mi riesce di buttare via. Ci saranno, a dir poco, sei o sette accendini. Anche scarichi. Sulla libreria alla mia sinistra, che funge anche da ripiano, ce ne sono altri tre o quattro. Altri in bagno e altri ancora sul tavolino accanto al letto. Sicuramente, ne avrò altri sparsi fra lo zaino, le tasche della giacca, il marsupio e i cassetti. Tutto mi si potrebbe definire, insomma, fuorché un leisanhārig. Di leisanāi (così imparate anche come si fa, generalmente, il plurale dei nomi) ce ne ho fin troppi. Però, siccome sono anche sănkollhārig (incoerente), mi tengo la parola e anche l'asocialità infuocata dagli accendini.
Che fine avrà fatto? E chi lo sa. Continuò ancora per un bel po' a girare nei dintorni, gli accesi ancora parecchie Esportazione e non mi azzardai più a fargli domande. Un giorno sparì, e non ne ho saputo più niente. È rimasta una parola. È diventato una parola di una lingua che non esiste, e che esiste al tempo stesso. Esistenza e inesistenza (bumerkal, bumerhārkal). E mi state tutti quanti sempre più sul culo, e al tempo stesso vi voglio molto, molto bene. Se sono libero, non lo so. Ma fumo parecchio.