La Rete Asociale di Riccardo Venturi. Il blog sotterraneo di uno che sta in un sottosuolo con un gatto. "Da cose a caso sparse la struttura bellissima del cosmo." (Eraclito)
Iam ante quattuor dies Minister Primarius Italicus nuntiavit se munere abdicaturum esse postquam lex de ratione rei publicae reddenda iussa erit. Silvius Berlusconi statuit hoc facere cum animadvertisset apud Consilium legatorum populi suis partibus maiorem numerum suffragiorum, sed non iam maximum esse; sibi enim nonnullos legatos deesse qui ad novam factionem defecissent. Cum suos consuluisset ad Palatium Quirinalis contendit ut Praesidenti Rei Publicae Giorgio Napolitano proximam abdicationem nuntiaret.
In gravi rei oeconomicae discrimine nulla mora interponenda est: partes Berlusconianae putant nova comitia quam primum habenda esse, sed factiones adversae dissentiunt: necesse consensum omnium partium ut fides detur administratorum Consilio Ministroque Primario qui difficultates rei oeconomicae sumant, ut postulatur ab Unione Europaea. Insequenti die Praesidens Rei Publicae Marium Monti doctrinae oeconomiacae peritum elegit senatorem perpetuum: ut videtur, ei haud dubie mandabitur ut novos rei publicae moderatores deligat.
Hodie vesperi, iussa lege nummaria rei publicae, Berlusconi se contulit ad Quirinalem et publice potestatem abdicavit. Multitudo clamans et contumelias iaciens expectavit Silvium Berlusconi - cuius vultus dum iter hoc agit in imagine adposita ostenditur - autoraeda aditurum ad Quirinalem. Crastino die Praeses Rei Publicae consulere candidatos muneris Ministri Primarii incipiet. Complures qui in media re politica versantur affirmant : “Finem habuit aetas Berlusconiana”.
(Da "Ephemeris", giornale online in lingua latina).
Graziosissime "indignate", pregiatissimi "indignati", prendete quel cazzo di tendine e smontatele. A casina a ripigliarvi un po', ché i tempi sono cupi e duri, nell'emisfero nord fa freddo e l'indignazione con la bronchite funziona ancor meno bene. Liberate piazze e piazzette, i parchi degli Zuccotti, i campus universitari; statevene a twittare, che mi sembra un termine molto adatto per ciò che state facendo: cinguettare. Beccatevi Roberto Saviano, che del resto fa l'indignato di professione, e pure il globetrotter: sarà anche inseguito dai Casalesi, ma alla fine li vincerà per sfinimento a forza di farsi dare la caccia per i quattro angoli del globo. Insomma, fate una cosa saggia: levatevi dai coglioni. Sarete anche il "99 per cento", ma non ho mai visto un novantanove per cento più insulso e inconcludente. Ci avrete anche le "armi del pacifismo e della nonviolenza", ma mi sembrano piuttosto spuntate se basta un po' di peperoncino per farvi sloggiare. Poi tornate, sí; e intanto che tornate, l'Uno-per-cento sghignazza a tutt'andare. Vi piglia per il culo permettendosi pure di blandirvi; e fa benissimo. Gli state simpatici. Siete come il cacio sui maccheroni. Tutti belli ordinati, puliti, legali, pacifici, giojosi, allegri; se vi attaccano, vi mettete col culo per terra -il che è una perfetta metafora-, rifate Nespole e sangue o quel che era, e poi arrivano i presidenti a dire che "bisogna ascoltarvi". Ma insomma, alla fin fine, l'avete occupata Wall Street? Non è mica un giardinetto, Wall Street; è difesa da gente armata fino ai denti. Come pensate di occuparla? Con la "forza delle idee"? Avete presente come si fa un'occupazione di quelle serie? Oppure pensate di "smuovere le coscienze"? Bisogna che qualcuno si decida a dirvelo: non state smuovendo una ceppa di minchia. Guardate un po': nel paese dove siete nati, la Spagna, il risultato è che è andata al potere una bella destrona, votata a furor di popolo. O non eravate il 99 per cento? Visto che siete "pacifisti", datevi pace una buona volta: non siete affatto il 99 per cento. Siete soltanto dei ragazzotti e delle ragazzotte che non siete costretti/e a cercare qualcosa da mangiare nelle discariche del Cairo. La vostra "forza delle idee" equivale al nulla, perché si basa sul nulla. Ce l'avete tanto con le "banche", poi se qualcuno le assalta lo stigmatizzate nel migliore dei casi, e lo consegnate alla polizia nel peggiore. Vi sistemate nelle piazze, mettete su spettacolini, punti informatici, performances, cazzatine di ogni genere e, diciamocelo francamente, vi divertite un mondo. Aspettando magari che vengano a sgomberarvi, perché lo sgombero è il clou del giochino. Vuoi mettere la solita pallosa serata fra amici, e una bella forza dell'ordine che arriva a portarvi via e magari vi smonta persino le tende al posto vostro? Poi, dopo avervi sgomberati, vi ricevono perché dovete essere ascoltati; e giù delegazioni, forum, elogi perché siete stati tanto bravini e belle promesse. Non si sa bene se vi piaccia così tanto essere presi per il culo, o se siate voi i primi a farlo. Funzionate da distributori automatici di "speranze", però siete esattamente come le bibite gassate: tanto frizzanti all'inizio, ma poi vi dissolvete in bollicine.
In un'altra piazza, che si chiama Tahrir, invece, non stanno montando tende. E' perché la hanno occupata sul serio. E' perché non stanno giocando affatto. E' perché la loro non è "indignazione", ma rivolta. Di fronte non hanno peperoncini spray, ma un esercito con armi ad alzo zero. E' perché non sono lì per provare il brrrrrrivido dello sbirro che si avvicina, ma per assaltarlo. E' perché non c'è nessuna gioia, nessuna festa in quella piazza; ci sarà soltanto quando quei merdosi se ne saranno andati via tutti. E in quella piazza, vi devo dire una cosa, si muore. Eh, lo so: morire non è divertente. Morire è brutto. Toccherebbe morire anche a parecchi di voi, a parecchi di noi, se vi decideste a occupare le piazze con tutt'altri intenti. Vi siete mai chiesti come mai l'unico paese d'Europa dove non c'è stato nessun movimento di "indignati" sia stata, toh, la Grecia? Ci sarà penuria di tende, in Grecia, oppure almeno qualcuno ha preso un'altra strada meno comoda e ben più pericolosa? Quante domande, e sono peraltro sicuro che avrete altrettante risposte. Tutte belle "indignate", naturalmente; intanto i salvatori della patria (Monti, Papadimos, Rajoy...) fanno passare benissimo l'idea del "massacro necessario" e, come si dice all'incrocio fra Oxford e Cambridge, ve lo mettono nel culo. Ce lo mettono nel culo a tutti quanti. Le banche? Quelle che creano la crisi? Non so se guardate mai la vecchia televisione, in mezzo a tutte le vostre facebuccate e tuittate. Le banche si fanno pubblicità magnificando ognuna di essere un "porto sicuro pur nella crisi". E l'unica cosa che, in fondo, mi viene a mente, è che se quelli di piazza Tahrir per un momento potessero trasferirsi in una delle vostre piazzette e nei parchi Zuccotti, non esitereste neanche per un momento a dar loro di black bloc, a condannare la loro violenza e magari anche a credervi tanto ganzi.
Una bella e caldissima mattinata d'estate su una spiaggia semideserta; è il 19 luglio 1928. Al lido di Monolithi, vicino a Preveza in Grecia, arriva un uomo da solo. È di corporatura minuta e ha l'aspetto ordinario; si spoglia alla bell'e meglio e si tuffa in acqua. Un bagnante. Chiunque lo avesse visto non avrebbe pensato altro; invece era un uomo che intendeva darsi la morte.
Era stato, fino ad allora, uno dei poeti più misconosciuti del suo paese; si chiamava Kostas Karyotakis. Era nato il 30 ottobre 1896 in una delle tante Tripoli sparse per il Mediterraneo; la sua era nel Peloponneso. Una vita ordinaria; una grossa delusione d'amore nell'adolescenza, di quelle che segnano per tutta la vita; un lavoro da avvocaticchio alla prefettura di Preveza, dove si occupava delle assegnazioni di terre e immobili ai profughi greci dell'Asia Minore. Uno stipendio da fame e un aspetto da piccolo ometto senza storia; la condizione perfetta per diventare un poeta. La poesia è quella cosa che riempie i cassetti dei grigi; usualmente, è in forma lirica. Le infelicità, gli slanci, le rabbie e le delusioni di ognuno di noi potrebbero riempire la Biblioteca di Babele. Kostas Karyotakis, però, aveva preso un'altra strada. Ancora più impervia, se si vuole.
In mezzo al suo disgusto totale per lo Stato e per la burocrazia, ad un certo punto decise di averne abbastanza della realtà; volle salire un po' sopra a osservare. Kostas Karyotakis è considerato unanimemente come il fondatore del surrealismo in lingua greca, e la cosa non è di poco conto anche per motivi strettamente linguistici. Con la sua struttura ingabbiata da declinazioni e parole di andamento solenne, anche la lingua neogreca demotica è poco adatta alle acrobazie e alle slegature semantiche proprie del surrealismo; si aggiunga che, lavorando in un ufficio statale, Karyotakis doveva avere a che fare ogni giorno con il "burocratese" di quei tempi, la terribile katharevousa basata sul greco classico che rimase sola lingua ufficiale in Grecia fino alla caduta della dittatura, nel 1974. Piegare il greco al surrealismo è impresa titanica e folle; Karyotakis vi riuscì. E, essendovi riuscito fin dalla sua prima raccolta, intitolata Ὁ πόνος τοῦ ἀνθρώπου καὶ τῶν πραμάτων ("La pena degli uomini e delle cose"), divenne immediatamente oggetto di scherno e di disprezzo. Con la seconda raccolta, Νηπενθῆ, il disprezzo e lo scherno si trasformarono da un lato in totale indifferenza da parte dell'ambiente letterario, mentre quei pochi che non lo ignoravano si occupavano però di stroncarlo senza pietà. La aveva intitolata, quella raccolta, alla nepente, la "droga dell'oblio"; c'è una poesia che si chiama Ωχρά Σπειροχαίτη, vale a dire il Treponema pallidum, il batterio responsabile della sifilide; in seguito, la poesia divenne nota come "Canzone della pazzia". Karyotakis aveva probabilmente contratto quella malattia, ed è facile immaginare come.
A Preveza si sentiva disperato e non aveva letteralmente di che vivere; la sua famiglia si offrì di pagargli un soggiorno a Parigi, ma fu costretto a rifiutare perché sapeva che sarebbe stato un sacrificio economico troppo grosso per i suoi. Così si arriva a quella mattina del 19 luglio 1928, e allo spettacolo che Kostas Karyotakis volle concedere a se stesso, in solitario.
Arriva alla spiaggia di Monolithi e si spoglia; si getta in acqua e comincia a andare al largo, nuotando come un pesce. La sua intenzione era, ad un certo punto, quella di lasciarsi andare e farsi trasportare dalle onde; ma non ce la faceva a smettere di nuotare. Vagava per il mare senza fermarsi, sperando che le forze lo abbandonassero; ma non c'era assolutamente verso. Nuotava e basta. Un astante che fosse stato là ad osservarlo si sarebbe detto che era un atleta che si allenava per le Olimpiadi; ogni tanto tornava a riva, aspettava due minuti e poi si ributtava in acqua per cercare ancora di affogarsi. E ricominciava a nuotare senza sosta; vi rimase dieci ore di fila, arrendendosi alla fine. Non alla morte, ma al mare che gli aveva giocato quello scherzetto, quasi a volergli dire che non sarebbe stato responsabile della sua morte. Una scena quasi comica, con un tizio basso e bruttino che, alla fine, si riveste, prende l'ultima lettera del suicida dalla giacca, la appallottola e la butta via incazzato a morte.
Torna a casa, e si mette subito al tavolo; scrive un'altra lettera, dove spiega razionalmente di essere un nuotatore provetto e di essersi fatto trascinare dal piacere di filare nel mare come un treno, senza pensare a niente. E dire che, poco prima, aveva scritto una poesia al vetriolo contro chi minaccia di suicidarsi a ogni piè sospinto, prepara tutto quanto il rituale e alla fine, regolarmente, ci ripensa. S'intitola, quella poesia, Suicidi ideali:
Girano la chiave nella porta, prendonole vecchie lettere che avevano serbato; leggono calmi, per trascinare poi i loro passi per un'ultima volta.
La loro vita, dicono, è stata una tragedia, Dio mio, le risa orripilanti della gente, le lacrime, il sudore, la nostalgia dei cieli, i luoghi abbandonati
Si mettono alla finestra, guardano gli alberi, i bimbi e, oltre, la natura; guardano i marmisti che martellano e il sole che tramonterà per sempre.
Tutto è finito. Ecco l'ultima lettera, breve, scarna, profonda; così s'addice. Piena d'indifferenza e di perdono per chi, nel leggerla, certo piangerà.
Si guardano allo specchio e vedono l'ora, si chiedono se sia follia o un errore; mormorano tra sé: “Tutto è finito”, arcisicuri che ci ripenseranno.
Gli stava, forse, accadendo la stessa cosa. Dopo la nuotata infinita. Andò a dormire dopo aver riscritto la sua lettera, dove prendeva in giro ferocemente se stesso. La stessa cosa che aveva fatto nella sua poesia, prevedendo forse come sarebbe andata.
Il giorno dopo, il 20 luglio, si alzò a un'ora antelucana; ma non per nuotare. Andò prima a un piccolo caffè del porto, che era già aperto perché in Grecia, d'estate, tutto è già aperto prestissimo, prima che sia troppo caldo per fare qualsiasi cosa. Erano le quattro e mezzo del mattino; si sedette a un tavolo e cominciò a ordinare un caffè dietro un altro, e a fumare come un disperato. Un caffè e una sigaretta, una sigaretta e un caffè, un caffè insieme alla sigaretta, una sigaretta insieme al caffè. Vi rimase tre ore, poi si alzò, pagò tutto quanto e se ne andò.; il piccolo caffè si chiamava Ουράνιος Κήπος, cioè "Giardino Celeste" e, in definitiva, "Eden, Paradiso". Si diresse poi a un'armeria, e vi acquistò una pistola Pieper Bayard da nove millimetri; con quella in tasca andò ad un'altra spiaggia della zona, chiamata Agios Spyridon, San Spiridione. Era famosa, quella spiaggia, per un gigantesco albero di eucalipto che vi cresceva; sotto quell'albero Karyotakis si mise, in piedi, e si sparò un colpo solo, nel cuore. Lo trovarono là con l'ultima lettera, quella buona, in tasca. Quella in cui raccontava della nuotata del giorno prima. Era vestito di tutto punto e con la magiostrina in testa, come usava allora; nessuno, anche in piena estate, sarebbe mai uscito a capo scoperto. Sotto il suo ultimo albero, la polizia gli scattò la foto come da prassi.
Naturalmente, pochi mesi dopo i critici si accorsero della sua grandezza e della sua innovatività; i poeti sono coloro che hanno bisogno di morire in qualche modo, per diventare grandi. Della loro morte in vita non si occupa generalmente nessuno, e si direbbe quasi che il disprezzo e l'indifferenza siano fabbricati ad arte per costringerli prima a levarsi dai coglioni, e poi a glorificarli. La poesia manoscritta riprodotta nell'immagine sotto il titolo si intitola Ottimismo. Ora Kostas Karyotakis è uno dei più grandi nomi della letteratura greca del XX secolo. Sul muro dove abitava a Preveza c'è una lapide; la Pieper Bayard con cui si uccise è custodita al museo Benaki di Atene. In Grecia, prima o poi tutto diventa una canzone; Suicidi ideali fu affidata a uno dei più importanti, il cretese Nikos Xylouris, colui che il 17 novembre 1973, mentre i militari schiacciavano nel sangue la rivolta del Politecnico, aveva preso la sua lira e era andato a cantare e suonare in mezzo ai ragazzi che venivano massacrati. Il mare, la morte, la musica. Chissà che faccia avrebbero fatto quelle signore che qualche giorno fa, in coda all'Esselunga, mi sentivano cantarla in greco, se avessero saputo di che cosa parla.
Momenti di passione, Giornate di bruciore, Ti scrivo, BCE, Non c'è più Berlusconi ma il prof della Bocconi ci vuole massacrar
Col Monti senza grana noi ci ritroveremo, e alfine noi saremo coi conti un po' ristretti E coi conti ristretti non mangeremo nulla più, poi tornerà il Berlüsca con la sua uebb-tivvù!
Lo vuole anche il Bersani, lo vuol la Marcegaglia lo vogliono i finiani ma che bell'accozzaglia E forte sale il grido rivolto a 'sti troiai: ma a tutti questi il DASPO non glielo danno mai?
Col Monti senza grana noi ci ritroveremo, e alfine noi saremo coi conti un po' ristretti E coi conti ristretti i sacrifici li fai tu, al welfare e ai trasporti dovrai fare cuccù!
Diciassette novembre, manifestazioni studentesche. Perché i ragazzini no, non si fidano; e poiché non fidarsi dei salvatori della patria, in questo momento, è essere irresponsabili, vengono responsabilmente caricati, repressi, presi a manganellate. Palermo: un uomo di 47 anni, Giovanni Pisciotta, si frappone tra gli studenti che manifestano non troppo pacificamente e la polizia che sta ricordando loro come si salva la patria. Dice il "governo tecnico" che non ci sarà nessuna "macelleria sociale": giusto, dato che esordisce con la solita, cara, vecchia macelleria messicana. E così Giovanni Pisciotta, passante quarantasettenne con addosso la tuta del Palermo Calcio (chissà che domani non bollino anche lui di ultrasblackblockdaspofacinoroso), nel tentare di difendere i ragazzini viene, come dire, responsabilizzato nel modo che si vede nella foto. Ma come ha osato. Mettersi nel mezzo mentre i tutori dell'ordine stanno pestando quei mocciosi che non si accampano con le tendine nelle piazze a cuocere salsicce e a smanettare su Twitter. Ci sarebbe quasi da indignarsi. Invece di fare occhiupài Palerm vanno a fare un atavico casino in piazza e, orrore, si scontrano con la polizia, che ora dovremmo chiamare politecnica visto che è agli ordini del governo tecnico.
Dimenticavo, a proposito di politecnico. Oggi è il diciassette novembre. Trentotto anni fa altri ragazzi e altra repressione. A Atene. Anche allora c'era, in Grecia, un governo altamente tecnico: pensate che ministro della difesa era un militare. Qui da noi, che siamo una democrazia, è impensabile avere un militare come ministro della difesa...no, che dite, mi sto sbagliando? Eh, Italia e Grecia. Μία φάτσα, μία ράτσα. Gran governi tecnici, gran polizie, gran manganelli. Bisogna che lo capiscano anche i signori Pisciotta che hanno l'ardire di frapporsi tra il braccio armato della Responsabilità e della Coesione e i ragazzini agitati. Per che cosa si agiteranno, poi? Papà mariomonti è tecnicamente vicino a loro. Ha incontrato persino il forum. Anche il signor Pisciotta ha corso il rischio di incontrare il forum, il forum di un projectilem; per ora si è dovuto accontentare del manganellum. Sembra quasi il nome di una legge elettorale.
Già scordati del 15 ottobre? Beh, capisco che ora non c'è più la fonte di tutti i mali e che ci abbiamo i tanto agognati tecnocrati di "alto livello", molti saranno felici e contenti (nonché pronti a farsi massacrare, ma sicuramente "coesi" e per il "bene dell'Italia"). Eppure, il qui presente è convinto che occorra riandare al 15 ottobre perché ben presto si presenteranno scenari da farlo impallidire. Quello che segue rappresenterà forse una novità per molte lettrici e lettori di questo blog, in quanto si tratta, ebbene sì, di un documento politico. Era nato come tale e non per essere pubblicato su questo blog, ed alcune parti sono state poi integrate effettivamente in un "documento unitario" di alcune realtà antagoniste. In breve, mi vedete alla prese con forme di ragionamento e di argomentazione che non traspaiono spesso da questo "faro della bloggosfera" (la definizione non è mia). Con tutto ciò, sono persuaso che affrontare gli avvenimenti quando sono usciti dall'immediata attualità sia una cosa utile, anche perché le problematiche che vi sottostanno sono sempre terribilmente presenti. Ovviamente, pur tenendo conto della sua natura, vi troverete alcune cose che ho già detto qui dentro. Buona lettura, se vorrete.
Un ragionamento analitico su ciò che è avvenuto dopo la manifestazione del 15 ottobre non può prescindere da alcuni confronti con il passato. Pur nella diversità estrema delle situazioni, o meglio dei sottofondi sociali, politici e economici, non si possono certo considerare come delle novità alcune reazioni ed alcuni fatti avvenuti in seguito alla manifestazione ed agli scontri violenti che l'hanno caratterizzata. La manifestazione del 15 ottobre si configurava già da prima come un “ibrido” che racchiudeva in sé entità molto differenti, e in certi casi persino incompatibili tra di loro; cosa che avviene regolarmente quando si ammucchiano in un solo corteo realtà che si dicono “radicali”, ma che invece sono interamente inserite nel sistema (si pensi a SEL), realtà antagoniste fuori dal sistema e, infine, realtà non facilmente definibili che esprimono però un'autentica rabbia dal basso. Non a caso, percependo la presenza di tali realtà in mezzo al corteo, già da alcuni giorni prima si erano moltiplicati gli “appelli” (da parte di figure istituzionali e non) affinché “tutto si svolgesse in modo pacifico”. Occorrerebbe senz'altro ragionare anche sulla “forma-corteo”, e sull'opportunità di riproporre regolarmente “grandi manifestazioni” che obbediscono sempre alla medesima scaletta, con la divisione tra “manifestanti pacifici” e “facinorosi” (per i quali oramai si è soliti usare l'etichetta giornalistica di “black bloc”); in attesa di un serio ragionamento su tale problematica e sulle forme di lotta attiva più efficaci in un frangente come questo, un ragionamento che a nostro parere non è più rimandabile alle calende greche, si è assistito ancora una volta al consueto svolgimento dei fatti. La necessità di relazionarsi comunque con l'esterno ha prodotto un cospicuo numero di partecipazioni critiche (e persino controvoglia); ha prevalso però in molti il desiderio di “esserci” e di fare parte comunque di un “movimento” che, alla realtà dei fatti, si è dimostrato pervaso da scopi, metodologie e pulsioni assai differenti e, a volte, del tutto opposte. Non che non lo si sapesse fin da prima, ma ancora una volta ha prevalso la logica del grande numero, della “massa manifestante” che, alla fine, si è dimostrata in massima parte del tutto avulsa dalla discriminante dell'autentica lotta anticapitalista e antisistema. Gli “Indignados de noantri” non spingono la loro “indignazione” al di là di generici slogan, di “colorate e pacifiche manifestazioni” e di accorate lamentazioni che sono gradite persino a certi politici e a certi governatori di banche. Se un Di Pietro può indifferentemente “comprendere le ragioni dei manifestanti” prima e invocare strette repressive poi non è un caso: le “indignazioni” che non vanno a toccare mai i capisaldi del sistema sono incoraggiate in quanto utili, mentre quelle che lo vanno a toccare e propongono anzi una forma di lotta organizzata devono essere stroncate con ogni mezzo.
Come dicevamo all'inizio, ciò che ne è susseguito non proviene dalla luna, ma obbedisce anzi a precisi riferimenti storici. La suddivisione tra “manifestanti buoni” e “cattivi” non è una novità, né in riferimento a periodi più lontani, né a periodi più vicini; è, anzi, la controprova (se mai ce ne fosse bisogno) che accodarsi alle “indignazioni” promosse e organizzate da entità non realmente antagoniste produce soltanto confusione e impasse disperanti (e un impasse disperante è in effetti ciò a cui si sta assistendo dopo il 15 ottobre, mentre gli eventi camminano a grande velocità). Occorre avere il coraggio di dire, a questo punto, che il problema non risiede nella quantità di manifestanti o nella partecipazioni ad ammucchiate che passeggiano per una città, ma nella capacità, da parte delle entità antagoniste e antisistema, di chiarire definitivamente la loro opposizione reale al capitalismo e di formulare proposte e forme di lotta tese alla sua eliminazione (o definitivo superamento). E' necessario avere questa capacità e di diffonderla con ogni mezzo a disposizione, senza rifiutarne alcuno a priori; altrimenti saremo sempre a confrontarci con strategie che non solo non pagano affatto, ma che offrono regolarmente il fianco a tutta una serie di cose che sono troppo ben conosciute per non tenerne mai conto. In termini di lotta, entità che si definiscono antagoniste non possono non relazionarsi a chi esprime una rabbia violenta e non negoziabile; è verso queste realtà, sempre più diffuse, che esprimono per la maggior parte il disagio incontrollabile di una generazione abbandonata e che parlano il suo stesso linguaggio, che un movimento di lotta antagonista e anticapitalista deve indirizzarsi. Se il 15 ottobre ha rappresentato uno spartiacque, come è stato giustamente detto da più parti, è necessario prendere atto che con le entità che si riconoscono comunque nel sistema, nelle sue istituzioni e nella sua “legalità” non è possibile alcuna forma di dialogo. Le reazioni da autentici questurini di un Vendola o di un Casarini ne fanno fede.
Imboccare decisamente una strada del genere espone naturalmente a rischi di ogni genere, ma è l'unica realmente praticabile se si vuol dare seguito al termine di antagonismo. Antagonismo significa “combattere contro”, e non esiste forma di lotta autentica esente da pericoli personali e collettivi. A tale proposito, meravigliarsi per la stretta repressiva messa in atto dopo il 15 ottobre è semplicemente miope e rivelatore di una mancanza di capacità di analisi storica e critica. La delazione è stata una costante a partire dalle lotte degli anni '70, e se un Di Pietro invoca il ritorno alla “Legge Reale” occorre sapere precisamente in che cosa essa consistesse e quali effetti abbia prodotto. Se un giornale-partito come “Repubblica” è in prima fila in tale campagna repressiva e delatoria, non si hanno evidentemente presenti le prese di posizione dell' “Unità” degli anni '70 nei confronti del movimento, oppure gli “untorelli” di Enrico Berlinguer. La legislazione speciale fu sostenuta fattivamente dal PCI così come oggi le forze della cosiddetta “sinistra” sostengono una “legalità” a base di arresti, repressione, ordinanze giudiziarie, sgomberi e chiusure. Il “pacifismo” di tale forze, tanto strombazzato e tanto invocato, si configura oggi come allora come una forma estrema di violenza nei confronti di chiunque si opponga al sistema non a parole, ma nei fatti. Alla delazione si accompagna la delegittimazione sistematica, specialmente con il pretesto che certi atti “rovinerebbero un movimento gioioso e pacifico”. Gli appelli all'unitarietà non sono praticabili, se tale unitarietà significa sottostare a logiche che non hanno niente di nuovo e che non mettono minimamente in discussione lo stato di cose; assai indicativa, a tale riguardo, è l'assoluta mancanza di una qualche forma di solidarietà nei confronti degli arrestati durante e dopo la manifestazione del 15 ottobre. Si tratta di una strategia ben precisa, che da un lato mira al consenso elettoralistico (tale, infatti, si è rivelata in gran parte la vera natura del corteo del 15 ottobre) e, dall'altro, a stabilire una forma di “lotta buona”, accettabile senza far troppo male a lorsignori e che, anzi, conti pure sull'appoggio di alcuni di essi (vedasi addirittura Draghi). A lorsignori, invece, occorre fare male, molto male. Occorre rifiutare qualsiasi appello pretestuoso alla “nonviolenza”, che nasconde soltanto la necessità di non addentrarsi nello scontro sociale frontale e nelle pietrose lande della coscienza di classe. “Nonviolenza” e “pacifismo” sono i capisaldi di chi, anzi, intende non fare assumere allo scontro caratteri di autentica contrapposizione, senza compromessi.
Un movimento che si vuole antagonista non può prescindere dal riferimento costante allo scontro sociale, perdipiù in un momento come questo, in cui esso sta raggiungendo dei livelli latenti potenzialmente esplosivi (si veda la situazione in Grecia). Una discussione all'interno dell'antagonismo deve essere tesa a capire i vari movimenti, la loro composizione e il loro ruolo, ma sempre con la discriminante dell'anticapitalismo militante, fattivo e teso realmente alla sua eliminazione e sostituzione. Lo scontro deve essere promosso, senza titubanze e pulsioni “ammucchiatorie” verso movimenti ed entità che intendono anzi chiaramente tenerlo a freno (e, ancora una volta, il riferimento storico al PCI è obbligatorio; come un giovane Adriano Sofri ebbe il coraggio di dire in faccia all'allora segretario Luigi Longo, “il PCI è di fatto il partito che ha impedito la rivoluzione in Italia”). Da questo punto di vista, un movimento antagonista deve anche mettere in risalto le ambiguità gravissime di certi movimenti che letteralmente vorrebbero tenere il piede in due staffe (si pensi ad esempio a “Bene Comune”) e, contemporamente, evitare categoricamente di commettere il medesimo errore (un pericolo purtroppo ben presente). O di là, o di qua. Siamo di fronte ad entità che promuovono e propongono come necessaria la stretta repressiva, e con esse è necessario ribadire che non si ha nulla a che fare. Si facciano pure le loro “manifestazioni pacifiche” e i loro inutili cortei più o meno grandi, e si “indignino” da una parte mentre dall'altra consegnano i “compagni cattivi” nelle mani della polizia. Si tratta di stabilire chiaramente e senza timori un diverso livello culturale, sociale e politico che tenda a mettere in risalto la necessità imprescindibile di uno scontro sociale che combatta davvero la violenza quotidiana di un sistema e di un potere economico e politico che ci ha condotti alla disperazione e alla mancanza di qualsiasi futuro. Questo e non altro. La cosa è terribilmente semplice e non richiede artificiali complicazioni, sofismi bizantini e acrobazie varie (caratteristica, quest'ultima, di alcuni presunti “maîtres à penser” come ad esempio il “Bifo” Berardi). Come scrisse Alfredo Bandelli nella redazione originale della sua famosa canzone “La violenza”, “chi ha esitato questa volta non sarà con noi domani”.
Pur muovendomi poco o punto, sono convinto che il mondo sia tuttora straordinario. Che la sua varietà, pur sconciata, messa in pericolo, disprezzata, distrutta e sottoposta ad ogni tipo di omologazione e banalizzazione, sia al tempo stesso l'unico vero tesoro veramente a disposizione di tutti e il miglior mezzo non soltanto per resistere (ché di resistere e basta, diciamocelo chiaro, ce ne abbiamo oramai fin qui), ma anche per insistere e, una buona volta, attaccare.
Questo è un gruppo di comunisti nepalesi che cantano l'Internazionale nella loro lingua. All'inizio sembrano disciplinati e messi in riga; sembra, e probabilmente lo è, una commemorazione per dei caduti. Poi attacca la musica. Ne salta fuori un delirio. La musica di Degeyter, il compositore operaio di Lille, trasformata in una specie di festa di tamburelli alle pendici dell'Himalaya. Tranquilli signori, ragazze, berrettoni di lana, chitarrini, pugni chiusi, cappellini da pescatore, ragazzi con le armi in pugno, maglioni a collo alto. Un casino di una compostezza inconcepibile, fregandosene allegramente del tempo musicale ma mantenendo la mesta fermezza di chi ha lottato, riuscendoci, per liberarsi da un regime feudale. Facce vere, e sguardi che tradiscono una lotta durata anni e sangue.
Tutti buoni a dire che siamo nati per marciare sulla testa dei re mettendoselo magari nella firmina dei post; questi, sulla testa di un re, ci hanno marciato sul serio. E ci fanno sentire questa Internazionale dove manca soltanto Eugène Pottier a cantare insieme a loro, portandosi dietro qualche pezzo di barricate della Comune. In piedi, dannati della terra! Da niente diventeremo tutto.
Più questo paese si è consegnato alle peggiori figure che si possano immaginare, più esso è precipitato negli abissi della volgarità, della carogneria, dell'incultura e della vuotezza, e più siamo stati appestati dalla "responsabilità" e dai "responsabili". È stato impossibile sfuggirvi: qualsiasi schifezza, qualsiasi prevaricazione, qualsiasi repressione, qualsiasi privazione è potuta passare invocando la "responsabilità". Dare via il deretano a Marchionne? Certo, perché bisogna essere responsabili. Come Bonanni, campione indiscusso di responsabilità. Finanziare, rifinanziare, trifinanziare le "missioni di pace" mentre ci levano anche il pane dal piatto? Occorre avere senso di responsabilità. Ci sono gli impegni presi. Le spese militari non si discutono. Privatizzare anche l'aria che si respira? I mercati ci impongono concreti segnali di responsabilità. Un governo assai responsabile sta tagliando ogni cosa, quindi l'unica soluzione è affidare responsabilmente i servizi essenziali a gestori unici (ora non si può più dire nemmeno "privati"). La cultura? Sarebbe da irresponsabili darle troppi fondi, la responsabilità impone di dirottarli per contribuire a coprire un debito pubblico responsabilmente accatastato da tutta una serie di entità responsabilissime. Non parliamo poi della TAV, delle grandi opere e delle infrastrutture imprescindibili; il più alto senso di responsabilità, unito per puro caso ai maggiori interessi economici e alle mafie, qualifica automaticamente di stolti irresponsabili coloro che osano opporsi; e, in questi casi, gli irresponsabili possono essere tranquillamente manganellati, pestati a sangue, fermati, incarcerati. La responsabilità ha oramai invaso tutto: mettiamo che ci sia una manifestazione dove alcuni non hanno nessuna intenzione di soggiacere alle regole di legalità imposte dal famoso "99 per cento"; naturalmente vengono immediatamente bollati come irresponsabili (sinonimi: "facinorosi", "violenti", "black bloc", "frange incontrollabili") non soltanto dai politicanti, non soltanto dai leader, ma anche e soprattutto dai responsabilissimi, giojosi, nonviolenti e festosi "indignati" che, infatti, li consegnano immediatamente (e responsabilmente) nelle mani della polizia e si prestano, in un impeto incontenibile di responsabilità, alle campagne delatorie di qualche giornale di larga diffusione. Infine, come non accennare all'inaudito senso di responsabilità dei vari amministratori locali? Ne siamo stati, come dire, praticamente alluvionati. Scossi da terremoti di responsabilità, come ben sanno ad esempio alcuni studenti che dormivano alle 3,32 in una pittoresca città abruzzese. Una vera e propria responsabilità idrogeologica. Risatone responsabili. E chi avvertiva dei rischi, chi diceva di non costruire in un dato luogo oppure di costruirvi con criteri, toh, responsabili, veniva tacciato subito di irresponsabile e, magari, pure sbeffeggiato, rimosso, umiliato, messo a tacere, ignorato e, in alcuni casi, ammazzato.
Oggi, sembra, si è dimessa dalla sua carica una persona che è stata senz'altro un modello di responsabilità per questo paese, sin dalla sua famosa discesa in campo di alcuni anni fa. Tra lui ed i suoi oppositori, manco a dirlo, c'è stato un continuo balletto di accuse e rivendicazioni di responsabilità e irresponsabilità. Non parliamo ovviamente della maestosa figura super partes, il Responsabile de' Responsabili, detto anche Coësion Kid. Ad un certo punto, mentre già il paese di Centocinquantànnia e le sue bandierine alle finestre stavano andando a rotoli grazie a un profluvio di responsabilità, un governo barcollante veniva salvato da un manipolo di sconosciuti guidati da uno di cui non ricordo il nome, Scili qualcosa o roba del genere. Indovinate un po' voi come ebbero non soltanto a definirsi questi qui, ma persino ad assumersela come ragione sociale. Avete indovinato: Responsabili. Come dubitarne. Ma dicevamo di quello che, oggi, si è dimesso nel giubilo del pòpolo.
Al suo posto, per cooptazione unanime, arriverà un uomo che dev'essere nato già Responsabile. La sua prima parola non dev'essere stata "mamma", ma pepponzabbippippà. Il bocconiano che, ora, si prepara a farci tutti a bocconi. Lo vogliono tutti, anzi no: lo devono volere tutti. Il Responsabile de' Responsabili lo ha prima nominato senatore a vita; il Grande Giornale Progressista & Illuminato lo sostiene a spada tratta; è stato all'unisono investito come Salvatore della Patria, perché il suo indiscusso senso di responsabilità lo rende gradito principalmente a coloro che ci hanno ficcati a capofitto in questo gorello. A qualcuno non va a genio? Pochi irresponsabili che devono essere piegati. Un fascista pieno di Valori, nonché invocatore di leggi speciali, che dopo i primi belati non ha esitato a fare marcia indietro con tante scuse. Un Libero Ecologista di "sinistra" che farebbe meglio a premettere una "s" al suo cognome. Alcuni esponenti della gang del Dimissionario, che però in extremis hanno responsabilmente trovato un faticoso accordo. Il Dimissionario stesso, che oggi è andato a pranzo con il suo Responsabile Successore (chissà se si saranno permessi almeno un'irresponsabile strippata di pasta alla gricia e coda alla vaccinara). Restano fuori soltanto gli irriducibili, un panzone con la barba e il führer dei Padani; e siamo messi davvero bene. Il resto ha responsabilmente aderito all'operazione imposta e teleguidata.
Chissà cosa ci avranno tanto da festeggiare quelli che, stasera, si sono assiepati all'esterno del Responsabilificio Supremo 'ncopp' 'o colle. Farsi massacrare responsabilmente. Farsi licenziare, privatizzare a sangue, marcegaglizzare. Trovarsi Van Rompuy nel letto a tirar loro le lenzuola. Essere appesi ai ganci della macelleria sociale. Il pòpolo che festeggia le misure impopolari, perché il pòpolo ha finalmente appreso ad essere responsàbile, e a non ribellàrsi. Gli basta, al pòpolo, che il τύραννος se ne sia andato nel freddo di una sera di novembre; poi si può accettare tutto a testa bassa, senza mai andare alle radici vere dei problemi, senza mai andare a toccare direttamente chi, stavolta davvero, è responsabile di tutto questo.
Ma, naturalmente, nessuno può essere così irresponsabile da proporre e mettere in atto qualsiasi cosa che non sia pienamente gradita ai mercati, alla BCE, alle istituzioni economiche e monetarie, alle banche e persino alla barba inutilmente curata di Eugenio Scalfari. Dopo averci propinato per secoli la farsa della loro democrazia e delle loro elezioni, stavolta non sono capaci nemmeno di ricorrervi. Chi ci ha provato flebilmente, tipo un greco col suo "referendum", è stato immediatamente buttato nella spazzatura e sostituito con un responsabilissimo personaggio che gode della fiducia dei padroni del vapore e cui è demandata la salvezza del paese. Così come da noi. Una salvezza che sarà sterminio. Ci sarebbe soltanto da liberarsi definitivamente, di tutti questi Responsabili che puzzano di morte; occorrerebbe, soprattutto, liberarsi dalla mistificazione criminale della "responsabilità" stessa, vero e proprio lavaggio del cervello che nasconde soltanto l'obbedienza ai diktat di un capitalismo nudo e feroce. Ma, per farlo, bisognerebbe assumerci tutti quanti una ben precisa responsabilità. Una responsabilità che non somiglia a un pranzo di gala.
Ogni mattina ho una serie di rituali; ci sono quelli necessari, come le pasticche e la colazione (strettamente legate, dato che senza colazione non posso prendere le pasticche), e quelli puramente voluttuari. Ad esempio, non mi perdo mai su Wikipedia i santi del giorno; poiché la mia anima è oramai irrimediabilmente perduta e laggiù nelle malebolge mi stanno aspettando a braccia aperte con le diavolesse vestite da majorettes, un po' di frequentazione di sant'uomini e sante donne mi serve a rendermi conto che cosa mi perderò per l'eternità. Anche se, ovviamente, non mancherò di chiedere un permesso per una giratina; sono un ragazzo curioso e mi accontenterò di farla da solo, senza virgili o beatrici, e senza nessuna pretesa di scrivere poemi immortali ma soltanto qualche post sull'Ekbloggethi Seauton Infernal Network. Nell'attesa del fatale e inevitabile momento, mi diletto di santi e santesse, con una naturale predilezione per i poveracci, le dimenticate, quelli e quelle di cui tutti ignorano (e continueranno a ignorare) l'esistenza e cui nessuno rivolgerà mai nemmeno una preghierina per guarire da un frignolone al culo o potersi finalmente comprare l'iPad. Questa predilezione qui ce l'ho fin da quando, da ragazzino, lessi un racconto di Dino Buzzati intitolato I santi, il cui protagonista è giustappunto uno di questi santi dimenticati; somigliano maledettamente ai mortali terreni. Sembra non esserci proprio nessuna soluzione di continuità: poveri cristi erano in terra, e poveri cristi sono rimasti in cielo. Tutto si riproduce, comprese le differenze di classe; ci sono santi miliardari (naturalmente in termini di venerazione) e santi nullatenenti, santi straborghesi e santi proletari, santi "in" e santi "out". Quelli che meno sopporto sono i ricconi e gli aristocratici che, a un certo punto, hanno scelto la povertà; insopportabili. Mi ricordano, e nemmeno tanto vagamente, la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare col suo yacht Il bracciante. Mi si dirà: Sí, ma pensa a San Francesco d'Assisi che in povertà nera ci visse per davvero dopo esser nato figlio di un ricchissimo mercante; d'accordo. Però, intanto, lui è San Francesco, mica noccioline. È andata a finire che in cielo è diventato un pezzo da 90. Ci ha le basiliche con gli affreschi di Giotto. È persino su ogni antologia della letteratura con il Cantico delle creature. Franco Zeffirelli ci fa i filmini sopra. O provate a chiedere se ha tutto questo San Firmino da Zagarolo, nato povero e morto povero. O Santa Marina di Omura.
Con quel nome lì, sembra piuttosto una piccola località balneare del litorale viterbese; invece no, era nientepopodimento che giapponese e fu martirizzata l'11 novembre 1634. Al rogo, ovviamente. Insomma, si arderà pure tra le fiamme dell'inferno, però il numero di santi e beati che sono arsi tra le fiamme terrene è più che notevole; compresa Santa Barbara, che fu torturata col fuoco (e poi decapitata) per poi finire a fare la santa protettrice dei pompieri e degli artificieri; o san Lorenzo, messo addirittura a grigliare ma che non perse nemmeno in quel terribile momento il suo sense of humour, dicendo ai suoi aguzzini vertite, hoc latere iam coctum est ("rigiratemi, da questa parte sono già cotto").
Ma dicevo di Santa Marina di Omura. Ci sono almeno un paio di segni incontrovertibili che si tratta di una santa autenticamente poveraccia; prima di tutto, la sua data di venerazione. Per i santi di serie B non si sa mai quando sia veramente. Wikipedia dice che è l'11 novembre, ma sul santino che ho riportato in immagine è il 28 settembre, che è tra l'altro anche il giorno di San Piero Ciampi (famoso per essere annegato in un fiasco di vino). È un destino comune anche al mio santo personale, che penso essere addirittura di Lega Pro: non si riesce a capire se S. Riccardo sia il 7 febbraio o il 3 aprile. Ho continuato per anni e anni a dire che il mio onomastico era il 3 aprile, si trattava di uno dei rari punti fermi nella mia vita; invece, zàc, ecco spuntare non so quanti calendari che lo riportano il sette di febbraio. Mio fratello, che si chiama Francesco, non ha dubbi: lui ci ha un santo di serie A, e pure pluriscudettato e vincitore di parecchie coppe europee, e il 4 ottobre non si discute. Il secondo segno è che a un santo poco gettonato viene invariabilmente messo nello stesso giorno anche un santo notabile. L'11 novembre, ad esempio, è anche San Martino di Tours; e dico poco. Pure abusivo; era morto infatti l'8 novembre, ma fu sepolto l'undici. Queste sono prevaricazioni belle e buone. La povera Marina di Omura era morta regolarmente l'undici, e si è dovuta ritrovare assieme a un "barone" cui hanno assegnato la stessa data in modo del tutto arbitrario. Poi, comunque, basta dare un'occhiata alle rispettive pagine Wikipedia: San Martino ci ha una bella paginata, seppur priva di riferimenti bibliografici puntuali; Santa Marina di Omura si deve contentare di poche righe, uno stub nel gergo wikipediano. Tutto questo considerato poi che San Martino morì di morte naturale, mentre la povera Marina fu bruciata viva. Inutile fare. Quando si nasce scalognati, si muore scalognati e si diventa pure santi scalognati.
Immaginatevi voi questa povera donna nel Giappone del XVII secolo; già non doveva essere una goduria, in quel tipo di società. Per giunta, decide di farsi cristiana (con voti religiosi privati), comincia a frequentare missionari occidentali e, una volta scoperta, viene messa al rogo senza nemmeno passare dal via. Continuando con i paragoni, San Martino era praticamente già stato fatto santo ancora in vita; fu canonizzato ufficialmente nell'alto medioevo. La povera Marina di Omura ha dovuto aspettare tre secoli e mezzo, e incocciare in un papa (Giovanni Paolo II) che è stato un vero e proprio santificio. San Martino ci ha tutto: oltre a non si sa quante basiliche, chiese e chiesette, oltre a quadri dei pittori più famosi, oltre alla diffusa venerazione popolare in tutte le epoche, oltre ad essere santo patrono dei reparti di fanteria degli eserciti, ci ha pure l'estate. Eh si. Da cosa credete che derivi, l'estate di San Martino? Avete mai sentito parlare non dico di un'estate, ma anche di un ponte infrasettimanale di Santa Marina di Omura? Non parliamo poi dei miracoli. A San Martino ne sono attribuiti a centinaia; a Santa Marina nemmeno una trasformazione di acqua in sakè. Niente. Le è toccato solo essere vergine e martire, che magari ne avrebbe fatto pure a meno.
Colmo dei colmi, la Marina di Omura mica fu messa la rogo in un posto tranquillo; no, a Nagasaki. Sparse talmente la sua aura di santità e di protezione celeste, che la città dove avvene il suo martirio fu poi distrutta dalla bomba atomica. Non fosse una santa, ci sarebbe da pensare che avesse mandato su Nagasaki tutt'altro che delle benedizioni. Insomma, ci ha tutto quanto perché resti estremamente simpatica, e umana. Per quel che mi riguarda, oltre che al S. Pietrino protettore dei manifestanti che da qualche giorno campeggia nelle immagini a corredo del blog, mi farò senz'altro devoto a Santa Marina di Omura; fosse mai che, rivolgendole qualche giusta preghierina, non abbia a sganciare una bomba H sul capino di qualcuno che mi sta parecchio sulle scatole.
Ieri sera mi ero persino preparato, girando la sedia verso il televisore e lasciandomi un goccio di vino dalla cena (che da qualche tempo è forzatamente frugale). C'era, su La 7, il film sul Che Guevara con Benicio Del Toro, che era già stato rimandato la settimana scorsa perché c'era da seguire la drammatica situazione; e me lo volevo proprio riguardare. Risultato: lo hanno rimandato anche ieri sera. Al suo posto, si indovini che cosa: un film-documentario su Berlusconi. Così mi sono moderatamente incazzato, ho spento ogni cosa e dopo un po' me ne sono andato a letto col gatto che già dormiva dopo aver passato tutta la giornata, finalmente bella, a zampettare e vagare per il vicinato. Ultimamente il gatto della vicina gli sta dando proficue lezioni di arrampicata sugli alberi nel giardino di fronte, e la sera è stanco morto. Essendo andato a letto presto, è andata a finire che mi sono svegliato prima dell'alba; è ancora buio pesto, il gatto si è svegliato pure lui e è già in giro per l'Isolotto, e ora mi metto il caffè sul fuoco. Fra un po toccherà alle caramelline del mattino: Plavix, Triatec, Metoprololo e Metformina per il diabete. Oggi niente riabilitazione al day hospital (chissà perché non si può dire ospedale diurno, quando in Islanda, dove gli ospedali funzionano senz'altro meglio che qui, si dice tranquillamente dagssjúkrahús); iermattina, invece, mi sono fatto la consueta seduta di pallosissima cyclette e gli esercizi riabilitativi. Però mi ero portato un libro, che leggevo pedalando: l'Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Quando la giovane dottoressa mi ha chiesto incuriosita che cos'era e le ho risposto che era "un libro sulla guerra di Spagna", mi ha risposto meravigliata che non sapeva che in Spagna c'era stata la guerra. Ho continuato a leggere. Ero arrivato al maggio '37 a Barcellona e alla centrale telefonica. Accanto a me facevano pedalare un'anziana signora che andava come un treno, e nel frattempo saliva lo spread e si preparavano le larghe intese.
Ora sí, me lo vo proprio a preparare 'sto benedetto caffè. Senza zucchero. Un amico mi ha portato la stevia rebaudiana, una piantina che cresce in Paraguay e le cui foglie sono più dolci del miele; è inutile, berlo amaro proprio non mi riesce, e l'aspartame è un troiaio anche più del saccarosio. Il gatto è passato nel cortile a velocità supersonica; sabato sera ha fatto fuori il primo piccione della sua vita e ne ha portato la salma in casa. Ben altri predatori stanno agendo in queste ore; ed è sempre buio fitto. Però si cominciano a sentire le prime macchine che passano per via dell'Argingrosso; i primi disgraziati che vanno a lavorare. Alle fermate dell'autobus in via di privatizzazione ci sarà già qualcuno che aspetta; e, uno di questi giorni, l'omaggio alla catalogna lo farò senz'altro anch'io, comprandomene un mezzo chilo al mercato qui in piazza e facendomelo saltare in padella con olio e limone. A una cert'ora dovrà svegliarsi anche Giorgio Napolitano, che sicuramente sta ancora dormendo perché è grave d'età e non gli fa bene svegliarsi alle quattro e mezzo di mattina anche se ci ha da fare il governo di salvezza nazionale. Un altro ragazzo, a Roma, sta invece passando la sua prima notte in galera domestica perché aveva un concetto parecchio diverso delle cose; e non è escluso che, in qualche galera propriamente detta, qualcun altro si stia preparando una corda e che abbia deciso che non vale più la pena che sorga il sole.
A giorno fatto, poi, non si sfugge. Toccherà affrontare tutta una serie di cose. Si va avanti con le incombenze quotidiane sapendo che ci massacreranno. Che sia Berlusconi o che siano i salvatori nazionali, i parlamenti, le banche dall'agenzia della Cassa di Risparmio in via Cecioni fino a quella centrale & europea. Quando sento parlare di macelleria sociale, chissà perché, mi viene a mente uno spaccio popolare di carne, una cooperativa di allevatori o qualcosa del genere; come la cantina sociale, insomma. Siamo, infatti, in mano a dei briachi per i quali non sono mai previsti i controlli con l'etilometro. Bevo il caffè con la stevia rimbaudiana (mi viene di chiamarla così, riportando tutto al ragazzino di Charleville), e passata la prima mandata di passaggi automobilistici in direzione dello sgobbo, è tornato un silenzio profondo nell'oscurità di novembre. Sul letto, il vecchio maglione liso che serve al gatto per rinvoltolarsi; sta crescendo a vista d'occhio, gli piace la carne cruda e sono ragionevolmente certo che, lui, la macelleria sociale saprebbe bene come affrontarla. Magari assieme al suo amico di pelo qui accanto, che è diventato maestoso; si farebbero immediatamente delle larghe intese per papparsi ogni cosa.
Tra non molto verrà l'alba. Ieri, su YouTube, ho visto dei filmati girati a Marina di Campo; è distrutta. Accanto al Bar Capriccio, dove da ragazzino c'era il muretto della compagnia estiva (l'Ornella e la Silvia di Torino, Roberto di Napoli, i tre empolesi, la Caterina di Vimercate con il suo clamoroso costume leopardato, la Claudia che si mise con Roberto il 20 luglio 1978 facendomi passare le pene dell'inferno), c'è una voragine. E' crollato il muretto, e è crollata anche la spiaggia. Chissà che non ritrovino i boccali di birra che quel pazzo dello Stauffenberg si divertiva a seppellire dopo esserseli tracannati; che cognome, eh. Era nientepopodimeno che il bisnipote dell'attentatore a Hitler. Si sono verificate delle larghe intese tra lo scirocco e il dissesto idrogeologico, e è tutto andato. Se ne dovrebbero andare via tutti. Dovremmo mettere ogni cosa a ferro e fuoco. Dovremmo ribellarci; ecco le solite frasi che, puntuali come la morte, mi si affacciano in mente. Non sono granché originali, lo so; ma neanche quel che ci tocca vivere, a pensarci bene, è originale. È, anzi, terribilmente ordinario, banale, piatto. Una quieta disperazione che sa scagliarsi soltanto verso quei pochi che hanno la capacità e il coraggio di mescolare rabbia e fuoco.
La strada, mi hanno detto, s'interrompe definitivamente a Procchio. Oltre non si va; ci sono allagamenti e frane. A Procchio, negli ultimi decenni, c'è stato lo sviluppo; un suo esempio si vede nella foto sopra. Sembra un ospedale, e se lo fosse si potrebbe almeno dire che è qualcosa di utile per la comunità; invece è il Residence Napoleon, un mostro costruito alla fine degli anni '60 in mezzo al bosco, alla macchia mediterranea. Sbancando, sterrando, deforestando, dissestando. Oggi, a Procchio, che io mi ricordo ancora come un bivio e dieci case, c'è tutta l'industria del turismo e del divertimento; e hanno costruito, costruito, costruito. Hanno devastato. In mezzo a Procchio, le fondamenta di un altro ecomostro (che doveva essere un centro residenziale e commerciale) sbrecciate, arrugginite, circondate da anni da un'orrenda rete arancione di recinzione provvisoria; ci finirono in galera maggiorenti vari, e c'era dentro fino al collo anche il "ministro" Altero Matteoli. Il quale, all'epoca, era ministro dell'ambiente. Anche quel rudere è andato sott'acqua, oggi. La banda dei devastatori a pieno regime.
Genova. Dino Campana le dedicò una poesia in cui la sua notte Tirrena era una infinita occhiuta devastazione; ma, a Genova e in tutta la Liguria, la vera devastazione non è dovuta né alla notte e né al Tirreno. È dovuta al gangsterismo istituzionale e affaristico a qualsiasi livello. Una città che si è ritrovata autostrade sul balcone di casa, raffinerie di petrolio in mezzo ai condomini, casermoni dentro ai torrenti e ogni altra sorta di orrore territoriale. Niente è risparmiato in questo paese. Né l'isola nel mare, né la grande città. Né la montagna, né la pianura. Grandi e piccole opere e infrastrutture, tutte regolarmente essenziali, tutte per lo sviluppo economico; di fronte a quale sviluppo economico siamo di fronte, lo si vede attualmente benissimo. Devastazione e soldi. Devastazione e comitati d'affari. Devastazione e politicanti, dal piccolo sindaco con la sua minuscola giunta fino al potente ministro con la sua potente congrega di banditi. Dalle villette e seconde case a schiera in riva al fosso degli Alzi fino al ponte sullo Stretto; dalle TAV al canale di Saviano. Hanno devastato tutto, e lo hanno fatto in nome del niente. Un paese dove prospera soltanto il business del disastro, gestito peraltro da chi lo ha disastrato anche economicamente e moralmente.
Belìn! Ci stanno devastando Genova questi bastardi!, si sentiva e si leggeva nel luglio del 2001 dalle radio e dalla Rete. Ma non si riferivano, questi bravi cittadini, alla devastazione della loro città che era stata compiuta scientificamente per decenni. Non si riferivano al Bisagno che va fuori ogni anno alla prima pioggia torrenziale. Non si riferivano ai torrenti interrati e ricoperti di cemento, non si riferivano alle Lavatrici, non si riferivano all'urbanizzazione selvaggia di aree su cui sarebbe stato criminale costruire persino una stalla. Si riferivano ai black bloc, ai teppisti che si limitavano a distruggere vetrine del cazzo e automobili. E come gioivano gracchiando ("Uno a zero!") alla morte di Carlo Giuliani. Perché va così: per la devastazione di due vetrine, di un bancomat e di qualche macchina si invocano leggi speciali, giri di vite, forche, patiboli e si montano su campagne di pubblica delazione organizzata. Per la devastazione vera, invece, quella di città, di isole, di un paese intero, si invita al silenzio composto, alla preghiera e a considerare la tragica fatalità. Si mettono in risalto gli atti di eroismo (siamo o non siamo un paese d'eroi?) e si contano i morti delle alluvioni. Però, al momento dove sarebbe opportuno farlo, nessuno si pone mai la domanda chi l'abbia devastata davvero, Genova. O chi abbia devastato Roma a partire dal primo dopoguerra. Secondo parecchi elbani, il Parco Nazionale avrebbe distrutto l'isola, e ci fu persino chi minacciò (e forse eseguì) incendi boschivi dimostrativi; chi l'ha distrutta l'Isola? Chi ha trasformato questo paese in un luogo dove una povera donna può morire nella sua cucina, in un metro e mezzo d'acqua straripato da un fosso insignificante?
Per me, quella persona erano dei ricordi. Non saranno stati importanti. Non saranno stati profondi. Ma era un essere umano che mi chiedeva come stavo, se la incontravo (e saranno stati anni e anni che non lo facevo). Era un nome che ogni tanto ritornava nei fatterelli raccontati nel portico di casa, lo stesso portico che, ora, può non esistere più. Stasera ho sentito il suo nome ai telegiornali nazionali. L'ho letto persino sulle agenzie di stampa russe. Me la ricordo una volta a Galenzana, che faceva il bagno insieme a me e alla mia famiglia; sembra che anche Galenzana non esista più o quasi.
Non doveva esserci. Non doveva esserci il nome di nessuna delle migliaia di morti che i devastatori hanno prodotto.
Quante volte, su questo blog, ho raccontato storie dall'Elba, e da Marina di Campo. A Marina di Campo mi è mancato solo di nascerci, ma ci sono stato comunque "fabbricato"; e si tratta di una fabbrica cui devo gran parte di quel che sono, sotto ogni aspetto. Oggi Marina di Campo è come Genova, come la Val di Vara, come non so più neanche quante zone, plaghe, città, valli e pianure di questo paese sconciato. Fossi che per trecentosessantaquattro giorni all'anno sono secchi diventano dei fiumi che escono dagli argini e seminano morte e distruzione; voi non ce lo avete presente il Fosso degli Alzi, ma io si. Basta un nubifragio e un po' di vento di scirocco che tappi le foci di quei fossi. Basta perché una povera donna che conoscevo bene muoia in casa sua, affogata nell'acqua di uno di quei fossi; ed è una cosa terribile quando te lo dicono prima che il nome si sappia sui giornali, in televisione, su Internet. Pezzi di famiglia isolati con un lago attorno dove prima c'erano l'orto e la cuccia del cane; e non sapere nulla di casa tua, che si trova a trecento metri da dove è morta quella donna. Strade interrotte e ponti crollati, e l'acqua che si riprende una piana detta "Lo Stagno" perché, fino a trent'anni fa, c'era davvero uno stagno. Poi ci hanno costruito sopra di tutto, le scuole, l'ufficio postale, la Conad, la Pubblica Assistenza, casette e villette; e quando un giorno di novembre decide di ridiventare quel che era, uno stagno, non c'è niente da fare. E non c'è niente da fare perché in questo paese si muore e si perde tutto ciò che si ha per un'acquazzone durato tre ore e mezzo, come mi ha detto un mio cugino con cui sono riuscito a mettermi fortunosamente in contatto perché a Marina di Campo non c'è luce, non c'è acqua corrente, non c'è niente in queste ore. Sotto a chi tocca. Sotto coi condoni, con l'edilizia incontrollata, con ogni sorta di incuria e di speculazione; e stavolta riguarda qualcosa che mi è vicina forse più di ogni altra. Non so, almeno per ora, cosa dire d'altro. E forse non c'è da dire più nulla. Di quella donna che è morta mi ricordo di quando a volte m'incontrava, da bambino, sulla strada del Formicaio nel sole cocente d'estate. Un'altra vita che non vale niente, che può passare in sottordine rispetto allo schifo per soldi e per cemento in cui è stato trasformato questo paese, dal Vapelo di Marina di Campo fino a via Fereggiano.
Saviano (Napoli), domenica 6 novembre 2011. Un fiume, o un canale ingrossato dalle piogge torrenziali, porta con sé tonnellate di rifiuti. Spazzatura, monnezza, rusco, rumenta. Attualmente è il ritratto più realistico che si possa dare di questo paese: spazzatura portata via dalla corrente. Poco altro resta da dire; prosegue nel frattempo il Grande Fratello 12.
Quand'ero bambino, già alle scuole elementari c'insegnavano che cosa esportavano i vari paesi. Per esempio, l'Italia esportava vino e olio; c'era poi il famoso mercurio di cui si diceva fossimo tra i primi produttori al mondo (poi si è del tutto esaurito, lasciando col culo per terra i minatori dell'Amiata). La Francia esportava vino ma non olio. L'Argentina esportava carne di manzo, e l'Islanda olio di balena. La Cina non esportava nulla perché non esisteva; la Russia esportava caviale del Volga e rivoluzione. Cose passate. Generi obsoleti. La principale voce di esportazione attuale, come si sa, è invece la democrazia. Tutti quanti, ora, esportiamo democrazia; e dev'essere un genere assai costoso, visto il numero di morti che questa esportazione ha prodotto. Anche i mezzi per l'esportazione sono cambiati parecchio. Prima ti vedevi camion, navi cargo, lunghi treni merci, aeroplani, spedizionieri turchi al valico di Fernetti; l'esportazione della democrazia, invece, si fa sí con gli aerei, ma da guerra. Si fa sí con le navi, ma sempre da guerra. Anche coi camion, ma carichi di missili terra-qualcosa o qualcosa-aria. Si fa con i Marines e con la propaganda. Si fa con le stronzate di Facebook e di Twitter, che rivelano sempre di più la loro natura di armi di distruzione di massa (altro che quelle, inesistenti, di Saddam Hussein), e non soltanto dei cervelli. Per il resto, dicono che i criteri per tale esportazioni siano quelli consueti: come si esporta vino dove mancano le vigne e mercurio dove mancano i termometri, la democrazia si esporta dove non c'è libertà. Da noi, va da sé, la libertà c'è. Ci mancherebbe.
Ad esempio, in Grecia. La Grecia, anzi, nella vulgata generale, sarebbe addirittura la culla della democrazia; si sprecano soloni, pericli e compagnia bella (dimenticando magari che la democrazia ateniese classica riguardava un ristrettissimo numero di cittadini, e soltanto maschi), e si cerca di blandire la storia mentre a un paese intero si ammanniscono colpi mortali. Come culla, insomma, è parecchio smerdata; è un vizio che hanno tutte le culle, ma di solito c'è qualcuno che cambia il pannolino. Qui, invece, si butta via direttamente il bambino con tutta la culla; e con tutta la sua democrazia.
Non appena la Grecia osa indire un referendum (strumento democratico per eccellenza) per decidere se accettare o meno gli aiuti che la condannano alla dipendenza da mani altrui, si scatena il finimondo. Il primo ministro della Culla viene convocato d'urgenza come fosse uno scolaretto indisciplinato, e bacchettato sulle mani dai Maestri. uno con la faccia da stronzo e gli orecchi a sventola e un'altra che sembra la sorella minore di Maga Magò. Sono loro, gli Esportatori; quelli che esportano la democrazia in Libia a fil di spada, però non tollerano che la Culla espleti una elementare funzione democratica dando la parola direttamente al popolo. Guai! La Grecia è una colonia, e deve obbedire. Le misure che stanno portando un paese alla guerra civile e al rischio di un colpo di stato (non si vede come mai, altrimenti, Papandreou si sia affrettato a rimuovere i vertici militari del paese) non possono essere messe in discussione, e men che mai facendo esprimere chi è vittima principale delle medesime. Dietrofront! Niente più referendum, il primo ministro è costretto a obbedire e tanti saluti alla Culla, ai soloni, ai platoni e a tutti quanti. La democrazia, così, si ferma davanti ai soldi. Quando ci sono di mezzo i soldi, non c'è più esportazione; ci sono soltanto diktat. Del resto, la Grecia cosa esportava? Ulive? Isolette da sogno? Tsè. Grecia pappata. Greci democraticamente zitti. Missione compiuta, mentre si può passare all'esportazione in Siria. In Siria ci sono sempre diciotto morti al giorno, né uno di più né uno di meno. Lo dice Twitter, in mezzo all'operazione di Cassano e ai foruncoli di Justin Bieber.
"Non ho potuto fare granché, a parte inculcargli qualche sano principio sulla pratica assidua dell'anarchia"." Armand Vandoosler "il Vecchio", per tramite di Fred Vargas.
"Quant'è vero che una discesa vista dal basso somiglia tanto a una salita." Dai "Pensieri di Pippo" .
"L'ottimista è colui che vede nella grandine una buona partenza per un mojito." Da un messaggio SMS del Pratile dell'anno CCXXIII.
"L'unica cosa più triste di un luna park vuoto sotto la pioggia è un luna park sotto la pioggia pieno di sbirri." Sandrone Dazieri.
"La vera pornografia è l'esercizio del potere."
Rocco Siffredi.
"Si resta affezionati alle proprie fantasticherie; diventano una parte di noi, sono nella memoria lunga. Ci son delle volte in cui, senza un motivo ed in un luogo qualsiasi, tornano alla mente. Ed allora si torna per un attimo ad aprire quella porta del faro di Palmaiola, chiusa da anni; si spolverano i mobili e le suppellettili, si verifica se le apparecchiature sono tutte in ordine, si aggiusta quella zampa di tavolino che cigolava e s'innaffiano i vasi di fiori che, chissà come, non appassiscono mai. Si dà un'ultima controllatina, si richiude la porta a tripla mandata e si torna alla legge di gravità. Ma tutto dev'essere pronto all'uso, sempre, in qualsiasi momento."
Risyart Vendtūr, enie syestā dănē săn gozăm mihkar, in tabāi mihkar ya săn brāmonāi mihkar; ya syestā dănē yasyi enhŭltig. Tāmā gozmăn, tāmā tabāin ya tāmā brāmonāin takveis mad, madne ya madsye udnŏmsyi pŏll. Ik rizkăv nyertenien va nyertăton.
Anvīssraz viyustāi mān perfīl pŏlen, kliki ap to perfīl in tŭlyan; emmeret nălebiez rhudăn in to, syestā gegrāb ik.
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Riccardo Venturi, one who feels good with few people, in few places and with few things; and one who feels very good even alone. Anyway, he loves, used to love and maybe will even love so much all of these people, things and places. Here you find someone or something of them.
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