mercoledì 31 ottobre 2012
Prào ha ufficialmente un sindaco di merda
Il signore che vedete seduto sul cesso (in crava e giacatta) è tale Roberto Cenni, sìndao di Prào.
Naturalmente non lo sto "diffamando" e, ai sensi dell'eventuale nuova legge, non pubblicherò nessunissima "rettifica entro 48 ore"; che sia un sindaco di merda, lo ha certificato ufficialmente lui stesso, facendosi ritrarre e intervistare seduto su un cesso. A casa mia, e penso in quella di chiunque altro sia pur vagamente sano di mente, sul cesso ci si siede per espletare funzioni fisiologiche, non per farsi intervistare "per protesta". Siamo il paese in cui, da un lato, un "signor prefetto" brutalizza un cittadino perché non declina la "carica istituzionale" e, dall'altro, il sindaco di una importante città si fa fotografare e intervistare seduto su un cacatoio. Da notare che il medesimo sindaco si era fatto ritrarre in tutta la sua maestà istituzionale, nel suo bell'ufficio, mentre lo intervistavano riguardo al fallimento rovinoso della sua azienda di abbigliamento, la Sasch. E pensare che il Cenni era stato persino nominato presidente dell'Associazione 'Ndustriali Praèsi e anche per questo eletto sìndao qualche anno fa, naturalmente per il PdL (sigla, attualmente, di Partito dei Liquefatti).
Ma perché il sìndao si è fatto, oggi, ritrarre e intervistare seduto sul cesso?
Beh, la provincia di Prào, istituita nel 1993 dopo circa 4200 anni di tentativi, sta per scomparire. Verrà, come è noto dai giornali d'oggi, accorpata alla "Città Metropolitana" formata da Firenze e Pistoia. Vorrei chiarire il mio punto di vista assolutamente parziale e carognesco al riguardo: io sono del tutto sfavorevole, per motivi sentimentali, alla scomparsa delle vecchie provincie; fosse per me, rimetterei anche le vecchie targhe automobilistiche al posto degli orrori alfanumerici che circolano da una ventina d'anni. Sfavorevole, tranne che per la provincia di Prào. Prào non dovrebbe chiudere e basta, e per una caterva di ragionevoli motivi; e non dovrebbe nemmeno essere accorpata né a Firenze e né a Pistoia. Prào dovrebbe essere accorpata, finalmente, alla provincia di Shanghai o di qualsiasi altra città cinese, come suo sobborgo industriale. Inserita finalmente in un circuito economico dinamico e ben gestito, decisivo nello scacchiere internazionale e sul mercato globale, invece che nella pretenziosa e inconcludente fuffa dove si trova da anni e anni. Una fuffa che ha saputo produrre soltanto quanto segue, ancorché in abbondanza: razzismo a dismisura, proliferazione di fascistelli che fanno a gara di idiozia, leghismi in salsa toscana, carogneria diffusa, ciance tragicomiche su degràdo e sihurezza, consiglieri comunali picchiatori, qualità della vita scesa ai minimi termini nonostante i roboanti proclami, disumanità eletta a regola, totale immobilismo socioeconomico, la cultura ridotta a mostre di accessori per SUV. Non a caso l'ex ministro dell'interno Maroni, ovviamente leghista, parlava di "modello Prato"; questo è il modello che questi delinquenti ci hanno imposto per anni.
Dice l'industriale fallito Cenni che sarebbe indegno accostare il gonfalone della città a questa vergogna istituzionale; e nel dire questo, facendo ovviamente disperata leva su quanto di più basso possa esservi nel già non elevato senso del decente di quella città, se ne sta tranquillamente, col suo doppiopetto inutilmente abbottonato, su un water close. Questa l'immagine che dà al mondo della sua città; e si deve dire, a onor del vero, che è sostazialmente esatta. Sa, probabilmente, che alle prossime elezioni comunali verrà spazzato via assieme a tutta l'insipienza che ha profuso a piene mani assieme alla sua giunta; un "modello" sì, ma del niente più assoluto.
Nell'auspicare quindi che Prào venga finalmente assorbita dalla Repubblica Popolare Cinese, adempiendo così alla celebre e nobile dichiarazione di un sindaco veramente degno di questo nome (il sindaco di Firenze Giorgio La Pira: "La repubblica di Firenze riconosce la Repubblica Popolare Cinese"), con la quale -peraltro- la città metropolitana di Firenze, Pistoia e Campi Bisenzio si troverebbe fruttiferamente a confinare, viene consegnata alla storia l'immagine immortale del sindaco cacatore. New York ha avuto il sindaco che si ergeva sulle rovine delle Torri Gemelle. Berlino Ovest ha avuto come sindaco Willy Brandt mentre costruivano il Muro. Firenze ebbe come sindaco Mario Fabiani, immortalato mentre stringeva la mano a Pablo Neruda. Prato verrà ricordata per il sindaco con la diarrea.
martedì 30 ottobre 2012
Resurrezione (11-12)
11.
Stava entrando uno spiffero freddo, dentro al chiosco;
nessuno s'era accorto che, dalla porta semiaperta,
sbucavano tre teste. Quelle di due ragazzini, quindici o
sedici anni, che ascoltavano con un'aria a metà fra l'ebete
e il commosso; e quella d'una signora attempata,
e pitturata, che teneva anche una sigaretta in bocca. "
Dé, ma come saranno bravi… ", fece quella, rivolgendosi
ai due ragazzi che le risposero con dei gargarismi
incomprensibili, del resto tipici della loro età; nel chiosco,
tra fumo e fiati, l'aria era diventata quasi irrespirabile,
e quello spiraglio d'aria arrivava a pipa di cocco.
C'era, fra tutta quella gente là dentro, uno che stava facendo
de' grand'isforzi pe' 'un piangere, ed è una cosa che va
detta in livornese perché in veneto non la so dire. Non la so
? E chi sono io ? Il narratore, quello che racconta.
Soltanto, non so più se sono io che sto raccontando
questa storia, o è questa storia che sta raccontando
me. Forse, tutte e due le cose. Ma non è importante;
non mi vedrete più, state tranquilli.
Piero Ciampi non aspettò neanche che si ricominciasse
a parlare. Li vide tutti quanti sfoderare gli strumenti,
compreso quello là che aveva finito di sorseggiare la
sua Heineken con la cannuccia, e che, fino a quel
momento, era stato l'unico a non profferire nemmeno
una parola. Tirò fuori un basso elettrico e si mise a
arpeggiare qualcosa, così. A strumento staccato.
" O Schuster, ma lo suoni amplàgghed… ? ", fece il ragazzo
dal bushveldt nei capelli; gli fece eco il Massimiliano: "
O Andrea…'un tu lo sai che Marco 'e gli è sempre umpluggato…
". Una risata restò sospesa per l'aria, scaricandosi
poi come quando si urtano una massa d'aria d'origine
africana e una depressione proveniente dall'Islanda; il
barista scivolò sul fondo umidiccio del bancone pigliando
una culata mentre continuava a ridere, trascinando con
sè una bottiglia di Western Pearl, rum a sessantasette
gradi, che fortunatamente non si ruppe; alla signora
attempata si aprì la borsetta, sulla quale campeggiava il
marchio Luis Guitton, e nella
disattenzione generale ne uscì
fuori anche un pacchetto di preservativi
ancora incellofanato. Marco Schuster continuava a
basseggiare amplàgghed, completamente
tetragono alla situazione; Piero
Ciampi aveva approfittato della
momentanea indisposizione del
barista per fregare un boccione
di vino già a metà, ma era un boccione
da due litri.
" O che si canta ora… ? "
" Ma voi ce le avete le canzoni
vostre ? Per forza, se andate a un premio… "
" Sì, certo che ci s'hanno ", disse Luca, quello bello con
l'accento fiorentino. " Però s'è venuti a i' Premio
Ciampi, e si vòle sonà le hanzoni di Ciampi. Oh, però, te
tu le 'honosci tutte ! 'Ndo 'ttu l'hai imparahe… ? "
" Me l'ha 'nzegnate un merlo… ", fece Piero scolandosi
in contemporanea, mentre parlava, un bicchiere di
vino. Nessuno riuscì a capire come avesse fatto. E riattaccò,
seguito da tutti ai primi accordi, una certa canzone che parlava d'un Natale anticipato d'un giorno; e tutti insieme, a parte lo Schuster che continuava col
suo basso che si sentiva lo stesso, e il Davide, che s'era messo a cantare con la fisarmonica
in mano, senza suonarla. Poi lo lasciarono a cantare da solo, Piero.
Fuori dal chiosco, s'era fermata una macchina. Era una
vecchia Polo blé targata Ravenna; a bordo, un tizio
alto, con gli occhiali e con la barba, stava a ascoltare
con il capo reclinato sul volante. Sembrava che dormisse; accanto a lui, una signora di mezza età gli carezzava
piano la testa. Pianissimo, dolcemente. " Ce l'hai un
posto dove andare ? ", continuava a ripetergli ; ma lui
non rispondeva. Probabilmente, si stava preparando a
andare a una stazione, ma senza fermarsi. C'era un
treno che partiva quella notte, per dove non si sa. Non
lo sapeva neanche lui. Piero Ciampi finì la canzone, e tutti s'accorsero in un
istante che aveva finito anche il vino. Nessuno disse nulla.
Uscì dal chiosco, con la chitarra in mano.
S'appoggiò alla polo Blé .
Posò la chitarra per terra, mettendosi a cantare e
basta. A urlare.
E basta.
Si mise a smanacciare, salutando i ragazzi che erano
venuti tutti fuori. Anche lo Schuster, con ancora il
basso in mano ; anche il barista, toccandosi il culo che
gli faceva ancora male ; e cantava, Piero Ciampi, morto
a Roma il 19 gennaio 1980 e risorto in quel giorno
strano, cantava le urla finali di quella canzone che
aveva scritto tant'anni prima, dopo essere volato in
mare, una notte di luglio, dagli scali delle Cantine. Le
urla. E il vino. Com'è bello, il vino ; e com'è poco, il vino.
E' sempre poco, il vino.
Que vienne le temps
du vin coulant dans la Seine,
les gens par milliers
courront y noyer leur peine...
" Piero ! Piero ! Aspetta ! " Piero aveva già preso, barcollando, la strada del porto.
" Sì, dimmi. Tu sei…. ? "
" Sono Andrea. "
" Dimmi…Andrea. "
" Domani devi venire a sentirci, al Premio. "
" Non ciò manco i sordi pe' mangià, figurati pe' comprà ir biglietto... "
" Ti facciamo entrare noi, tranquillo. Ti prego, vieni. Ci farebbe piacere. "
" Cercherò di venire. "
" Quando arrivi…chiedi di Andrea. Andrea Parodi, sono io. Qualcuno scende e ti si fa entrare. "
" Va bene. Ci si vede domani sera. Ma cantate le canzoni di Piero Ciampi ? " Quella seconda volta in cui pronunciò il suo nome a voce alta, quasi lo svegliò.
" Non solo quelle. Anche qualcuna delle nostre. "
" Mi farà piacere sentire qualcuna delle vostre, davvero. "
" Peccato che tu non ti sia iscritto… "
" Te l'ho detto. Non ho una lira. E poi, davvero, non sapevo neanche che esistesse, 'sto premio… "
" Ma come ? Sai tutte le canzoni di Piero, e non sai che da anni c'è un premio intitolato a suo nome…? ", fece Andrea, stupefatto.
" Sono stato via tanto tempo. Tanto davvero. "
" Ho capito ", disse Andrea, immaginando una cosa. " Sei stato dentro ? "
" Sì…sono stato dentro. Venticinqu'anni. "
Andrea si fermo, e lo salutò lievemente. " Vieni, domani. "
" Vengo. Salutami i tuoi compagni. "
" Li saluterai anche tu domani sera. "
" Ciao. "
Non sapeva neppure che ora fosse; ma decise lo stesso di andare un attimo al porto. Sì, tanto era sicuro che il Milanese lo avrebbe aspettato anche un quarto d'ora o venti minuti. Era oramai notte, e non aveva ancora rivisto il mare, in quel suo primo giorno auf der Erde.
" Jawohl, Herr Oberstkommandant…mi scusi…comandi, Maresciallo ! "
" Brigadiere Kellner, quante volte le ho detto che almeno in caserma non dovrebbe parlare tedesco…?"
" Ha ragione, mi scusi davvero…ma mi viene spontaneo… "
" Fa niente, fa niente. Ha detto che voleva vedermi ? "
" Sì, signor Maresciallo. Le devo riferire una cosa sulla quale oggi ho svolto qualche ricerca. "
" Mi dica, prego. "
" Stamani…verso le sei, sei e un quarto, ero di pattuglia assieme all'appuntato Musumeci e stavamo pattugliando per via Mastacchi. Abbiamo controllato uno strano tizio. "
" Brigadiere, ma lo sa quanti strani tizi girano per questa città alle sei di mattina… ? "
" Lo so, signor Maresciallo. Ma questo era strano davvero. "
" Mi dica, allora. Sono curioso. "
" Aveva una carta d'identità scaduta. "
" E sarebbe questa la cosa strana, Brigadiere… ? "
" Scaduta nel 1982. "
" All'anima ! "
" E aveva anche diecimila lire in tasca, signor Maresciallo. Diecimila lire, di quelle vecchie. "
" D'accordo, è una cosa un po' strana. Ma insomma…sarà un barbone, un vagabondo, ce ne sono a decine… "
" Il fatto, vede, signor Maresciallo, è che la carta d'identità è intestata a un morto. "
" A un morto ? "
" A un morto, le dico. Ciampi Piero, nato a Livorno il 28 settembre 1934. Ho controllato sui terminali anagrafici : risulta defunto il 19 gennaio 1980. "
" Ma è sicuro, brigadiere ? "
" Sicurissimo, signor Maresciallo. "
" Lei doveva conferire con me immediatamente a proposito di questa cosa. "
" Maresciallo, le faccio rispettosamente notare che Lei non s'è visto per tutto il giorno, in caserma, e non ho voluto disturbarla proprio oggi… "
" Va bene…va bene…che non si sappiano troppo in giro queste cose, chiaro ? "
" Chiarissimo, signorsì, signor Maresciallo. "
" Mi scusi, brigadiere…ma non potevate controllare le sue generalità sul posto, via radio ? "
" Proprio in quel momento c'è stato un blocàut. La radio non faceva. Morta. "
" E come si spiega questa cosa ? "
" Non lo so. Ho chiesto in caserma, al ritorno. Sembra che non ci sia stata nessuna interruzione delle comunicazioni radio con la caserma e con la centrale, Maresciallo. Ma l'appuntato Musumeci potrà confermarle sotto giuramento che la radio, stamani alle sei e mezza, non faceva. "
" D'accordo…forse c'è stato un guasto temporaneo sull'auto di pattuglia… "
" Dev'essere stato così, signor Maresciallo. "
" Avete fatto ulteriori controlli su questo…come si chiama?... "
" Ciampi Piero. "
" Ciampi Piero. Che altro mi sapete dire ? "
" Abbiamo indagato. Di mestiere risulta poeta. C'era scritto anche sulla carta d'identità. "
" Poeta ?!?... "
" Signorsì, signor Maresciallo. Da altre indagini, sembra che in realtà fosse una specie di cantante, o cantautore, scioperato e dedito all'alcool. Un matrimonio con relativa separazione, due figlie, delle quali la seconda avuta da una successiva relazione, qualche piccolo precedente penale per rissa e danni al patrimonio. Risulta defunto alla data che le ho detto prima. Per un male incurabile "
" E quello là aveva la sua carta d'identità. "
" Signorsì. E, le dirò, non solo la aveva. La foto corrispondeva. Era lui, non c'è alcun dubbio. "
" Potrebbe essere falsa ? "
" Non credo che qualcuno falsificherebbe una carta di identità, per qualsiasi motivo, lasciandola scaduta nel 1982, signor Maresciallo. "
" Ha ragione. E' davvero una faccenda molto strana, brigadiere. E' stato più avvistato in giro ? "
" Nossignore. Oggi non abbiamo avuto nessuna segnalazione. Mi sono permesso di diramare una comunicazione ufficiosa al riguardo, attendendo che lei tornasse e desse la sua autorizzazione. "
" La preparo immediatamente. Ciompi… ? "
" Ciampi, signor Maresciallo. Come il presidente della Repubblica. "
" D'accordo. Vada pure, brigadiere Kellner. Buonanotte. "
" Buonanotte a Lei, signor Maresciallo. "
" Piero ! Piero ! Aspetta ! " Piero aveva già preso, barcollando, la strada del porto.
" Sì, dimmi. Tu sei…. ? "
" Sono Andrea. "
" Dimmi…Andrea. "
" Domani devi venire a sentirci, al Premio. "
" Non ciò manco i sordi pe' mangià, figurati pe' comprà ir biglietto... "
" Ti facciamo entrare noi, tranquillo. Ti prego, vieni. Ci farebbe piacere. "
" Cercherò di venire. "
" Quando arrivi…chiedi di Andrea. Andrea Parodi, sono io. Qualcuno scende e ti si fa entrare. "
" Va bene. Ci si vede domani sera. Ma cantate le canzoni di Piero Ciampi ? " Quella seconda volta in cui pronunciò il suo nome a voce alta, quasi lo svegliò.
" Non solo quelle. Anche qualcuna delle nostre. "
" Mi farà piacere sentire qualcuna delle vostre, davvero. "
" Peccato che tu non ti sia iscritto… "
" Te l'ho detto. Non ho una lira. E poi, davvero, non sapevo neanche che esistesse, 'sto premio… "
" Ma come ? Sai tutte le canzoni di Piero, e non sai che da anni c'è un premio intitolato a suo nome…? ", fece Andrea, stupefatto.
" Sono stato via tanto tempo. Tanto davvero. "
" Ho capito ", disse Andrea, immaginando una cosa. " Sei stato dentro ? "
" Sì…sono stato dentro. Venticinqu'anni. "
Andrea si fermo, e lo salutò lievemente. " Vieni, domani. "
" Vengo. Salutami i tuoi compagni. "
" Li saluterai anche tu domani sera. "
" Ciao. "
Non sapeva neppure che ora fosse; ma decise lo stesso di andare un attimo al porto. Sì, tanto era sicuro che il Milanese lo avrebbe aspettato anche un quarto d'ora o venti minuti. Era oramai notte, e non aveva ancora rivisto il mare, in quel suo primo giorno auf der Erde.
" Jawohl, Herr Oberstkommandant…mi scusi…comandi, Maresciallo ! "
" Brigadiere Kellner, quante volte le ho detto che almeno in caserma non dovrebbe parlare tedesco…?"
" Ha ragione, mi scusi davvero…ma mi viene spontaneo… "
" Fa niente, fa niente. Ha detto che voleva vedermi ? "
" Sì, signor Maresciallo. Le devo riferire una cosa sulla quale oggi ho svolto qualche ricerca. "
" Mi dica, prego. "
" Stamani…verso le sei, sei e un quarto, ero di pattuglia assieme all'appuntato Musumeci e stavamo pattugliando per via Mastacchi. Abbiamo controllato uno strano tizio. "
" Brigadiere, ma lo sa quanti strani tizi girano per questa città alle sei di mattina… ? "
" Lo so, signor Maresciallo. Ma questo era strano davvero. "
" Mi dica, allora. Sono curioso. "
" Aveva una carta d'identità scaduta. "
" E sarebbe questa la cosa strana, Brigadiere… ? "
" Scaduta nel 1982. "
" All'anima ! "
" E aveva anche diecimila lire in tasca, signor Maresciallo. Diecimila lire, di quelle vecchie. "
" D'accordo, è una cosa un po' strana. Ma insomma…sarà un barbone, un vagabondo, ce ne sono a decine… "
" Il fatto, vede, signor Maresciallo, è che la carta d'identità è intestata a un morto. "
" A un morto ? "
" A un morto, le dico. Ciampi Piero, nato a Livorno il 28 settembre 1934. Ho controllato sui terminali anagrafici : risulta defunto il 19 gennaio 1980. "
" Ma è sicuro, brigadiere ? "
" Sicurissimo, signor Maresciallo. "
" Lei doveva conferire con me immediatamente a proposito di questa cosa. "
" Maresciallo, le faccio rispettosamente notare che Lei non s'è visto per tutto il giorno, in caserma, e non ho voluto disturbarla proprio oggi… "
" Va bene…va bene…che non si sappiano troppo in giro queste cose, chiaro ? "
" Chiarissimo, signorsì, signor Maresciallo. "
" Mi scusi, brigadiere…ma non potevate controllare le sue generalità sul posto, via radio ? "
" Proprio in quel momento c'è stato un blocàut. La radio non faceva. Morta. "
" E come si spiega questa cosa ? "
" Non lo so. Ho chiesto in caserma, al ritorno. Sembra che non ci sia stata nessuna interruzione delle comunicazioni radio con la caserma e con la centrale, Maresciallo. Ma l'appuntato Musumeci potrà confermarle sotto giuramento che la radio, stamani alle sei e mezza, non faceva. "
" D'accordo…forse c'è stato un guasto temporaneo sull'auto di pattuglia… "
" Dev'essere stato così, signor Maresciallo. "
" Avete fatto ulteriori controlli su questo…come si chiama?... "
" Ciampi Piero. "
" Ciampi Piero. Che altro mi sapete dire ? "
" Abbiamo indagato. Di mestiere risulta poeta. C'era scritto anche sulla carta d'identità. "
" Poeta ?!?... "
" Signorsì, signor Maresciallo. Da altre indagini, sembra che in realtà fosse una specie di cantante, o cantautore, scioperato e dedito all'alcool. Un matrimonio con relativa separazione, due figlie, delle quali la seconda avuta da una successiva relazione, qualche piccolo precedente penale per rissa e danni al patrimonio. Risulta defunto alla data che le ho detto prima. Per un male incurabile "
" E quello là aveva la sua carta d'identità. "
" Signorsì. E, le dirò, non solo la aveva. La foto corrispondeva. Era lui, non c'è alcun dubbio. "
" Potrebbe essere falsa ? "
" Non credo che qualcuno falsificherebbe una carta di identità, per qualsiasi motivo, lasciandola scaduta nel 1982, signor Maresciallo. "
" Ha ragione. E' davvero una faccenda molto strana, brigadiere. E' stato più avvistato in giro ? "
" Nossignore. Oggi non abbiamo avuto nessuna segnalazione. Mi sono permesso di diramare una comunicazione ufficiosa al riguardo, attendendo che lei tornasse e desse la sua autorizzazione. "
" La preparo immediatamente. Ciompi… ? "
" Ciampi, signor Maresciallo. Come il presidente della Repubblica. "
" D'accordo. Vada pure, brigadiere Kellner. Buonanotte. "
" Buonanotte a Lei, signor Maresciallo. "
12.
Era stata una giornata straordinariamente limpida,
sebbene umidissima, e la serata e la notte lo erano
altrettanto. Davanti a Piero Ciampi, seduto su un molo
del porto con le gambe a penzoloni sul pelo dell'acqua,
c'erano delle barche della Capitaneria e qualche battello
da diporto ; non era andato verso le partenze dei traghetti,
e il porto industriale era lontano. Osservava
comunque, due calate oltre, le manovre d'attracco di
una strana nave le cui fiancate sembravano istoriate
da buffi disegni : una balena che sbuffava acqua, ed
altre allegre figure forse riprese da qualche cartone
animato. Nella semioscurità e nella lontananza, a Piero
Ciampi parve di leggere il nome Mordillo, e lo prese
per il nome dell'imbarcazione ; più a destra sulla fiancata
si distingueva bene, anche perché era verniciato in
lettere gigantesche, la dicitura Moby Lines.
" Moby.
Ecco perché c'è la balena, dé… ", pensava tritamente
ciondolando, ed ignorando del tutto che a Livorno quel
nome veniva oramai da anni associato ad una tragedia
spaventosa. Non era capace
di pensare niente, sul porto
e davanti al mare. Un vuoto
assoluto. L'unica cosa che gli
passava per la testa erano
quei ragazzi con gli strumenti,
nel chiosco, e le canzoni
che avevano cantato ; ed
anche loro parevano far fatica
a configurarsi come un
pensiero. Quasi nessuna
luce era accesa sul mare;
soltanto al largo, si vedevano
quelle delle navi alla fonda, in
attesa di poter entrare in porto.
Quasi nessuno sapeva che era un gran corridore. una
volta, passando per Stoccolma con uno dei suoi treni,
era sceso alla stazione e aveva preso delle strade a
caso, di gran carriera, in una giornata di luglio incredibilmente
calda per quelle latitudini. Correva e vedeva la
gente quasi squagliarsi, oppure cercare refrigerio in
qualche fontana, e lui correva senza fermarsi neppure
a chi gli diceva o gli gridava qualcosa in una lingua sconosciuta.
Hej ! Har du brååått ?…, gli aveva urlato una
ragazza mora con un ombrello in mano, poiché da
quelle parti il tempo cambia alla svelta ; e lui correva,
correva per arrivare a una bottiglia. S'era fermato a un
bar dove aveva visto del vino bianco in vetrina, forse
francese, forse italiano, chissà ; e, per fortuna, " vino "
si dice vin pure in svedese. Aveva cacciato fuori da una
tasca dei pantaloni dei soldi imprecisati, e dopo un'ora
qualcuno lo aveva ritrovato briaco, steso per terra
sulla Kungliga Torget.
Non si sa che cosa esattamente
avesse risposto alla polizia svedese, che qualcuno
doveva sicuramente aver chiamato ; una conversazione
tra un poliziotto svedese e un poeta briaco livornese,
non è facile immaginarla. " Boia dé ", in svedese
suonerebbe qualcosa come " piègati qua ", e non si sa
se il poliziotto si sia messo o meno ripetutamente
ginocchioni, o a buco pillonzi. E Piero Ciampi s'alzò dal
molo e si mise prima a camminare veloce, con un
passo quasi identico a quello di Maurizio Damilano
quando entrò vittorioso nello stadio di Mosca lo stesso
giorno del funerale di Vladimir Vysotskij. Poi si mise a
correre, a correre, a correre.
Saranno state quasi le nove, se non erano già passate.
In quattro balletti arrivò di nuovo in Cors'Amedeo passando
da un'altra parte a incrociare Borgo Cappuccini
; per le strade non c'era praticamente nessuno, s'era
messo a fare un freddo cane e correre, in mancanza
d'un sistema francamente preferibile (tipo un boccione
di vino rosso), sicuramente gli era di grand'aiuto.
Quand'era ragazzo gli dicevano tutti che non aveva la
milza ; era capace di correre per chilometri, tant'è che
una volta gli avevano persino proposto di andare ad
allenarsi per fare la maratona. Ma erano altre maratone
quelle che Piero prediligeva. A Maratona, però, una
volta c'era capitato in uno dei suoi giri dai quali mandava
sempre bizzarre cartoline agli amici. Da Atene, s'era
ritrovato sbattuto nel mezzo d'una strada statale da un
camionista bulgaro che gli aveva dato un passaggio ;
ne aveva approfittato per cercare qualche bicchiere di
raki, che, quando
fuori ci son quaranta
gradi, aiuta a dimenticare
il caldo.
In Cors'Amedeo ci
arrivò temendo che il
Milanese avesse già
tirato giù il bandone,
che lo avesse in cuor
suo mandato in culo
e che se ne fosse tornato
a casa. " E cià
anche ragione, budello
d'eva ", si disse a voce altissima, gridando, perché a
volte i pensieri scappano via ed escon fuori passando
per i polmoni. Un vecchio sul marciapiede opposto lo
guardò e andò oltre, facendo i suoi tre passi su un mattone
; il Milanese, invece, non aveva affatto chiuso. Il
bandone era tirato mezzo giù, e la porta a vetri era
chiusa per non far entrare gente, che del resto non
entrava mai a frotte, ma la luce dentro era ancora
accesa. Piero Ciampi bussò piano sul vetro, tre colpettini
secchi, mentre ripigliava fiato ; gli fu aperto con
calma.
" Dé…mi scusi, ho fatto tardi…mi dispiace… "
" Tardi ? Guardi, signor Litaliano, che sono soltanto dieci alle nove. "
" Ah. Credevo fosse più tardi…'un ciò l'orologio. "
" No, no, sono dieci alle nove. E le ho anche finito la chitarra. Però…mi scusi, avrebbe mica un quarto d'ora per fare una chiacchierata ? "
" Come no se ce l'ho…le pare. "
" Ecco, bene. Si accomodi, allora. Ha mangiato ? "
" No… "
" Se non le fa specie, nel frigo lì a destra ho un po' d'insalata di riso che mi è avanzata da oggi. Sa, spesso mangio qui. "
" Grazie… ", disse Piero aprendo un vecchissimo Philco che sembrava provenire direttamente dal Jurassic Park dei frigoriferi, di quelli ancora col pedale per aprire la porta e le cromature, e che mandava un rumore infernale. Dentro c'era una cofana d'insalata di riso coperta con un po' di carta stagnola, la cui temperatura era simile a quella d'un àisbergh; ma dentro c'era d'ogni 'osa, carciofini, vùster, tonno, granturco in iscàtola, la giardiniera di sottaceti, un pezzo di simmenthal (o di manzotìn, ma non lo sapremo mai), ulive nere, capperi e du' fette di lardo talmente dure, che di Colonnata sembravano averci la consistenza di quella del Bernini in piazza S. Pietro. " Lì c'è un cucchiaio ", fece il Milanese indicando una catasta di stoviglia in una specie di pila col rubinetto e la cannella di gomma ; Piero Ciampi nemmeno lo lavò, e si buttò sopra quel pancone di roba come un forsennato.
Il Milanese lo lasciò divorare per due o tre minuti, prese un bicchiere da un cassetto e lo riempì d'un generoso vinello preso da un cartone da cinque litri di " Ronco ", euro 5,70 al discount " Dico ". Piero Ciampi prese il bicchiere e lo vuotò senza nemmeno finir d'inghiottire una cucchiaiata di riso che avrebb'asfissiato un rinoceronte.
" Signor Litaliano. "
" Sì… ", fece Piero Ciampi rimanendo a mezz'aria con un'altra cucchiaiata, e mentre il Milanese gli stava versando un altro bicchiere di vino.
" La chitarra. " " Sì…la chitarra. Mi dica. "
" Senta, facciamo così. Ora parliamo un po' della chitarra, ché me ne vorrei anche tornare a casa. Poi si prende l'insalata di riso e se la finisce con comodo a casa, o dove vuole. Si può prendere anche un litro di vino, lì c'è una bottiglia vuota, se lo versa e alla salute di chi ci vuol male. "
" Grazie….d'accordo, parliamo della 'itarra, certo ", e giù un'altra bicchierata del Ronco.
" Non so come cominciare ", disse il Milanese. La chitarra era lì sul bancone, con la corda cambiata, ripulita e accordata. Gli adesivi con il capo indiano e la bandiera italiana erano stati lasciati.
" Dé…se 'un lo sa lei…cosa 'ni devo dì… ? ", fece Piero Ciampi pulendosi la bocca con il risvolto inferiore destro della giacca, che tanto puzzava già d'ogni cosa, e puzzo più puzzo meno.
" Senta… è una cosa strana. Davvero, non vorrei che mi prendesse per pazzo. "
" Alle 'ose strane ci so' abituato, 'un si preoccupi più di tanto… ", pensando nel contempo a che cosa il signor Maimone Giorgio avrebbe detto se avesse saputo dov'era il signor Litaliano Piero soltanto ventiquattr'ore prima.
" Va bene. Senta, parliamo senza tanti preamboli. 'Sta chitarra suona da sola. "
" Scusi ? "
" Sì, ha capito. Suona da sola. "
Piero Ciampi alle cose strane era senz'altro abituato, ma una chitarra che suona da sola fino a quel momento non l'aveva mai incontrata. Al massimo aveva sentito parlare di un'arpa che suonava da sola in un'antica ballata scozzese che parlava di due sorelle; però era un'arpa fatta con le ossa del petto della sorella buona e bionda ammazzata dalla sorella cattiva e mora, e si ricordava d'averla sentita una volta, tant'anni prima, dalla voce di Jacqui McShee dei Pentangle. Qualcuno gli aveva tradotto il testo, perché in inglese non aveva mai imparato nemmeno a chiedere del cesso. Si sforzò comunque di non assumere un'aria troppo stupefatta, del tutto fuori luogo in quel giorno là.
" Suona da sola. Mi dica un po'. "
" Se la ricorda quella canzone di cui m'ha chiesto prima d'andare via, due ore fa ? "
" Certo. Quella dell'orologiaio. "
" Esatto, proprio quella. Ecco, insomma, io ho finito di lavorare sulla chitarra, le ho cambiato la corda, l'ho pulita e infine l'ho accordata. "
" L'ha pulita e infine l'ha accordata. "
" E poi, se mi permette, mi è scappato un bisognino. "
" E è andato ar gabinetto. "
" E' lì dietro. E mi sono portato anche le parole crociate, sa, io a Milano abitavo a due passi dalla sede della Settimana Enigmistica. "
" Mi piace anche a me fare le parole crociate. "
" Insomma, ecco, m'ero completamente assorto sugli incroci obbligati, li conosce vero, quand'ho sentito suonare la chitarra. Suonava proprio quella canzone là, quella dell'orologiaio. E bene. "
" Ma…è siùro 'e un fosse ir registratore… ? "
" Nel registratore c'è anche il violino, e quella era una chitarra da sola. "
" E che ha fatto ? ", chiese Piero Ciampi sempre meno stupito (ma non chiedetene il perché).
" Mi sono alzato credendo che lei fosse venuto prima, che avesse trovato la chitarra e che si fosse messo a suonarla. Però non c'era nessuno. C'era solo la chitarra. "
" Suonava ancora … ? "
" Sì. E bene. Il bello è che le corde nemmeno si muovevano. Ma suonava. Ma dove cazzo l'ha trovata ? "
" Senta, l'ho trovata vicino ar teatro Gordoni. Sa, dietro, dove c'è ir giardinetto… "
" Il giardinetto ? "
" Sì, perché ? Non lo ha presente ? "
" Certo che l'ho presente. Solo che il giardinetto, dietro al teatro Goldoni, c'era…mi faccia pensare…fino a dieci anni fa. Poi hanno cominciato i lavori e hanno buttato giù ogni cosa. "
" Ma per favore. Io ci so' entrato dentro, quer giardinetto. C'era eccome, e l'ho trovata in un cespo d'ortica. "
" Per favore, signor Litaliano, potrebbe provare a suonarla ? "
" Ma certo. Cosa suono ? "
" Quello che vuole. Suoni una sua canzone. Mi ha detto che ne scrive. "
" Va bene. " E Piero Ciampi imbracciò la chitarra. Si mise a suonare e a cantare Tu no; la finì tutta, quella canzone che parlava di uno che oramai era fuori e che continuava a bere. Poi posò la chitarra sul bancone, nella stessa posizione in cui l'aveva presa.
" Bella canzone, signor Litaliano. Ma l'ha scritta davvero lei ?… "
" Sì, sì. Una volta, non lo sa, l'ho pure cantata in televisione. Me la fece cantare Paolo Villaggio. "
" Ah, va bene… certo…. ", disse il Milanese cercando di venir fuori da quella situazione che stava cominciando a farsi ingarbugliata. Una chitarra che suonava da sola e un tizio piovuto dal nulla che affermava d'averla trovata in un giardinetto che non esisteva più da anni e di aver cantato una canzone in televisione con Paolo Villaggio. Esattamente in quel momento, la chitarra si mise a suonare " Tu no ". E bene. In sottordine, pure con qualche accordo giusto che Piero Ciampi aveva invece sbagliato . I due stettero in silenzio e gliela fecero suonare tutta quanta ; il Milanese non aveva la forza neppure di tremare, mentre Piero Ciampi stava a sentire. In quel preciso momento, sopra i cieli del Madagascar (o delle isole Kerguélen, ma fa poca differenza) un giardinetto intero si ricongiunse finalmente con un cespo d'ortica ; s'aspettava, a breve, il vicolo.
(11/12 - continua)
" Tardi ? Guardi, signor Litaliano, che sono soltanto dieci alle nove. "
" Ah. Credevo fosse più tardi…'un ciò l'orologio. "
" No, no, sono dieci alle nove. E le ho anche finito la chitarra. Però…mi scusi, avrebbe mica un quarto d'ora per fare una chiacchierata ? "
" Come no se ce l'ho…le pare. "
" Ecco, bene. Si accomodi, allora. Ha mangiato ? "
" No… "
" Se non le fa specie, nel frigo lì a destra ho un po' d'insalata di riso che mi è avanzata da oggi. Sa, spesso mangio qui. "
" Grazie… ", disse Piero aprendo un vecchissimo Philco che sembrava provenire direttamente dal Jurassic Park dei frigoriferi, di quelli ancora col pedale per aprire la porta e le cromature, e che mandava un rumore infernale. Dentro c'era una cofana d'insalata di riso coperta con un po' di carta stagnola, la cui temperatura era simile a quella d'un àisbergh; ma dentro c'era d'ogni 'osa, carciofini, vùster, tonno, granturco in iscàtola, la giardiniera di sottaceti, un pezzo di simmenthal (o di manzotìn, ma non lo sapremo mai), ulive nere, capperi e du' fette di lardo talmente dure, che di Colonnata sembravano averci la consistenza di quella del Bernini in piazza S. Pietro. " Lì c'è un cucchiaio ", fece il Milanese indicando una catasta di stoviglia in una specie di pila col rubinetto e la cannella di gomma ; Piero Ciampi nemmeno lo lavò, e si buttò sopra quel pancone di roba come un forsennato.
Il Milanese lo lasciò divorare per due o tre minuti, prese un bicchiere da un cassetto e lo riempì d'un generoso vinello preso da un cartone da cinque litri di " Ronco ", euro 5,70 al discount " Dico ". Piero Ciampi prese il bicchiere e lo vuotò senza nemmeno finir d'inghiottire una cucchiaiata di riso che avrebb'asfissiato un rinoceronte.
" Signor Litaliano. "
" Sì… ", fece Piero Ciampi rimanendo a mezz'aria con un'altra cucchiaiata, e mentre il Milanese gli stava versando un altro bicchiere di vino.
" La chitarra. " " Sì…la chitarra. Mi dica. "
" Senta, facciamo così. Ora parliamo un po' della chitarra, ché me ne vorrei anche tornare a casa. Poi si prende l'insalata di riso e se la finisce con comodo a casa, o dove vuole. Si può prendere anche un litro di vino, lì c'è una bottiglia vuota, se lo versa e alla salute di chi ci vuol male. "
" Grazie….d'accordo, parliamo della 'itarra, certo ", e giù un'altra bicchierata del Ronco.
" Non so come cominciare ", disse il Milanese. La chitarra era lì sul bancone, con la corda cambiata, ripulita e accordata. Gli adesivi con il capo indiano e la bandiera italiana erano stati lasciati.
" Dé…se 'un lo sa lei…cosa 'ni devo dì… ? ", fece Piero Ciampi pulendosi la bocca con il risvolto inferiore destro della giacca, che tanto puzzava già d'ogni cosa, e puzzo più puzzo meno.
" Senta… è una cosa strana. Davvero, non vorrei che mi prendesse per pazzo. "
" Alle 'ose strane ci so' abituato, 'un si preoccupi più di tanto… ", pensando nel contempo a che cosa il signor Maimone Giorgio avrebbe detto se avesse saputo dov'era il signor Litaliano Piero soltanto ventiquattr'ore prima.
" Va bene. Senta, parliamo senza tanti preamboli. 'Sta chitarra suona da sola. "
" Scusi ? "
" Sì, ha capito. Suona da sola. "
Piero Ciampi alle cose strane era senz'altro abituato, ma una chitarra che suona da sola fino a quel momento non l'aveva mai incontrata. Al massimo aveva sentito parlare di un'arpa che suonava da sola in un'antica ballata scozzese che parlava di due sorelle; però era un'arpa fatta con le ossa del petto della sorella buona e bionda ammazzata dalla sorella cattiva e mora, e si ricordava d'averla sentita una volta, tant'anni prima, dalla voce di Jacqui McShee dei Pentangle. Qualcuno gli aveva tradotto il testo, perché in inglese non aveva mai imparato nemmeno a chiedere del cesso. Si sforzò comunque di non assumere un'aria troppo stupefatta, del tutto fuori luogo in quel giorno là.
" Suona da sola. Mi dica un po'. "
" Se la ricorda quella canzone di cui m'ha chiesto prima d'andare via, due ore fa ? "
" Certo. Quella dell'orologiaio. "
" Esatto, proprio quella. Ecco, insomma, io ho finito di lavorare sulla chitarra, le ho cambiato la corda, l'ho pulita e infine l'ho accordata. "
" L'ha pulita e infine l'ha accordata. "
" E poi, se mi permette, mi è scappato un bisognino. "
" E è andato ar gabinetto. "
" E' lì dietro. E mi sono portato anche le parole crociate, sa, io a Milano abitavo a due passi dalla sede della Settimana Enigmistica. "
" Mi piace anche a me fare le parole crociate. "
" Insomma, ecco, m'ero completamente assorto sugli incroci obbligati, li conosce vero, quand'ho sentito suonare la chitarra. Suonava proprio quella canzone là, quella dell'orologiaio. E bene. "
" Ma…è siùro 'e un fosse ir registratore… ? "
" Nel registratore c'è anche il violino, e quella era una chitarra da sola. "
" E che ha fatto ? ", chiese Piero Ciampi sempre meno stupito (ma non chiedetene il perché).
" Mi sono alzato credendo che lei fosse venuto prima, che avesse trovato la chitarra e che si fosse messo a suonarla. Però non c'era nessuno. C'era solo la chitarra. "
" Suonava ancora … ? "
" Sì. E bene. Il bello è che le corde nemmeno si muovevano. Ma suonava. Ma dove cazzo l'ha trovata ? "
" Senta, l'ho trovata vicino ar teatro Gordoni. Sa, dietro, dove c'è ir giardinetto… "
" Il giardinetto ? "
" Sì, perché ? Non lo ha presente ? "
" Certo che l'ho presente. Solo che il giardinetto, dietro al teatro Goldoni, c'era…mi faccia pensare…fino a dieci anni fa. Poi hanno cominciato i lavori e hanno buttato giù ogni cosa. "
" Ma per favore. Io ci so' entrato dentro, quer giardinetto. C'era eccome, e l'ho trovata in un cespo d'ortica. "
" Per favore, signor Litaliano, potrebbe provare a suonarla ? "
" Ma certo. Cosa suono ? "
" Quello che vuole. Suoni una sua canzone. Mi ha detto che ne scrive. "
" Va bene. " E Piero Ciampi imbracciò la chitarra. Si mise a suonare e a cantare Tu no; la finì tutta, quella canzone che parlava di uno che oramai era fuori e che continuava a bere. Poi posò la chitarra sul bancone, nella stessa posizione in cui l'aveva presa.
" Bella canzone, signor Litaliano. Ma l'ha scritta davvero lei ?… "
" Sì, sì. Una volta, non lo sa, l'ho pure cantata in televisione. Me la fece cantare Paolo Villaggio. "
" Ah, va bene… certo…. ", disse il Milanese cercando di venir fuori da quella situazione che stava cominciando a farsi ingarbugliata. Una chitarra che suonava da sola e un tizio piovuto dal nulla che affermava d'averla trovata in un giardinetto che non esisteva più da anni e di aver cantato una canzone in televisione con Paolo Villaggio. Esattamente in quel momento, la chitarra si mise a suonare " Tu no ". E bene. In sottordine, pure con qualche accordo giusto che Piero Ciampi aveva invece sbagliato . I due stettero in silenzio e gliela fecero suonare tutta quanta ; il Milanese non aveva la forza neppure di tremare, mentre Piero Ciampi stava a sentire. In quel preciso momento, sopra i cieli del Madagascar (o delle isole Kerguélen, ma fa poca differenza) un giardinetto intero si ricongiunse finalmente con un cespo d'ortica ; s'aspettava, a breve, il vicolo.
(11/12 - continua)
venerdì 26 ottobre 2012
I mortincàrcere
Alla fine di ogni anno,
diventano statistiche. Quanti sono stati? Cinquantatré, settantotto,
centoventinove? Statistiche a confronto; una diminuzione rispetto
all'anno precedente, oppure un aumento, che si facciano anche i
grafici a torta? Statistiche, naturalmente, che accompagnano le
usuali espressioni di indignazione, la strage continua che deve
essere fermata e quant'altro. Di
che cosa sto parlando? Ma dei mortincàrcere,
naturalmente. Lo scrivo così, tutto in una parola, come dev'essere;
la suddivisione delle parole presuppone non soltanto
un'individualità, ma anche soffermarsi almeno un istante su quel che
si dice, si ascolta o si legge. Chi muore in galera, invece, oramai
si è trasformato (e da tempo, credo) in un exemplum fictum
del tutto spersonalizzato, un artificio affinché si possa lanciarsi
in ogni sorta di presa di posizione, di considerazione, di appello,
di maledizione o quant'altro; il mortoncàrcere serve a questo. Alle
critiche sull'istituzione-galera, ai desideri di abbatterle dalle
fondamenta, ai discorsi sui proletari che sono gli unici a finirci,
ai sovraffollamenti, agli inferni, alle canzoni, ai post sui blog.
Alla fine, ciò che conta è la galera, e non chi ci sta dentro; chi
muore, è duro ma necessario dirlo, serve a far numero. Quasi nessuno
si premura di pensare che chi si ammazza in cella (perché il
suicidio è la forma di morte più frequente in galera) oppure muore
in qualsiasi altro modo, è una persona. Con la sua vita e la sua
storia. Con il suo nome e il suo cognome. Con i suoi gesti, il suo
respiro, i suoi sguardi. E si badi bene che non sto parlando di
errori, o cose del
genere; non ho nessuna intenzione, scrivendo questa cosa, di emettere
sia pure il minimo giudizio. A quello ci pensano sia coloro per cui
mandare in galera è una professione, sia quei tanti che, pur
opponendosi anche radicalmente al carcere come istituzione, sentono
spesso il bisogno di specificare che, comunque, ci si finisce perché
“si è fatta” qualcosa. E, così, quando una persona muore in
galera (con la relativa notizia, magari scarna), l'atteggiamento
generale è quello degli “osservatori”, che in questo caso è il
plurale sia di “osservatore” che di “osservatorio”. In
realtà, non si osserva un bel nulla. Chi osserva davvero sta pure in
galera, e non scrive o dice nulla; noialtri, invece, ci dedichiamo
all'elaborazione di dati e al loro commento. Poi succede qualcosa, un
giorno qualsiasi.
Succede
che vieni a sapere che un mortoncàrcere, uno fra i tanti, lo
conoscevi. Il destino te lo aveva messo sulla strada da qualche
parte, senza calcare troppo la mano; una conoscenza non profonda,
derivata da un luogo frequentato da entrambi. Un passaggio, qualche
sera; poi, una vecchia automobile che non mi serviva più
letteralmente regalatagli, la firma dei fogli davanti al notaio
dell'ACI, una puntata a casa mia, una canna fumata assieme, una scatola di sigari cubani che mi aveva portato. Niente di
più, ma non lo sto dicendo per schernirmi o allontanarmi;
semplicemente, è stato così. Fosse stato diverso, non avrei avuto
nessun motivo per non dirlo.
Succede
che questa persona compie delle cose, e il destino non rinuncia mai
ad essere un po' beffardo. Questa persona finisce in galera per
stalking nei confronti di una ragazza; poco prima, sembra per una
trasfusione di sangue, si era beccato l'AIDS. Conclamato. Le cose si
vengono a sapere, se ne parla (magari sottovoce), vengono commentate.
E qui devo fare un autentico sforzo per dominarmi, perché se
seguissi la mia natura comincerei a raccontare tutto quel che so, per
filo e per segno. Raccontare non significa né glorificare, né
disprezzare; significa, o significherebbe, esporre i fatti relativi a
questa persona, dato che almeno un po' si conosce la sua storia, e
trarre delle conclusioni visto che, comunque, di questa persona si è
scelto di parlare e non vi è nessuna esigenza giornalistica.
L'esigenza giornalistica appare, ad esempio, in questo articolo del“Corriere Fiorentino” ripreso da “Ristretti Orizzonti”. Qui
c'è tutta la cronaca, compreso il nome e il cognome di questa
persona. Lo aveva un nome, e di cognomi ne aveva addirittura due. Vi
è raccontata, la sua storia, così come cronaca vuole; segue il
resoconto di un altro episodio accaduto nel carcere di Prato, e la
consueta “analisi” (con tanto di “disagio” e di “iceberg”).
Per quel che mi riguarda, scelgo invece di non commentare un bel
nulla; non è questo che ho in mente mentre sto scrivendo.
O
meglio, non commento la vita di questa persona e i suoi atti, perché
non mi spetterebbe neppure se l'avessi conosciuta meglio di quanto ho
fatto. E qui mi sorge una terribile contraddizione, perché so bene,
anche e soprattutto qui dentro, d'aver commentato le vite e gli atti
di parecchie altre persone da me mai viste né conosciute. Detto in
altre parole: ho iniziato questo post con un ragionamento sulla
riduzione di chi compie o subisce determinate cose (morire in galera,
ad esempio) a categoria, ma in realtà sono il primo a categorizzare.
E chiunque tende a farlo. Non ho, ovviamente, nessuna sorta di
simpatia verso chi compie atti di stalking; mi sembra che quel che
vado scrivendo da anni lo testimoni a sufficienza. Ma mi chiedo
anche, se io non avessi mai conosciuto quella persona, come ne avrei
parlato. Non si può sempre finire in carcere per belle cose che ti
piacciono, per la lotta NO TAV, per aver tirato una sassata a uno
sbirro, per aver compiuto comunque una “lotta”; ci si finisce
anche per brutte cose che ti stanno sulle scatole, per aver molestato
una donna ad esempio. Alcuni giorni fa ho scritto una cosa su Samuele
Caruso, quel ragazzo palermitano che ha ammazzato la sorella della
sua ex fidanzata; potrei ragionevolmente chiedermi che cosa avrei
scritto se, putacaso, fossi stato un amico o un conoscente di quel
ragazzo. E che cosa scriverei dei “disagi della mente”, io che
fra le altre cose, in passato, pure ne ho avuti? Ad un certo punto,
in alcuni casi, ci pensa la galera; la galera è quella cosa che
compie una sola cosa, apre un portone e ti inghiotte. Per dei mesi,
per degli anni, per sempre. Fa soltanto questo. Non fa cambiare, non
guarisce, non “rieduca”; basterebbe quel solo articolo, quello
sulla “rieducazione del condannato”, per far considerare la tanto
decantata “Costituzione Italiana” per quello che invece è, una
sequela di idiozie da pulircisi il didietro come ogni cosa concepita
e messa (spesso falsamente) in atto dagli “Stati”. La galera
chiude e ammazza, e fine della trasmissione. Chiude e ammazza anche
persone che disapprovi. Anche persone delle quali diresti peste e
corna. Anche persone delle quali hai saputo, da altri, cose non
belle. Anche persone di cui desidereresti, al limite, la morte. Anche
persone che, un dato giorno, cessano di essere “mortincarcère”
per essere ricondotte, per quanto si può, alla condizione naturale
di individuo, di parola, di gesto, di soffio vitale spento da muri
invalicabili guardati a vista da altre persone, armate e pagate per
questo.
Da
tutto questo mi sono sentito obbligato; e, nell'assolvere a questo
obbligo, provo tutti i disagi e le contraddizioni che è possibile
provare. Rinunciare a parlare, ad esempio, di chi muore in galera e
della galera stessa? Non mi sarebbe possibile, finché avrò un po'
di fiato. Cercare di conoscere la storia e la vita di tutti? E come
porsi davanti all'azione di chi pure conosci, e che magari ha fatto
del male ad altre persone? Una serie di domande senza risposta, e lo
so bene. Ma so anche bene che, oggi, non sarei nemmeno uscito di casa
senza aver ricordato per un momento quella persona che, due giorni
fa, in una galera ha deciso di mettere fine ai suoi giorni, per
disperazione. Perché l'unica soluzione che ha individuato, l'unica
via d'uscita, è stata il cavo di un televisore che si è avvolto
attorno al collo, lasciandosi andare. Non intendo rivolgere a questa
persona vuoti e retorici “saluti”, né altrettanto vuote
espressioni di “pietà” soltanto perché, qualche volta, abbiamo
mangiato insieme o gli ho regalato una vecchia Citroën scassata che
gli serviva per il suo lavoro di spazzacamino. Non intendo ridurlo a
“bravo tipo”; la morte sarà anche 'na livella,
ma a me non è mai piaciuto livellare un bel niente e i morti sono
soltanto dei vivi che non respirano più; ma resta tutto ciò che
hanno fatto, nel bene e nel male. Così sarà anche per me, e per
tutti. Se, domani, Samuele Caruso si ammazzerà in carcere (cosa che,
chiaramente, non mi auguro affatto), resterà quel che ha fatto a
quella povera ragazza, ma gli toccherà anche diventare l'ennesimo
mortoncàrcere da infilare nelle statistiche annuali. Senza contare,
naturalmente, quelli che in cancere non si ammazzano affatto, bensì
vengono ammazzati da squadrette varie, da pestaggi, da umiliazioni,
dalla burocrazia, da tutto un sistema che alla galera non rinuncerà
mai.
Così
ho scritto questa cosa. Per aver conosciuto una persona che si è
ammazzata in una cella. Per averla vista, una volta, varcare la porta
di casa mia e mettersi a sedere al mio tavolo. Per averla vista
uscire ed averla salutata con cortesia, ciao, ci vediamo una di
queste sere. Da qualche parte in un cassetto dovrò averci i fogli di
trasferimento di proprietà della macchina, con la sua firma. Può
darsi che questa cosa sarà letta da altri e altre che lo hanno
conosciuto; altri e altre che gli hanno, chissà, voluto un minimo di
bene o un minimo di male; altri e altre per cui, invece, è rimasto
impantanato sui vari gradini dell'indifferenza. Per quel che mi
riguarda, vorrei pormi da un'altra parte; quella di chi ritiene,
sempre, di essere di fronte a persone. E, in questo caso, a persone
in galera. Per qualsiasi cosa abbiano fatto, anche la più orribile.
Per rivolgere loro qualcosa che non sia spazzata via, come sempre
accade, dal vento. Per dare un nome e una storia, così come ha fatto
chi è andato al cimitero degli ergastolani di Ventotene. Perché non
esistano più “mortincàrcere”, ma soltanto persone umane che, un
giorno, si sono accorte che l'unico volo possibile passa per un cavo
di televisore. E anche perché, qualunque cosa accada, a nessuno può essere revocato lo status di persona; e questo sia il mio unico, vero saluto prima di consegnare tutto alla memoria. Per il resto, non ci saranno né inferni e né terre lievi; la terra, su chiunque, è soltanto pesante.
mercoledì 24 ottobre 2012
Via dell'Argingrosso
Questa è via dell'Argingrosso.
Quella dell'indirizzo di casa sotto il titolo del blog, insomma. La strada dove abito. Quella dove invito a "venire a trovarmi di persona" coloro che "vogliono avere a che fare col sottoscritto", visto che non è possibile contattarmi sul Libro de' Ceffi. Quella dove mi spediscono la posta e le denunce. Quella dove mi viene, ogni tanto, a trovare la Digos. Quella dove gira libero il gatto nero, da un capo all'altro.
È vista da un lato, probabilmente in un bel giorno di primavera. Quello che si vede, verdeggiante d'erba fresca, è l'Argine. L'Argin Grosso, appunto; ma il fiume non è immediatamente al di là. Prima c'è l'antico Isolotto, quello che ha dato nome a tutto il quartiere. Una volta era davvero un'isola fluviale, separata da un meandro che era detto, per la sua tortuosità, "Torcicoda". Via Torcicoda è una traversa di via dell'Argingrosso; c'è anche un ufficio postale rapinato, anni fa, dalle Brigate Rosse.
Questa è sempre via dell'Argingrosso, dall'altro lato.
Casermoni. Edilizia popolare. Il sottoscritto abita, a rigore, in un garage; questo era l'uso del luogo dove abito prima che fosse trasformato in civile abitazione. È Firenze come potrebbe essere qualsiasi altra città; fortuna vuole che l'Isolotto abbia comunque mantenuto una non disprezzabile quantità di verde. Parlerò un'altra volta più a lungo di questo quartiere, però.
Questa è invece una famiglia. Composta da dieci persone, tra le quali mi sembra di contare quattro bambini piccoli.
Abita, o meglio abitava, in via dell'Argingrosso. La mia stessa strada. Non li ho mai visti; o meglio, potrà essere capitato, chissà, d'esserci incrociati all'Esselunga. In via dell'Argingrosso c'è un supermercato di piccole dimensioni, ed alcuni negozi che stanno, generalmente, chiudendo. Ultimo in ordine di tempo, la cartoleria. Incrociati senza vederci, magari in coda alla stessa cassa; due mondi vicini che non si toccano. Del resto, non conosco neppure il 98% degli inquilini del mio palazzo. Nel cortile degli ex garages, siamo quelli delle "topaie" (però i topi sono stati sterminati da Niccolò Machiavelli e da Redelnoir); io e le mie due concortilaie. La guardiana del museo e la psicanalista di Tucumán. Poi ci sono i condizionatoristi e i cronometristi. Il resto, ignoti; e mi premuro di disertare regolarmente le riunioni di condominio.
La famiglia della foto è, come ci informano i giornali, di origini magrebine. Da quando è stato scoperto l'aggettivo "magrebino" (che i più mettono in relazione con "magro"), è stato mandato in pensione il vecchio epiteto di "arabo". Le famiglie sono in realtà due: si tratta di due fratelli con le rispettive mogli e con i figli. Vivevano, però, assieme. Non so, e non immagino, come dev'essere vivere in dieci in uno stesso appartamento in via dell'Argingrosso.
Oggi sono stati tutti sfrattati.
La proprietaria dell'appartamento, sempre come informano i giornali, "non ne ha voluto sapere". I due fratelli hanno perso entrambi il lavoro. Sono arrivate le forze dell'ordine. Canone di locazione dell'appartamento popolare: euro 750 mensili, più euro 100 di condominio. Totale: euro 850 mensili. Da stasera, le due donne e i figli minorenni sono ospitati in case-famiglia; c'è il "family day", e c'è anche la "casa family night". I due uomini, invece, sono finiti all'Albergo Popolare. Quello che, un tempo, si chiamava dormitorio pubblico. Via della Chiesa, quartiere di San Frediano. E' un posto, quello, dove è improbabile che chi mi legge sia mai entrato in vita sua; io ci sono dovuto entrare parecchie volte, ma vestito tutto fosforescente e con strane valigie in mano. Servizio sanitario. Risse. Ubriachezze. Vomiti. Cacate. Una volta, anche un coltello.
Dicono che, solo nel mese di ottobre, in Firenze sono previsti 118 sfratti esecutivi.
Gente per la strada. Case-famiglia. Alberghi popolari.
Può darsi, sì, che le abbia incontrate, queste persone, da qualche parte in via dell'Argingrosso. Può darsi che abbia scorto qualcuno dei bambini andare a scuola qui dietro, in via dei Bassi; può darsi che abbiano percorso come me l'argine in un giorno di sole. E' grosso, l'argine; il nome della strada non è menzognero.
E può darsi che, un giorno, abbia anch'io pensato a tutte quelle facce incrociate, d'altri luoghi e d'altri tempi. Che abbia pensato, chissà, a da dove venissero. Su che cosa avessero aperto gli occhi alla vita. Su quali polveri, su quali montagne, su quali mari. Su quali miserie. Pensieri fugaci, perché non si creda che un essere umano passi la giornata immerso in tali meditazioni; anch'io, come tutti, ho da pensare alla caviglia di Jovetic, alla bolletta da pagare, alla fattura insoluta, a ritirare il piumino dalla lavanderia (quella, almeno, non è ancora chiusa), al doloretto strano, alle zanzare tigre.
Fino a ieri sera condividevamo, senza saperlo, la stessa aria e lo stesso paesaggio.
Poi, basta che suoni il campanello una mattina, e si presentino coi loro fogli e i loro ordini.
Questa è ancora via dell'Argingrosso, molti anni fa.
Una famosa scena di un film di grande successo vi fu girata, mentre era ancora in costruzione. Una sequela di cantieri al posto dei campi, al posto della vecchia Sardigna. La Sardigna era, a Firenze, il terreno, lontano dal centro, dove si bruciavano le carogne degli animali da lavoro morti; cavalli, somari, muli, ma anche cani e gatti randagi. Non era un bel posto, ma da qualche parte lo si doveva pur fare, specie in tempi in cui le epidemie erano un pericolo reale.
In quei cantieri fu girato il regolamento di conti coi Marsigliesi. Una scena esilarante.
Vi si vedono, mentre venivano tirati su, gli stessi casermoni di oggi. Chissà che non vi si veda anche l'appartamento dal quale, oggi, dieci persone, oppure due famiglie, oppure una famiglia sola, sono state buttate fuori così come vogliono il mercato e le sue leggi.
Può darsi che ora prenda e vada a farmi un giro per via dell'Argingrosso.
Dicono che sarà una delle ultime nottate dal clima dolce; tra poco arriverà il freddo.
martedì 23 ottobre 2012
Il rigore è una cosa seria
In Italia, il pallone è una cosa molto seria. Logico, quindi, che anche il presidente Napolitano, supremo rappresentante della Nazione e garante della sua Unità & Coësione, intenda far sentire al riguardo la sua autorevole voce (come si evince da questo importante titolo di Repubblica di oggi, martedì 23 ottobre 2012). Ad esempio, l'annoso problema del rigore (che, da sempre, fa discutere gl'italiani dalla domenica sera fino alla domenica dopo, vale a dire sempre) è stato oggi affrontato dal Presidente che, dall'alto del suo Magistero, ha chiarito la sua ferma posizione, ancor più ferma di quella dei giocatori del Milan in campo: sul rigore non si possono fare passi indietro.
La cosa potrà stupire alquanto, dato che un rigore, di solito, lo si tira facendo passi avanti. Esistono numerose "varianti" (tra le quali lo spettacolare "cucchiaio" reso famoso da Totti nella drammatica semifinale europea Italia-Olanda del 2000; non a caso, il Presidente ha rilasciato la sua dichiarazione sul rigore proprio durante una visita ufficiale nei Paesi Bassi), ma comunque tutte prevedono almeno un passo in avanti. Al Presidente Napolitano, però, dev'essere stato fatto visionare il seguente filmato:
Come si può vedere, in occasione di tale bizzarro "rigore in seconda", l'attaccante che tira originariamente il rigore compie un vero e proprio passaggio ad un compagno di squadra, il quale prende la mira ed insacca. L'arbitro ha convalidato, provocando non poche polemiche: ma ha agito a termini di regolamento. Il passaggio, infatti, non è stato effettuato all'indietro, e il secondo attaccante (quello che ha segnato il goal) è partito fuori dall'area. La marcatura è quindi assolutamente valida, anche se non si riesce a capire il perché di tale modo cervellotico di tirare un rigore.
Ma il Presidente Napolitano, da sempre attento ai veri problemi della NAZIONE, ha tenuto comunque a precisare che, in Italia, certe cose sono e saranno sempre inammissibili. Un rigore non può comportare passi indietro, di nessuna natura; altrimenti deve essere annullato e fatto ribattere ammodino. Intervistata al riguardo, la ministra Fornero ha immediatamente esternato la propria solidarietà a Napolitano, dichiarando che "un attaccante non può essere troppo choosy". Come darle torto?
Ma il Presidente Napolitano, da sempre attento ai veri problemi della NAZIONE, ha tenuto comunque a precisare che, in Italia, certe cose sono e saranno sempre inammissibili. Un rigore non può comportare passi indietro, di nessuna natura; altrimenti deve essere annullato e fatto ribattere ammodino. Intervistata al riguardo, la ministra Fornero ha immediatamente esternato la propria solidarietà a Napolitano, dichiarando che "un attaccante non può essere troppo choosy". Come darle torto?
sabato 20 ottobre 2012
A Samuele Caruso.
Questa cosa che ti sto scrivendo, Samuele Caruso, non potrai mai leggerla. Non potrai, perché sei rinchiuso in una galera. Te lo avessero detto una settimana fa, che oggi domenica venti ottobre la avresti passata in una cella di un carcere, chissà che cosa avresti pensato; oggi sei, a ventitré anni, chiuso là dentro con la prospettiva di passarci una non lieve parte della tua vita. E lo sai. Inutile distogliere il pensiero da questa cosa; la tua vita, così com'era fino a poche ore fa, non esiste più.
Chi ti scrive senza che
tu possa leggere, ha visto e continua a vedere amici e compagni
finire in galera. Ci si finisce, là dentro, anche per essersi
opposto a qualcosa e a qualcuno. Ci si finisce per una
manifestazione, per una lotta, per aver dato noia a qualche potentato
politico e finanziario. Ci si finisce, non di rado, per il capriccio
di qualche procuratore asservito. Ci si finisce combattendo, a modo
proprio, contro delle ingiustizie e contro un sistema intero. Ci si
finisce, certo, anche impugnando un'arma, e usandola. Non so, e non
potrò mai sapere, se a tali cose tu abbia mai pensato, anche una
sola volta, nella tua vita; forse, chissà, stai pensando adesso di
essere finito in galera per amore.
Bisognerebbe, e ne va della tua salvezza, che tu non pensassi mai una
cosa del genere. In galera ci sei per aver ammazzato una ragazza più
giovane di te, colpevole esclusivamente di essere la sorella di
un'altra ragazza che amavi.
In galera ci sei perché questa ragazza ti aveva lasciato.
In galera ci sei perché un giorno d'ottobre sei uscito per andare da
lei in compagnia di un coltello, e lo hai usato su una ragazza che
voleva difendere sua sorella quando ha visto che la avevi aggredita,
armato. In galera ci sei, e non hai affatto “perso la testa”,
come vai ripetendo pensando di autoassolverti. Altrimenti, occorrerà
fare il percorso di quel coltello.
Dov'era?
In un cassetto, su un tavolo, in una borsa? Ovunque fosse, non poteva
muoversi da solo. C'è stato qualcuno che lo ha cercato, che lo ha
preso, che lo ha sollevato e che se lo è messo in tasca; e quel
qualcuno sei tu. E' “perdere la testa”, questo? Andare da una
ragazza che ti ha lasciato
scomodando un coltello? Si può perdere la testa a volte, certamente;
e quando la si perde, spesso, non importa nemmeno avere un'arma. Quel
che si può fare con le mani e con i piedi, e con la propria forza
(specialmente quando si è un uomo, magari giovane, contro una
ragazza cui non è mai passato per l'anticamera del cervello di
frequentare corsi di difesa personale o roba del genere), lo avrai
magari visto anche tu sui giornali. Quante donne, quante ragazze
ammazzate a calci e pugni? Quante strangolate con un semplice nastro?
Quante prese di peso e scaraventate da una finestra o in un burrone?
E si può anche uscire con questa precisa intenzione. Si può trovare
persino un pugile che ti massacra in mezzo di strada perché “ce
l'ha con tutte le donne”, e tu sei la prima che ha la sventura di
incrociarlo. Ecco. Tu hai, Samuele Caruso, bypassato tutto questo. Tu
sei uscito con un coltello per andare dal tuo amore.
Non continuare a raccontare questa menzogna agli altri e a te stesso.
Non cercare di basartici sopra per vedere se un qualche avvocato ti
tirerà fuori. Non ammazzare quella ragazza un'altra volta.
Non
mi pongo, poi, certamente a modello, né nei tuoi confronti, né in
quelli di chicchessia. Non sono nemmeno uno di quelli che ama
cianciare di “età”. La separazione è una cosa dolorosa, sempre,
a qualsiasi età. Non mi piace chi sminuisce il dolore di una
separazione a seconda delle fasce di età, per cui essere lasciato o
lasciata a vent'anni sarebbe “meglio sopportabile” che esserlo a
quaranta o cinquanta. Una volta, ad esempio, a chi ti scrive senza
che tu possa leggere è accaduto all'età di trent'anni esatti, ed in
modo particolarmente duro. E ho passato un periodo, in ogni senso,
che non potrò mai scordare. Mi sono ridotto, ad un certo punto, a
una specie di larva, o di zombie; ed avevo voglia a cercare dentro di
me e intorno a me ogni sorta di palliativo, di consolazione, di altro
interesse. Non c'era nulla da fare, quella cosa mi rodeva dentro; e
ha continuato a farlo, prima di acquietarsi e cessare, per anni, anni
ed anni.
L'unica
cosa che posso dirti, Samuele Caruso, è che non sono mai andato a
cercare quella persona, pur sapendo addirittura benissimo dove
abitava. Mi è capitato, due o tre volte, di incontrarla casualmente.
Una volta me la ricordo benissimo, con tanto di data: era il 30
ottobre 1993, ed ero dovuto intervenire con l'ambulanza in una
piccola piazza del centro della mia città. Mi ricordo
particolarmente bene di quell'episodio, attimo per attimo, perché è
stata l'unica volta, in trentaquattro anni sulle ambulanze, che sono
stato chiamato per un caso di “Sindrome di Stendhal”, o perlomeno
per una cosa che pareva esserlo. Una turista americana che era andata
in deliquio davanti ai monumenti architettonici. In quel momento
esatto, mentre stavo soccorrendola, ecco che arriva quella persona
là, ben vestita, salutandomi. Dicendomi di aver sentito le sirene
dell'ambulanza, e di aver pensato che potevo esserci io; pensa un
po', Samuele Caruso che non mi leggi. Era uscita da un ristorante
vicino, dove stava con alcuni amici e, soprattutto, con la persona
per la quale mi aveva lasciato.
Sai che ho fatto? Ci sono stato, e magari puoi anche immaginarti con
quale stato d'animo, a chiacchierarci persino con un sorriso sulle
labbra. Non volevo farmi vedere com'ero davvero, vale a dire
disperato o qualcosa del genere. Attraversato da fiamme di varie
dimensioni. Eravamo stati insieme non pochi mesi, non un'estate; non
te lo dico nemmeno per quanti anni, forse non ci crederesti neppure.
Ci eravamo messi insieme al ginnasio, e avevo trent'anni e un mese in
quel momento.
In
un'ambulanza di emergenza ci sono, in dotazione, armi
pericolosissime. Su quella là c'era, ad esempio, un pie' di porco
che serviva nei casi, abbastanza frequenti, in cui era necessario
scardinare una porta per soccorrere una persona rimasta sola in casa.
C'erano cacciaviti e altri attrezzi. C'era un pesantissimo
defibrillatore. C'era che sono alto più di un metro e novanta e,
allora, ero un trentenne nel pieno delle forze. Pensa tu in quanti
modi avrei potuto perdere la testa
invece di cercare di dissimulare quel che avevo dentro, e raccontando
persino a quella persona che ero intervenuto su un caso di “Sindrome
di Stendhal”. Se ne tornò nel suo ristorante sorridendomi e
dandomi affettuosamente del “sonato”; è stata l'ultima volta che
ci ho parlato direttamente. L'ho rivista anni dopo in un'altra
piazza, mentre passavo con la macchina; non mi sono fermato.
Mi
dovresti dire ora, Samuele Caruso, che cosa ti è veramente passato
per la testa quando hai cercato e trovato un coltello prima di andare
dalla tua ex ragazza. Sì, la separazione è molto dolorosa. A
qualsiasi età. L'amore finisce, ad un certo punto; che sia durato
pochi mesi o una vita intera. Oltretutto, spesso e volentieri finisce
soltanto da una parte sola; dall'altra, disgraziatamente, continua.
Continua e si incrocia con tutta una serie di altre cose; con certe
culture, ad esempio.
Si incrocia con un senso di possesso, di “avere”, che è
foraggiato in mille modi – e su questi mille, novecentonovantanove
hanno a che fare col vendere, con la merce. Si incrocia con
l'insicurezza personale, certamente. Si incrocia con il falso
“romanticismo” di questi tempi tutti amore, cuoricini, lucchetti,
smielature, romanzetti idioti, canzoncine ancora più idiote dei
romanzetti. Si incrocia con crisi collettive e personali. Si incrocia
coi cosiddetti “sogni”, e quanti ne hanno ammazzati i sogni lo sa
solo il cielo. Si incrocia con tutta una serie di mancate
accettazioni. Si incrocia con la famosa sensazione che “tutto sia
finito per sempre”. Lo sai, Samuele Caruso, con che cosa finisce
tutto per sempre? Con una cosa sola, che si chiama morte. Nonostante
tu sia in galera e che tu debba restarci per chissà quanto, per te
non è finito nulla. Sarà tutto molto diverso, ma non è finito. E'
finito tutto, invece, per quella ragazza di diciassette anni che
voleva difendere sua sorella dai tuoi incroci. Per le non ci sarà
più niente. Per lei e per tutte le decine, centinaia, migliaia di
altre ragazze e donne che hanno dovuto fare i conti con tutti i tuoi
colleghi perditori di teste. Con chi non ha saputo fermarsi. Con chi,
poi, giocherella con il “raptus”, come stai cominciando a fare
anche tu; un giochino che, peraltro, piace enormemente agli
scribacchini prezzolati che si gettano, al contempo, sulle fotografie
della vittima, riprendendole da quel luogo di delizie, cuoricini e
grand'amori che si chiama “Facebook”.
Ma,
tanto, Samuele Caruso, ora tu su “Facebook” non puoi più
andarci. Non te la puoi più aggiornare la paginetta coi tuoi
pensierini e con la tua musica preferita. Pensa: saresti stato un
normalissimo ragazzo, e perdipiù di una categoria assai numerosa:
quella dei Lasciati dalla Fidanzata (sembra
che il termine “fidanzata” ora sia tornato molto di moda, persino
tra i quindicenni). Chissà che altro c'era dentro quella paginetta;
magari, chissà, considerazioni sulla “mancanza di futuro”,
speranze, discorsi edificanti; ora ti ritrovi con un futuro
assicurato per anni, a spese dello stato (ma ti presenteranno anche
un conto economicamente salato, in forma di risarcimento alla
famiglia di quella ragazza; in pratica, qualcosa da mandare
definitivamente in rovina tu e tutti i tuoi cari). Ti ritrovi con
delle persone che ti odiano e ti odieranno per sempre, anche se i
tuoi avvocati, ad un certo punto, ti consiglieranno di scrivere la
consueta “richiesta di perdono”. Non ti perdoneranno mai, bisogna
che tu te lo metta fin da ora in quella gran testa che dici di avere
perso. Ti ritrovi con delle persone che faranno di tutto perché tu,
Samuele Caruso, in quella galera ci rimanga chiuso per sempre. Fine
pena mai. Ergastolo. Basterà che riescano a dimostrare la tua
premeditazione; e non sei messo bene da questo punto di vista. Ma
punto bene. Ti ritrovi su tutti i giornali, ma ci resterai per poco.
Ti ritrovi con un processo da dover sostenere davanti alle facce dei
parenti di quella ragazza che hai ammazzato, e soprattutto di sua
sorella. Quella che amavi tanto
e che ti aveva lasciato.
Non è una bella situazione, no? E bisognerà che qualcuno te lo
dica, Samuele Caruso, senza mezzi termini. Sei veramente un cretino,
oltre che un assassino. In compagnia di altri non so quanti cretini,
di “mariti” sterminatori, di “fidanzati” appostati come
sicari, di “padri di famiglia” annientatori, e di stalkers, di
allucchettatori, di possessori e di altri deficienti del genere. In
compagnia di tutta una società, probabilmente, che ha scambiato
l'amore con un'istituzione al pari delle altre. O per una banca:
quante volte si sente dire che, in una relazione tra due persone, si
compie un “investimento”? Ho investito tutto su di te,
e ora mi lasci! E zàc, si esce
col coltello.
Ora,
certo, ti ribadisco una cosa, Samuele Caruso. Non leggerai proprio
mai questa cosa che sto per finire di scriverti. Ma, chissà, forse
la leggeranno altri come te. Altri che sono stati lasciati
con tutti gli ammennicoli di cui sopra. Sto vivendo, sai, una
bellissima storia d'amore; eppure, un giorno, potrei dovermela
rileggere io stesso, questa cosa che ho scritto. Tutto può avere una
fine. Potrei dovermela rileggere, e pensare non a una cella, ma -che
so io- all'isola d'Elba che comincia ad apparire da dietro il
promontorio di Piombino. Ai miei libri. Al gatto nero che dorme
tranquillo sul letto. A tutte le persone che mi vogliono bene e anche
a quelle che non me ne vogliono. Ai miei ideali per i quali, giusti o
sbagliati che siano, ritengo che valga la pena vivere. A un piatto di
pasta alla gricia. A un sigaro fumato nella notte sull'uscio di casa.
A un giro senza meta per le campagne alla ricerca di vecchie carrette
da fotografare. A tutte le mie cose, a tutte le mie persone. A tutto
ciò per cui è bene, i coltelli, lasciarli nei cassetti. Ad un nuovo
amore, che poi finirà come me ne sono finiti, in cinquant'anni, una
caterva. A quel che ho dentro, e che mi basta senza più avere quel
tuo cazzo di ventitré anni buttati nel cesso. Per che cosa, Samuele
Caruso?
giovedì 18 ottobre 2012
Resurrezione (9-10)
9.
La tirò a sé leggermente con le mani, non volendo credere
ai suoi occhi ; oppure sì, ci voleva credere, come
voleva credere fortemente che entro poco non sarebbe
finito tutto quanto, e che si sarebbe ritrovato nel
nulla, dentro una beffa che qualcuno aveva voluto rifilargli
colà dove si puote. Si guardò attorno dieci volte in
due secondi ; si toccò addosso, annusò l'aria, sputò per
terra. Chiuse gli occhi strizzandoseli con le dita, e gli si
formò nell'oscurità delle palpebre
chiuse e compresse un bizzarro
caleidoscopio dai colori
sfavillanti ; poi li riaprì di colpo.
Davanti a lui, c'era sempre
quella corda rotta di chitarra.
E lui era vivo.
" Magari, anzi di siùro, è solo
una 'orda… ", e nel pensar questo
le mani obbedirono
immediatamente e si misero a
tirare quel filo metallico. Dopo
pochi secondi, dal groviglio della
pianta d'ortica, uscì fuori una chitarra.
Una vecchia Yamaha abbandonata
lì chissà da quando, tutta
sporca e puzzolente di piscio di
gatto e d'òmo, ma con tutte le
altre corde sane, la cassa armonica
a posto (sebbene dentro vi
fosse un preservativo usato), i tiracorda intatti. Sul
retro del manico erano appiccicati due piccoli adesivi :
uno con la bandiera italiana, e l'altro con la testa del
capo indiano Geronimo.
Piero Ciampi la prese lentamente, guardandola e
riguardandola, toccandola mille volte, provando a pizzicare
qualche corda.
Era completamente scordata, per
forza di cose, ma le note risuonavano nella cassa.
Sarebbe bastato darle una ripulita, sostituire la corda
e accordarla in qualche modo. Sicuramente, a giro per
la città un negozio di strumenti e accessori musicali
era ancora aperto a quell'ora, e un ragazzo a giro per
dargli il la lo avrebbe trovato facilmente. Forse in piazza
Grande, oppure all'Attìas. E gli ritornavano a mente
tutti quei nomi, e gli turbinavano nella testa, e bisognava
che si sbrigasse perché non c'era tempo per farsi
prendere dal pensare a tutto quel che stava succedendo.
Sarebbe prima o poi dovuto anche andare a riposare
un po', magari a dormire ; tornare in via Garibaldi,
salire le scale della signora Emiliani, buttarsi su una
brandina in quella stanza, e addormentarsi con la
paura fottuta di ritornare nella morte. Ma fosse quel
che fosse. Mal che andasse, ancora qualche ora di
vivezza ce l'aveva, e di vivezza con una chitarra in mano.
Di vivezza con un po' di musica.
Con la chitarra sotto braccio, e attento a non farsela
cascare per terra, Piero Ciampi uscì dal giardinetto
prendendo immediatamente un passo di gran carriera,
con quelle gambe lunghe che aveva; senza che potesse accorgersene, il cespo d'ortica fu
mosso da un lievissimo alito di qualcosa, e scomparve.
Piero Ciampi s'era ritrovato sulla strada che menava a
Corso Amedeo e all'Attìas, invece d'andare a vedere
nella vicinissima piazza Grande se per caso c'era il
negozio che cercava; passata piazza Cavour, con la
gente che guardava quello strano tipo con una chitarra
sotto il braccio e l'aria lunga quanto i passi che faceva,
schivando i passanti e rischiando d'esser messo
sotto da un autobus che stava ripartendo dalla fermata,
per poco lo strumento non gli era caduto per terra,
dato che aveva deciso di ritoccarsi ancora, e ancora, e
di palpare il portafoglio nella tasca interna della giacca,
e di strusciare i piedi per terra per sentir se ancora ce
l'avesse sotto di sé, e di far qualunque genere di movimento
strano che gli provasse inequivocabilmente
d'essere vivo, con una chitarra senza una corda e un
premio musicale intitolatogli da morto, quando da vivo
al massimo gli avevano intitolato qualche decina di chili
di cambiali andate in protesto. A un certo punto s'accorse
che una vecchia lo fissava con aria compassionevole,
quasi a dire " poeròmo, dé, è anche bravo a volé
sonà' la 'itarra 'osì tutto sciancato … " ; con un gesto
che gli venne spontaneo, si ricompose mettendosi a
camminare dritto come un fuso e facendo un gran sorriso
all'anziana donna, che rimase interdetta a fissarlo
sul marciapiede, sentendosi forse anche un po' presa
per il culo.
"O dove sarà…sì, verso l'angolo…in Cors'Amedeo, sì, ci
doveva èsse' un negozio 'e vendeva 'itarre, strumenti e
tutto ir resto… ", e via quasi di corsa, e avanti senza ripigliar
fiato, non sentendo nemmeno gli accidenti, i vaffanculo
e gli irbudelloooo...!!! che i passanti cominciavano
a bazookargli dietro dopo averci avuto i coglioni, le anche
e i plessi solari sfiorati dalla musica nel migliore dei
casi, e presi a chitarrate nel peggiore. Nel frattempo,
alcuni intercettori dell'aviazione militare in volo di pratica
sopra qualche punto imprecisato del mare Tirreno,
segnalarono d'essere stati incrociati da un misterioso
oggetto somigliante ad un grosso cespo d'ortica;
sarebbero stati maggiormente creduti se avessero
detto d'aver visto un aereo passeggeri abbattuto da un
missile o da una battaglia aerea nel cielo di Ustica.
E andavano talmente veloce, Piero Ciampi e la sua chitarra,
che quasi non s'accorsero, passata l'Attìas con
le sue torme di tredicenni e svoltati a destra in
Cors'Amedeo, d'aver superato un negozietto carico di
vecchi strumenti, di chitarre spezzettate, di fisarmoniche
smontate, di archetti piegat'in due, di violini ammalati,
di moog sfiatati, di bassi scordati, di banjos raggelati,
di balalàiche sbalalaicàte e d'altre confusioni musicali
ammassate in una specie di cataclisma, mentre un
tizio alto e robusto, dai capelli e dai baffi brizzolati,
stava seduto dietro a un banco a provare un theremin
appena riparato, muovendo le mani per l'aria mentre lo
strumento emetteva la sua strana voce quasi extraterrestre.
L'insegna, illuminata soltanto da due vecchi portalampade
a piatto, diceva soltanto: "Dal Milanese -
Riparazione Strumenti Musicali - Vendita Strumenti e
Accessori Usati".
Piero Ciampi e la sua chitarra avevano oltrepassato il
negozio d'una cinquantina di metri, quand'alfine smusarono
un paio di testimoni di Geova in giacca e cravatta
di ritorno dal giro serale d'annunciazione della Bibbia;
e fu quel loro provvidenziale "Ma stia un po' attento !",
pronunziato con voce ferma e composta mentre uno si
reggeva al muro col naso sanguinante e l'altro giaceva
sul marciapiede tentando di raccattare un pacco ancora
intonso di "Torri di Guardia" e di "Svegliatevi !"
caduto per strada, prima che una Uno beige targata
Pisa lo spiaccicasse senz'alcun rispetto per la parola
d'Iddìo, che finalmente arrestò la vìndice corsa di Piero
Ciampi e del suo strumento; e s'accorsero del disastro
che avevano fatto, e soprattutto dell'insegna del
Milanese.
"Scusate…ommadònna…'un l'ho fatto apposta… "
"Ci credo che non l'ha fatto apposta, vorrei vedere… ",
disse il primo testimone di Geova appoggiandosi ancora
al muro, e con la camicia oramai tutta macchiata
del sangue che gli colava copiosamente dal naso forzatamente armonizzato.
"Scusi…m'aiuterebbe a rialzàmmi… ?", disse invece il secondo ancora a terra, rimirando
desolatamente il pacco di sante riviste sul quale erano
passate altre otto macchine, un'Ape Car e un Gasolone
a quattro ruote carico di calcinacci. Piero Ciampi lo tirò
su quasi d'un colpo; nel frattempo un capannello di
gente s'era venuto formando, come consuetamente
accade, e via a discorrere, e com'è andata, e come
state, avete mìa bisogno 'e si 'iami la Pùbbria, e no, no
che 'unn'ho fatto apposta, mi 'iudeva ir negòzzio…dé ma
se per caso 'ni partoriva la moglie 'osa faceva, tirava
fòri ir mitra, e no, io la moglie tanto 'un ce l'ho…cel'avevo…
inzomma mi dispiace, ditemi 'osa devo fà, ma
lasciate perdere, non è nulla, piuttosto non è che vorrebbe
che parlassimo un po' della Bibbia, che la fine
der mondo è vicina… ?
Intanto, dal vicino negozio, il
Milanese era sortito a chiudere il bandone, ché s'era
fatto tardi ed era venuta l'ora di tornare a casa e di
mettersi a vegliare ancor di musica, e di parole, e di
pensieri che alla musica e alle parole partecipavano
senza che nessuno o quasi lo sapesse.
Piero Ciampi se n'accorse appena in tempo ; si divincolò
dalla gente e fece per slanciarsi verso il negozio
che stava chiudendo.
" Signore…Signore ! Aspetti… ! "
" Dé, no, 'un posso aspettà, mi 'iude ir negòzzio….è importante
!"
" Ma signore….Dio…non ci pensa ?"
Fu allora
che, già allungata la falcata, si sentì per l'aria un urlo
che tutti ridusse ad un inaspettato silenzio; la chitarra
in alto; la corda rotta descrivente un'armonica spirale
metallica quasi a volere dir la sua ultima prima d'essere sostituita; qualcuno o qualcosa che berciò un "Non Dio ! Decido io !" ; e il Milanese fu placcato un picosecondo
prima d'infilare la chiave nel lucchetto.
" Fermo, per favore !"
" Mi scusi…ha bisogno di qualcosa ? ", fece l'uomo del
negozio con un accento che giustificava pienamente il
nome sull'insegna.
" Sì…di 'ambià una 'orda rotta alla 'itarra. "
" E per cambiare una corda rotta alla chitarra fra poco
fa fuori due passanti e mi si getta addosso come un
rugbista ?… "
" È importante…dé, le giuro che è importante. La chitarra
stasera mi serve…mi serve per forza. "
" Davvero non potrebbe tornare domattina verso le
otto ? "
" Domattina verso le otto è troppo tardi. Bisogna
'ambiàlla ora, per favore. Per favore. "
" E va bene, va bene…mi dia il tempo di riaprire e di riaccendere
la luce…ma è sicuro che è solo la corda ? La sua
chitarra mi sembra…come dire…un po' malmessa."
" È un po' vecchia e ne ha passate… "
" Beh, le daremo un'occhiatina a fondo…tanto, in fondo,
non ho fretta, e se lei ha
rischiato d'ammazzare due
persone per cambiarle una
corda, si vede che dev'essere
importante sul serio. "
" La ringrazio davvero,
signor…."
" Maimone. Giorgio
Maimone. "
" Litaliano Piero ".
" Molto felice di conoscerla,
signor Litaliano. Venga, si
accomodi. Sì, 'sta chitarra ha
bisogno d'essere rimessa in
sesto ", disse sedendosi su
uno sgabello con le zampe di
metallo e la culiera in skai
rosso. Solo un paio di lampadine
accese; prese da un
tavolo, mezza impolverata, una vecchia cassetta stereo
e la infilò in un mangianastri. C'era qualcuno che
cantava in inglese, a volume bassissimo.
10.
Piero Ciampi si mise anche lui a sedere su una sedia
da giardino, senza neanche spolverarla.
" Stia attento, signor Litaliano, non so se la regge. "
" Va bene… "
" Di là c'è una sedia di legno. Quella dovrebbe andare. "
Presa da una specie di sgabuzzino la sedia, senza
neanche accendere l'interruttore perché non lo aveva
trovato al primo tastone sulla parete, Piero Ciampi si
mise a sedere accanto al Milanese che stava esaminando
la chitarra senza toccarla, dopo averla posata
sul banco da lavoro.
" E' in condizioni pietose, vero ? "
" Dev'essere stata a lungo all'aria aperta, mi sa. Ma è
sua ? "
" No. A dire il vero…l'ho trovata."
" Trovata ?..."
" Sì…ma dé, guardi…sarebbe un po' lungo spiegarglielo.
Solo che mi serve entro stasera. Mi bisogna, sul serio."
" Facciamo una cosa, signor Litaliano. Qui non c'è solo
da cambiare la corda, quello sarebbe il meno…se la
vuole davvero suonare e le serve, occorre che ci faccia
qualche lavoretto e che la provi. Mi ci vorranno almeno
un paio d'ore. Potrebbe tornare, facciamo, verso le nove di stasera?..."
" Ma…davvero resterebbe qui a farmela… ?"
" A questo punto…"
" Senta…io bisogna che le dica la verità. Se ci sono da
fare dei lavori grossi…non so nemmeno se ho i soldi
per pagarla."
" Quanto ha ?"
" Cinquanta…sessanta li…sessanta euro."
" Tranquillo, non gliene prendo più di trenta. Magari
anche meno."
" Non so… "
" Come ringraziarmi
? Vorrà dire che, una
sera, verrà qui a cantarmi
qualcosa. Sa,
anch'io ogni tanto
suono. E scrivo canzoni,
anche. "
" Le scrivo anch'io. E'
per questo…che ho
bisogno della chitarra
al più presto. "
" Ho capito. Lei
dev'essere qualcuno
del Premio Ciampi, mi
dica se sbaglio…"
" No, non si sbaglia… "
(" Ma forse non nel
modo che immagina
", si disse Piero sforzandosi di non fare nessuno sguardo
particolare e di non increspare le labbra, seppur in
modo inavvertibile.)
" E allora, stia tranquillo che gliela faccio alla svelta.
Quelli che vanno al Ciampi mi stanno simpatici, sa…. ",
disse il Milanese sollevando la testa e strizzando lievemente
gli occhi mentre i sorrisi gli si sbaffavano sulla
faccia.
" Senta, faccia una cosa, signor Litaliano ", disse
riprendendo improvvisamente un'espressione serissima.
"Io sono abituato a starmene da solo, quando
lavoro. Torni verso le nove, come le ho detto; sarà
tutto pronto. Mi scusi, non vorrei essere sgarbato, ma
se non sono solo non ce la faccio a lavorare. "
" Ma le pare. Torno alle nove in punto. "
" La aspetto."
" Però mi levi solo una curiosità."
" Mi dica. "
" Chi è ?... ", chiese Piero Ciampi indicando il mangianastri
dal quale qualcuno continuava a cantare in inglese.
" Un cantautore scozzese, si chiama Robin Laing. "
" Canta bene. Ha una bella voce. "
" E canta anche delle belle cose. La canzone che ho
messo me la sento sempre quando lavoro. Parla di un
orologiaio. In italiano si chiamerebbe La canzone segreta del tempo ".
" Grazie. Tanto 'un lo 'onosco…ma il titolo è…è bello.
Arrivederci a fra poco. "
" Arrivederci a lei, signor Litaliano. Certo, cristo… "
" Prego… ? "
" No, niente. Non è niente, stavo ragionando fra me e
me. Arrivederci ancora. "
Piero Ciampi uscì dal negozio che si dovevan già essere
fatte quasi le sette. Faceva freddo, e umido; s'abbottonò
la giacca alzando il bavero e stringendosela
addosso più che poteva, e sperando che non s'alzasse
per caso una di quelle ventate, di mare o di terra, che
a Livorno son pane di tutt'i giorni. "Se viene una tramontanata,
con questa roba 'ecciò addosso mi finisce
la vaànza in du' ore, gesummorto..." ; ma, per fortuna,
di vento non ce n'era. C'era solo un'umidità dove avrebbero
potuto sguazzare i pesci per l'aria.
Di tornare in via Garibaldi, non ne aveva voglia. Quella
casa, ripensandoci, gli aveva fatto un effetto strano. E la
vicina di casa, poi, la vecchia che ce l'aveva coi siciliani; "N'avrò visti di posti strani…boia se n'avrò visti…".
Ripetendosi e ridicendosi quest'ultimo pensiero come una specie di mantra, le gambe lo avevano portato di nuovo verso
piazza Cavour; stranamente non aveva né fame, né sete.
Le luci di via Cairoli, con qualche negozio che già aveva i
festoni natalizi; quella via piena di banche, e banche, e
ancora banche. Ché, a Livorno, di soldi ne girano tanti.
Città di soldi che passano di mano, città di noli, di equipaggi
o ciurme raccattati con la consegna del silenzio per
tacere tutte le loschezze che vi sono dietro. Città d'affari
fatti alla svelta. L'unica città italiana dove una strada si
chiama via della Banca . Non la prese, via Cairoli. Non
tirò diritto. Girò a sinistra per gli scali. Per il porto.
Era quello stesso porto che lo aveva respinto nel pomeriggio,
quando stava camminando per via Grande. Ora
ci arrivava dagli scali del fosso Reale, a sera, mentre
aspettava che gli fosse riparata una chitarra che aveva
trovato in un cespo d'ortica, su suggerimento d'un
francese che, di cognome, faceva " Linea spezzata" ;
proprio in quel momento, il cespo d'ortica aveva preso,
lassù lassù, la rotta della Capraia, a diecimila, a ventimila,
a nonsommila metri di quota.
Sì che ci doveva andare ; ora sì.
Terminati gli scali, Piero Ciampi voltò a sinistra per
pochi metri, costeggiando il bacino dei pescherecci sui
quali qualcuno ancora stava dentro a far chissà cosa;
e poi a destra, sul brevissimo ponte che menava a uno
dei tanti ingressi del porto, quello vero, quello che non
finisce mai. Quello dove aveva passato serate e notti, a
camminare e a bere, a guardare, a veder partire e arrivare
le navi chiedendosi da dove venissero e dove
andassero, a vedere i traghetti vomitare e inghiottire
automobili e camion, a guardare le navi militari lontane
alla fonda, a sentir parlare tutte le lingue del mondo. E
a scrivere canzoni, anche se magari con sé non aveva
neanche una matita e un foglio di carta. Se le scriveva
dentro, inframezzandole con strane parole inesistenti
che gli davano il ritmo del verso; a volte, gli capitava di
scordarne qualcuna. Sul ponte, il chiosco era aperto;
entrò dentro per riscaldarsi un attimo, e probabilmente
anche per investire un po' de' vaìni che gli restavano
in modo sicuro, come recitavano decine di tabelloni
pubblicitari sparsi per tutta la città. Si vede che tutti dovevano investire
in modo sicuro, in quel mondo là di venticinqu'anni
dopo; e fu così che chiese se avevano per caso un litro
di vino rosso, sempre da poco. Lui, d'investimenti sicuri, non ne voleva conoscere altri.
Il chiosco, che tutti così chiamavano anche se in effetti
era un piccolo bar in muratura, era stranamente affollato.
Di solito, si ricordava Piero, a quell'ora lì non c'era
mai nessuno, specialmente d'autunno e d'inverno; i
panini erano finiti, e anche se si potevano sempre far
fare, la mortadella e gli altri salumi in mostra nella
vetrinetta del bancone sembravano, dal loro aspetto,
essere stati ricavati da un velociraptor del giurassico
piuttosto che da un suino. Ma c'era una marea di
gente, di ragazzi. Tutti giovani, che se ne stavano lì a
bere e a parlare e che, soprattutto, avevano ammassato
addosso a una parete ogni sorta di strumenti
musicali. Chitarre, fisarmoniche, bassi, custodie con le
tastiere, flauti, ogni cosa. Piero Ciampi, dopo aver chiesto
la bottiglia, andò senza neanche pensarci verso la
parete, come a posare la sua chitarra assieme agli
strumenti dei ragazzi; fu solo dopo aver persino mormorato
uno " Scusate, ragazzi…posso… ? ", che si rese
conto di non avercela, la chitarra, e di averla lasciata a
riparare.
Gli rispose un giovane dalla capigliatura che definire
fluente sarebbe stato riduttivo. Non era una capigliatura: era una specie di foresta pluviale dove s'intrecciavano
liane, dove crescevano le rafflesiae arnoldii, dove
serpenti dai colori stranissimi strisciavano e s'avvolgevano
ai rami. Il suo accento non ne indicava chiaramente
la provenienza, anche se pareva genericamente settentrionale.
" Scusa…dicevi ? Puoi cosa… ? "
" No…scusa te, dé…è che anch'io ciò la 'itarra, ma l'ho portata
a raccomodà' e devo tornàlla a ripiglià' fra pòo…mi
sembrava ancora d'avèccela'on me… ", e nel dir questo
s'alzò diritto in tutta la sua statura, un metro e
novanta d'ossa secche, stampando un sorriso acuito
dal fatto che stava arrivando la bottiglia di vino.
" Ah, ho capito ", fece il ragazzo. " Allora suoni anche tu!
"
" Sì, mi piace suonare. "
" Io sono Andrea, piacere di conoscerti. "
" E io sono Piero, piacere mio, dé. "
" Oh, ti chiami anche tu Piero ! Ma vi chiamate tutti
Piero a Livorno ?… "
E giù una salva di risate nel chiosco, che coinvolsero
anche il barista.
" No, guarda, qui a Livorno s'ha anche
gente 'e si 'iama...fammi riordà... Carlazzèglio…! ", e giù ancora risate, e
si mise a ridere anche Piero Ciampi pensando a
quante volte gli era già capitato di ridere, in quel suo
primo giorno di Wiederbelebung. Di ridere, e ancora
non di piangere; nella sua prima vita non gli era capitato
spesso di viver delle giornate del genere.
" Scusa, non ti si voleva prendere in giro…è che siamo
qui tutti quanti a suonare e cantare per il premio
Ciampi. Ci vai anche tu, per caso ? "
Piero Ciampi ritenne urgentissimo bersi due bicchieri
di vino in fila, d'un fiato.
" Mòna dea Madòna, ti te ga' d'averghe se' ", fece un'altro
dei ragazzi, stavolta con un accento decisamente
veneto, guardandolo tracannare quei due bicchieri
come fossero d'acqua della cannella.
" Ostrega se ce l'ho ", rispose Piero. " Ce l'ho sempre.
Come Piero Ciampi." Era la prima volta che pronunciava il suo nome a voce alta.
Gli fece un effetto da non dirsi. Un effetto da bersi.
" Lo honosci te, Piero Ciampi ? ", gli chiese un altro ragazzo,
stavolta con accento fiorentino ; " O, gli è incredibile ",
disse un altro ragazzo ancora, con lo stesso accento, uno
con una faccia da fotomodello e du' bicipiti da spaccapietre in una cava. '' 'Sto Piero Ciampi 'e se lo rihordano
tutti pe i'vino, miha pe' le hanzoni ! "
" Scusa un attimo te…come ti 'iami, scusa ? "
" Luca. "
" Senti, Lùa…me la presti un seòndo una 'itarra… ? "
" Come no…subito ! "
Luca andò alla parete, frugando fra la congerie di strumenti
che vi erano accatastati : " Marco…Marco ! 'Ndo
hazzo tu l'ha messa l'ahustiha ? "
" O Luha, via…'un tu la vedi, l'è sotto quella di
Massimiliano… "
Gli aveva risposto un altro tipo, dall'aspetto serio e
completamente pelato, che se ne stava tranquillo al
bancone a bere una birra con la cannuccia; nel frattempo,
un altro ragazzo, l'ultimo di tutta la banda,
senza dir niente era andato anche lui alla parete e
aveva cavato fuori la fisarmonica dalla custodia.
Accarezzandola e basta.
A Piero, finalmente, arrivò in mano una chitarra; e
quella, sì che era una chitarra. La prese. La guardò.
In due secondi dovette ripassare trent'anni e rotti.
Dovette controllare se quella lunga pausa che gli era
toccato di passare non gli avesse cancellato tutto
quanto. Fece un accordo, poi un altro; provò a collegarne
un terzo, e un quarto. No, la muerte no acaba nada. Bevve un altro sorso di vino, e cominciò a cantare.
S'era aggiunta un'altra chitarra, suonata da Andrea
dalla foresta in testa.
" Visto che di Piero non si riòrda solo 'e beveva… ? "
" Cazzo se suoni e canti bene, tu. Sembri lui. "
" Non ti posso nimmanco dì' che me lo dicevano tutti."
Il fisarmonicista aveva continuato anche dopo la fine della canzone, quasi in trance. " Davide ! " Aveva parlato quello con l'accento veneto. " Davide, ma va' in mona ! Lè finìa !" Davide continuò a suonare, piano. Le luci si erano già accese, sul mare. Da un po'.
" E dai, Guido…lo sai home gli è i' Darmo… "
"Lo so… ", rispose Guido, sorridendo e ordinando una birra. Il barista stava coi gomiti appoggiati al bancone, e ascoltava.
" Senti…Piero, ti chiedo un favore ", disse ancora Guido il veneto. " La conosci, di Ciampi, Cristo fra i chitarristi ? "
" Come no. ", rispose Piero tirando una fiatata che cominciava a farsi sentire.
" E allora cantamela, per favore. E' per un mio compagno che non ci può essere."
Piero credette di capire bene il motivo per cui quel suo compagno non ci poteva essere, dallo sguardo che Guido aveva fatto. Chiese soltanto :
" Come si chiama quel tuo amico ? "
" Elia. "
" Allora la canto per Elia. Vieni, te", disse al fisarmonicista; "Accompagnami alla fisa. "
Fuori dal chiosco, s'era cominciato a fermare qualcuno.
" Visto che di Piero non si riòrda solo 'e beveva… ? "
" Cazzo se suoni e canti bene, tu. Sembri lui. "
" Non ti posso nimmanco dì' che me lo dicevano tutti."
Il fisarmonicista aveva continuato anche dopo la fine della canzone, quasi in trance. " Davide ! " Aveva parlato quello con l'accento veneto. " Davide, ma va' in mona ! Lè finìa !" Davide continuò a suonare, piano. Le luci si erano già accese, sul mare. Da un po'.
" E dai, Guido…lo sai home gli è i' Darmo… "
"Lo so… ", rispose Guido, sorridendo e ordinando una birra. Il barista stava coi gomiti appoggiati al bancone, e ascoltava.
" Senti…Piero, ti chiedo un favore ", disse ancora Guido il veneto. " La conosci, di Ciampi, Cristo fra i chitarristi ? "
" Come no. ", rispose Piero tirando una fiatata che cominciava a farsi sentire.
" E allora cantamela, per favore. E' per un mio compagno che non ci può essere."
Piero credette di capire bene il motivo per cui quel suo compagno non ci poteva essere, dallo sguardo che Guido aveva fatto. Chiese soltanto :
" Come si chiama quel tuo amico ? "
" Elia. "
" Allora la canto per Elia. Vieni, te", disse al fisarmonicista; "Accompagnami alla fisa. "
Fuori dal chiosco, s'era cominciato a fermare qualcuno.
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