martedì 31 dicembre 2013
Variazioni sul tema
a) BUON ANNO UOVO
(Nella foto: Fare per fermare il cretino)
b) BUON ANO NUOVO
c) BUON ZANNO NUOVO
d) BUON ARNO NUOVO
e) BUON DANNO NUOVO
lunedì 30 dicembre 2013
Differenze di fine anno
Fuoripista n° 1
Calzolari Michele, corridore automobilistico
Forza campione, Devi vincere la battaglia più difficile, Vincerai questa gara, Tutto er mondo è con téne (ahò), Messaggi di Napolitano, Tifosi in apprensione, E lui gioca a tennis, E lui scia, E lui va in barca, E lui gioca a pallone, E lui fa er friclàimbin, Coccodrilli dei giornali già pronti in 325 lingue, Messe di intercessione, Twittate planetarie & 700 gruppi Facebbòcche già aperti "Forza Calzolari".
Fuoripista n° 2
Pinzauti Gualtiero, testadicazzo qualsiasi
Stolto imprudente, E ci sono i cartelli, Assassino maledetto devi stiantà, E ti s'era detto che er foripista nun lo devi fà ché ti cascano addosso trecentomila tonnellate di neve, Te dovrebbero mannà er conto a casa pe' tutte le spese der soccorso, Brutto merdone così impari, La leggerezza in montagna costa cara, o fàllo er foripista ora, Nun sapevi manco fà lo spazzaneve.
Ora però si vòle lo sciatore che si stianta in macchina. Sennò unn'è giusto.
Bonanno!
lunedì 23 dicembre 2013
La carta d'identità
La fila cominciava poco
prima dell'angolo tra la via Georgiou e il corso Lambrakis; ed era
proprio quel Lambrakis, il deputato socialista ammazzato dai fascisti
nel '62, quello di “Z-L'orgia del potere”. A quell'ora, verso le
nove della sera del ventiquattro dicembre, la coda non solo non
accennava a diminuire, ma si era addirittura ingrossata. Del resto,
da giorni e giorni tutte le principali piazze e strade del Pireo
erano state tappezzate di manifesti con quel simbolo inconfondibile,
il Meandro di Alba Dorata, e la bandiera ellenica: Grande
distribuzione gratuita di cibo, giocattoli e farmaci di prima
necessità per i bisognosi Greci – Un Natale Greco per i Greci
cristiani – Alba Dorata aiuta la Patria in difficoltà. Nei
manifesti, in caratteri notevolmente più piccoli, era contenuta la
condizione necessaria per il Natale greco dei Greci cristiani: la
presentazione della carta d'identità. Il documento che attestasse la
cittadinanza greca e il nome greco. Fin dalle dieci del mattino, di
fronte alla chiesa dell'Evangelistria, erano stati sistemati quindici
banchi contenenti ogni bendiddìo accumulato dai militanti
albadoristi per la distribuzione natalizia; una fila enorme e
ordinata di persone, uomini e donne di tutte le età, che si svolgeva
per tutto il lunghissimo corso Lambrakis, aveva atteso pazientemente
il proprio turno per ritirare ciò di cui aveva bisogno presentando
la carta d'identità, il deltio taftòtitas;
e bisogno c'era di tutto. C'era un silenzio apparente; ma, chi si
fosse avvicinato alla fila soltanto per curiosità, avrebbe sentito
ognuno parlare sottovoce al vicino di coda, e qualcuno fra sé e sé.
Tutti avevano da dire qualcosa senza che nessuno gliela avesse
chiesta, e ognuno sembrava provare un desiderio irrefrenabile di
giustificarsi. Chi aveva sempre votato per il Pasok, chi non s'era
mai interessato di politica, chi si era visto sbattere fuori dal
posto di lavoro da un giorno all'altro; chi non aveva mai lavorato,
chi aveva quattro figli di cui due piccoli, chi aveva fame. Chi io
non sono razzista però, chi ci rubano il lavoro e il mangiare, chi
se ne tornino tutti a casa loro. Chi, infine, non li ho mai votati ma
stavolta; chi loro almeno fanno qualcosa; e chi si vergognava
semplicemente di stare in quella fila umiliante, di poveri, di vecchi
e banali benesseri fracassati, di che altro potevo fare. Ai banchi,
giovanotti muscolosi e qualche bella ragazza con indosso dei
giubbotti neri nella fredda serata dicembrina; a Atene non si creda
che faccia caldo, sotto Natale.
Era
arrivato, quell'uomo un po' strano, alle nove e trentacinque.
Intabarrato in un cappotto grigio che aveva visto tempi migliori, con
un cappello floscio che doveva essere stato nuovo cinquant'anni
prima, dei pantaloni di fustagno marrone e un paio di scarpe da
ginnastica tendenzialmente bianche, sebbene qua e là. Sotto il
cappotto aveva un maglione grigio a girocollo, sotto il quale, in
alto, si notava una specie di rigonfio; con tutta probabilità si
trattava di una sciarpa tenuta completamente sotto l'indumento. Era
un uomo parecchio anziano, dalla carnagione piuttosto scura; aveva,
però, una barba disordinata ma bianchissima. Le mani erano
screpolate, callose e grinze come quelle di chi avesse per tutta la
vita fatto un ruvido mestiere di fatica; ma erano coperte da dei
guanti di lana senza dita. Fumava una sigaretta puzzolente e mezza
rincignata, forse raccattata per terra da qualcuno che la aveva
gettata via appena accesa. Non aveva borse o altri contenitori, ma le
tasche del cappotto erano piene di roba imprecisata.
Quando
era arrivato, l'ultima della fila, che avrebbe dovuto aspettare
ancora ore per ricevere gli aiuti di Alba Dorata presentando la carta
d'identità greca, era una donna sui cinquant'anni, piuttosto alta e
bella dritta su se stessa; si chiamava Samaritha Kalitsounaki, e era
arrivata a Atene nel '71, ancora bambina, da Porto Heli nell'Argolide
assieme alla sua famiglia. Era stata per qualche tempo commessa in un
negozio di articoli sportivi, poi aveva lavorato in una tabaccheria
ben fornita nella via Kanellopoulou, sempre al Pireo ma dall'altra
parte del Porto. Nel '79, quando aveva sedici anni, era stata
violentata dal suo primo grande amore, un ragazzo di diciannove anni
di Drapetsona, di nome Mihalis; ma non lo aveva mai saputo nessuno.
Del resto, fortunatamente, non era rimasta incinta e questo era già
tanto; pensare che lo aveva fregato alla sua migliore amica, la
Diamandina Pesmazoglou, che gli sbavava dietro. Nell'86 si era
sposata con un trentaduenne dell'Akti, tale Vassilis Ventouris, che
le aveva promesso la classica vita tranquilla e senza problemi; e lei
si era lasciata sposare nonostante il marito fosse decisamente brutto
come la fame. Dopo due anni di gelosia ossessiva e di botte,
Samaritha se n'era andata via di casa con un marmocchio di otto mesi,
di nome Efstathios, ché così si chiamava il nonno paterno.
Efstathios era ora un giovanotto di ventisei anni, che non aveva mai
lavorato e che, all'insaputa della madre, era diventato una specie di
picchiatore in un partito di estrema destra che è stato già
nominato qui, di assoluta sfuggita. Quanto a Samaritha, di lavori ne
aveva fatti parecchi prima che la ditta di import-export nella quale
lavorava ultimamente fosse stata, più che costretta a chiudere,
spazzata via. Una mattina era andata a lavorare e non aveva trovato
più nemmeno la targa sul portone; da cinque mesi, del resto, non
vedeva un soldo e aveva campato di espedienti.
“Niente
incertezze. Niente incertezze. Niente incertezze.” Pensava questo
il vecchio, prima di decidersi a aprire bocca. Poteva, naturalmente,
stare zitto; ma era meglio esercitarsi a parlare. Nessuno lo avrebbe
mai detto, ma nella sua vita aveva parlato molte lingue diverse da
quella materna; aveva viaggiato per tutto il Mediterraneo, e in
Grecia non si ricordava nemmeno come c'era arrivato. Per un lavoro,
forse; un giorno era passato di casa e aveva detto alla giovane
moglie, che sarà stata la sua sesta o settima, di fare i bagagli e
di partire con lui. Sì che era per un lavoro; si era portato dietro
un po' di attrezzi, che gli altri occorrenti li avrebbe trovati lì.
Era andata a finire che, lavorando come un mulo, il greco lo aveva
imparato alla svelta, e molto bene; ma un greco di merda, da
bassifondi, con qualche preziosismo della “lingua pura” usato a
sproposito e quintali scomposti di laikì, di kaliardà e di altri
gerghi della strada. Ultimamente, da quando gli avevano detto che al
Pireo si parla già diverso che nel resto di Atene, si era sforzato
di prendere l'accento per diventare davvero uno della zona; e la zona
dove si era sistemato con la moglie era un bel cumulo di rovine, ma
che non avevano nulla a che vedere con l'Acropoli. Stava in una
stradaccia con un nome qualsiasi dietro l'Akti Koundouriotou, che
dopo qualche anno di crisi pareva
fosse stata bombardata; avevano trovato un fondo vuoto, che doveva
essere stato di un qualche negozio di qualche cosa inutile, e ci si
erano infilati dentro. Il bandone non c'era più; con dei pezzi di
legno e altri rottami trovati in una discarica, visto che il suo
mestiere lo sapeva fare, aveva messo su una specie di porta-finestra
e poi aveva cominciato a fare il falegname ambulante per pochi soldi.
Il lavoro per il quale era arrivato in Grecia? Due giorni dopo
l'arrivo si era presentato all'indirizzo che gli avevano dato e ci
aveva trovato la Polizia che stava sgomberando a forza della gente,
mentre dalle finestre sopra la gente stava buttando sotto di tutto.
Un poliziotto, a un certo punto, era stato centrato in pieno da un
bidé; un altro, per non essere da meno, aveva ricevuto sul casco una
pesante riproduzione in acciaio temperato della Coppa Europa di
calcio vinta dalla Grecia nel 2004, finale Grecia-Portogallo 1-0,
goal di Charisteas al 12' del secondo tempo. Aveva capito subito che
aria tirava.
La
strada era formata da qualche palazzo molto alto che cadeva a pezzi;
tra i palazzi, però, erano rimaste delle case più basse, alcune
delle quali solo col pianterreno. C'erano parecchi terreni incolti,
quelli che i francesi chiamano terrains vagues,
dove presto erano venute su delle baracche insolite. Quanto alla
fauna che ci viveva, era la crema, l'élite del lastrico di questi
anni: poveracci, straccioni, emarginati, accattoni che facevano a
gara di tare e di storie schifose. Avanzi di galera, buoni a nulla e,
chiaramente, immigrati da paesi che potevano stare anche su Marte
tanto erano fuori dal mondo. Il nome della strada proprio non me lo
ricordo; tanto è inutile. Nel quartiere, comunque, nessuno la
chiamava col suo nome ufficiale, ché tanto la targa stradale era
stata divelta chissà quando; la chiamavano tutti Pachni,
che in greco vuol dire “Mangiatoia”. E così la chiameremo pure
noi; inutile dire che nella zona dell'Akti Koundouriotou, che pure
non scoppiava di ricchezza, dire di venire dalla Mangiatoia era
sinonimo di miseria nera. In uno dei terreni incolti qualcuno aveva
sistemato persino due o tre pecore smagrite; in un altro, peraltro
vicino al fondo dove abitavano il falegname straniero e la moglie,
c'erano invece un asino e un bue, che tutti si domandavano come mai
ancora qualcuno non se li fosse mangiati. Ma anche loro erano pelle e
ossa.
La
vigilia di Natale, girando per le strade, il vecchio aveva letto i
manifesti di Alba Dorata. Il fatto è che, qualche mese prima, aveva
combinato un bel casino con la moglie; vecchio sì, ma ancora bello
in gamba in certe cosine, la aveva messa incinta. Di figlioli, a dire
il vero, ancora non ne avevano avuti sebbene al suo paese ne avesse
una masnada dalle mogli precedenti, e anche un paio da legittime
spose altrui. Un figliolo alla sua età, si era detto, era una
benedizione dal Cielo; però non aveva scelto né il momento e né il
posto più adatto. Ora la moglie stava per sgravare, e in casa non
c'era nulla; certo, quelli là oramai li conosceva bene e sapeva
anche cosa avevano fatto al suo amico pakistano e a decine di altri
come lui. Però doveva tentare. Senza dire nulla alla moglie, era
tornato a casa e aveva detto alla moglie che sarebbe tornato molto
tardi; assieme a lei c'era una vicina di casa greca, una ex
prostituta di settant'anni di nome Elettra, che le stava preparando
una zuppa di non si sa cosa -ed è meglio non saperlo.
I
manifesti parlavano estremamente chiaro: greci e con carta d'identità
greca. E greco non era proprio, il vecchio, nonostante un po' di
greco lo avesse imparato già da ragazzo al suo paese. Il greco era
lingua diffusa e di gran prestigio. Si chiamava Yosef ben Eliyahu e
veniva dalla Palestina, da un paese con un nome strano che, mi
sembra, comincia per “N”; la moglie, invece, si chiamava Maryam.
Correvano strane voci su quella ragazza; alcuni dicevano persino che
l'avesse vinta a una specie di lotteria, dato che non si capiva come
mai una ragazza così giovane e bella si fosse impuntata per sposare
un uomo di quell'età. Tant'è; si erano sposati, e siccome durante
la cerimonia aveva giurato dinanzi a Dio (non uno qualsiasi) di
seguire il marito nella cattiva e nella cattiva sorte, e dovunque, da
quel paese palestinese che comincia per “N” si erano ritrovati
nella Mangiatoia al Pireo, mentre la Grecia affondava e Dio c'era sì,
ma parlava soltanto il greco e si era visto rilasciare anche lui una
regolare carta d'identità ad usum Albae Auratae. Yosef, invece, se
la doveva procurare; e ci doveva pensare alla svelta.
La
cosa era stata risolta grazie a quel delinquente di Christos.
Christos era un altro della Mangiatoia, un ex tipografo che aveva
stabilito un record difficilmente battibile. La Crisi era cominciata
da due ore circa, che lui era stato uno dei primi ad essere
licenziato dal posto dove lavorava; in realtà era stata tutta una
scusa, dato che Christos, in tipografia, rubava da secoli tutto quel
che c'era da rubare: carta, inchiostri, toner, detersivi dal bagno,
birre dal frigorifero. Ricevuta la comunicazione dal direttore, che
lo aveva mandato in culo dandogli del ladro fottuto e augurandogli di
crepare di fame, Christos era tornato nottetempo con un paio di amici
e aveva svuotato la tipografia di tutti i macchinari, trasportandoli
in un posticino che conosceva lui e basta; si era messo quindi a
realizzare il sogno della sua vita, quello di falsificare il
falsificabile e di metterlo a gentile disposizione di chi ne avesse
bisogno. Facendosi pagare un occhio della testa, naturalmente; però,
a modo suo, si mostrava anche generoso. Una carta d'identità falsa,
fatta a regola d'arte, costava duecento euro; ma se gli stavi
simpatico, si poteva ovviare con due o tre serque di uova, con un
lavoro a gratis, con una trombatina alla moglie. Non si sa bene cosa
gli avesse promesso Yosef, posto che di uova non ne aveva. Christos
aveva detto a Yosef di portare una fototessera, e di tornare alle due
del pomeriggio; e alle due gli aveva consegnato una perfetta carta
d'identità ellenica a nome di Iosifos Iliopoulos, nato a Rethymnon
(Creta) il 17 novembre 1928 e residente al Pireo, via Qualcosa n°
92, statura m 1,73, peso kg 64, segni particolari nessuno, di
religione ortodossa e di professione artigiano. Come cazzo avesse
fatto a mettere tutti i timbri e le marche da bollo con la dea greca,
non si sa. Yosef era esterrefatto.
"Senti,
ma perché sarei nato a Creta...?"
"Demente,
ma ti sei visto? Hai la faccia di un palestinese, e più che altro
sei scuro come un palestinese. Ti dovevo scrivere che eri nato a
Stoccolma...?
"E
Creta che c'entra?"
"A
Creta sono parecchio più scuri che qui, gamotò. Ho conosciuto uno
di Rethymnon che era scuro come te, magari era tuo nonno..."
Christos
si mise a ridere sguaiatamente, poi continuò:
"Ascolta,
con questa qui, dammi retta, sei un cretese perfetto oltre che un
cretino, perché solo un cretino ingravida la moglie sotto questi
bei chiardiluna. Alla tua età poi ne potevi anche fare a meno,
anche se ti capisco con quel bel pezzo di....lasciamo perdere, vah.
Però una cosa te la consiglio: se vuoi andare a prendere la roba da
quei pezzi di merda, comunque, vacci a buio, stasera. Tanto sai che
te ne frega del Natale a te, te lo dice uno che si chiama Christos;
ma a proposito, te di che religione sei per davvero?.."
"Boh,
me ne sono dimenticato. Però ci ho il cazzo conciato strano, ho un
certo sospetto..."
"Allora
vacci a buio il doppio, a quelli piacciono poco i monsummani
o come si chiamano, ma mi sa che non gli vadano a genio tanto
nemmeno gli ebrei. Col buio la tua carnagione si nota di meno.
Menomale che parli il greco come se tu fossi nato qui, questo è un
bel vantaggio. Tanti auguri, vecchiaccio, ma stai attento; se ti
riconoscono e si accorgono che hai fatto il furbo, sono cazzi tuoi."
"Lo
so, lo so. E li protegge anche la polizia."
"Io
quel che potevo fare l'ho fatto. Ma tua moglie a che punto è con la
pancia?"
"Ha
finito il tempo il venti, potrebbe scodellarlo da un momento
all'altro..."
"E'
un maschio?"
"Secondo
te ci ho i soldi per andare all'ospedale privatizzato e farle fare
la morfologica? Sarà quel che sarà..."
"Se
è maschio come lo chiamate?"
"Mah,
a me sarebbe piaciuto chiamarlo come te, sai. Te lo giuro. Il tuo
nome mi piace parecchio, ma lei vuole chiamarlo diverso. Un cavolo
di nome che a me piace zero..."
"Sarebbe?.."
"Iesous."
"Iecosa?... E
che minchia di nome è...??"
"Si
chiamava così un suo zio materno che la faceva giocare da bimba. A
dire il vero nella lingua nostra suona un po' differente, ma qui mi
sono impuntato. Voglio la forma greca, ora come ora qui non è bene
chiamarsi da immigrato..."
"Capisco,
capisco. Certo che è un nome bello strano, io non l'ho mai sentito
in Grecia. Vabbè, bando alle ciance. Stai in campana, Yosef, anzi
Iosifos. Iosifos Iliopoulos, ricorda."
"Me
ne ricordo, tranquillo. Ci vado verso le nove di stasera."
"Bravo.
E vacci vestito ammodino, ché Dio ti vede!"
Christos
si mise di nuovo a sghignazzare sguaiatamente, mentre Yosif, anzi
Iosifos, si allontanava. Ora stava in coda tra la Georgiou e il corso
Lambrakis; faceva un freddo da pelare e continuava a ripetersi fra
sé: “Niente incertezze. Niente incertezze”. Fu la donna che lo
precedeva a attaccare bottone, all'improvviso; sembrava averci una
gran voglia di parlare, a bassa voce.
“Freddo
eh.”
Iosifos
alzò leggermente la testa; prima di rispondere, sempre a bassa voce,
si controllò automaticamente la tasca sinistra del cappotto. La
carta d'identità era lì, e quel demonio di Christos la aveva pure
plastificata a dovere. Un gioiellino; era diventato greco cristiano
in due ore, e senza pagare in uova. Ogni tanto, per la strada, si
vedeva qualche giovanotto di Alba Dorata che controllava la coda
interminabile; qua e là passavano anche dei tipi in motocicletta,
con dei caschi che non promettevano nulla di buono.
“Fa
freddo sì, signora. Siamo il ventiquattro di dicembre.”
“Già.
Buon Natale.”
A
questo Iosifos non si era preparato. Di natali ne aveva già passati
qualcuno in Grecia; solo che, alla Mangiatoia, non andava
particolarmente farsi gli auguri. Non si facevano né l'albero e né
i regali. Il ventiquattro c'era la stessa miseria del venticinque, e
il ventisei ce n'era ancora di più. Si trovò subito a biascicare:
“B...buon
Natale a lei signora. Kalà Christoùyena.”
Non
poté fare a meno di pensare che Christoùyena significa
“nascita di Christos” e si ritoccò la tasca sinistra.
“Anche
lei in fila, eh.”
“Già.”
“E
non si vede la fine...”
“La
fine è alla chiesa dell'Evangelistria, credo.”
“Lo
sa quanto c'è alla chiesa?”
“No...”
“Due
chilometri. 'Sto cazzo di corso non finisce più.”
“Prima
o poi ci toccherà, signora...”
“Speriamo.
Lei vota per loro?”
Iosifos
deglutì. Doveva scegliere alla svelta se fare il poveraccio che
aveva votato per il Pasok, o addirittura per i comunisti, se
proclamarsi apolitico o se essere diventato nel giro di poche ore
prima greco e poi fascista. Optò per la terza ipotesi.
“Signora,
voto per loro. Non mi vergogno a dirlo. Anzi!”
Aveva,
senza essersene accorto, alzato un po' la voce. Qualcuno più avanti
nella fila si voltò senza dire nulla; altri fecero finta di non
avere sentito. Iosifos continuò:
“Voto
per loro ma votavo per Nuova Democrazia quando stavo a Creta...”
“Ah,
viene da Creta”, disse la signora. “Nemmeno io sono di qui. Vengo
dall'Argolide.”
“Bel
posto, l'Argolide”, rispose Iosifos che non sapeva nemmeno dov'era,
l'Argolide. La signora Kalitsounaki sorrise.
“Io
non ho mai votato per loro, ma lei non si deve vergognare. Non è
detto che non lo faccia anch'io alle prossime elezioni, perdiana.
Certo che a Creta siete tutti belli scuri di pelle...ci picchia forte
laggiù, eh!”
Si
intromise un giovane magrissimo, che li precedeva di tre posti nella
fila; anche lui sottovoce, ma tutto sembrava come amplificato.
“Io
invece mi vergogno eccome, cari miei. Come un ladro. Ma non c'è più
nulla in casa mia, accidenti alla puttana dell'eva. Tutti sulla
stessa barca, se la roba la dava Pol Pot ero in fila lo stesso.”
La
fila avanzava lentissima; erano quasi le dieci, quando riuscirono
finalmente a passare l'angolo della Georgiou e a svoltare sul
marciapiede del corso Lambrakis. La coda era impressionante; si
cominciava a sentire qualche campana, forse per fare le prove per la
messa. A Iosifos prese la voglia di piantare tutto quanto e di
tornarsene a casa; Maryam, del resto, poteva partorire da un momento
all'altro. Maledizione. Sarebbe tornato a casa in tempo, magari, per
vedere nascere suo figlio; ma in casa non c'era più nemmeno una
briciola di pane. Non poteva andarsene. Tanto, la carta d'identità
la aveva; era tutto al sicuro. Lui era Iosifos Iliopoulos, fascista
cretese. Uno dei loro.
“Io
manco per il cazzo ero in fila da Pol Pot”, disse Iosifos al
giovane. “Io sto coi miei, con la Patria greca in difficoltà.
Contro quei musi neri che ci rubano il pane e il lavoro...ma loro
sanno come trattarli!”
“Nonno,
non mi sembri particolarmente chiaro, tu!”
Aveva
parlato un altro ragazzo, coi capelli cortissimi; Iosifos si sentì
raggelare.
“Certo
che voi cretesi ci credo che ce l'avevate coi turchi nel '21! Siete
uguali!”
Dalla
fila partì una salva di risate, mentre la fila avanzava lenta ma
costante; Iosifos cominciò a sentirsi come ubriaco, e pensare che
non toccava un goccio da giorni.
“Bella
battuta, bravo! Ma noi cretesi siamo l'anima della Grecia, voi qui a
Atene eravate un branco di selvaggi, allora! Ma siamo tutti greci,
fratelli, la Patria è nostra e sappiamo cosa fare!”
Successe
a quel punto una cosa parecchio inattesa. Proprio in quel momento la
coda cominciò a avanzare molto più rapidamente, senza nessun motivo
apparente; la signora Samaritha disse al vecchio: “O stai a vedere
che hanno finito la roba e succede casino”. Tutti sembravano
camminare a passo normale ora, come in una processione di spettri sul
marciapiede d'una grande città; avevano smesso di parlare. Erano i
poveri, gli sfrattati, i diseredati, i buttati fuori, i piccoli
borghesi morti dentro, i nipoti del partigiano, i tifosi
dell'Olympiakos, le studentesse senza mangiare ma col telefonino, gli
impiegati della televisione ammazzata, quelli che il ventuno aprile
si erano girati dall'altra parte, quelli che il ventuno aprile li
avevano rinchiusi nell'ippodromo di Nea Faliro che è pure lì
vicino, quelli che il ventuno aprile non erano manco nati, i precari
mangiaerbe, i pensionati senza pensione, un paio di anarchici e forse
anche tre, i vergognosi, gli orgogliosi, gli ex volontari delle
Olimpiadi, sedici fannulloni inveterati, un cantante fallito, Mikis
Theodorakis, diversi insegnanti che avevano insegnato i valori della
democrazia, diversi insegnanti che non insegnavano un bel nulla,
un'intera squadra amatoriale di pallacanestro, otto preti poco
ortodossi, un numero imprecisato di bambini e bambine e la signora
Samaritha che sembrava sostenere il vecchio Iosifos che la seguiva.
Tutti con la loro carta d'identità ellenica. Non si vedeva neanche
un negro, nel corso Lambrakis. Neanche un indiano. Nulla. Era una
strada greca nel Natale greco.
“Tranquilli!
E' arrivata ancora roba!”
Aveva
parlato un giovanotto gigantesco, vestito col giubbotto nero, da un
motorino scassato che era passato di lì.
“Tu,
vecchio, vieni qui, ché ti voglio abbracciare!”
Iosifos
non si era reso conto che il giovanotto stava parlando proprio a lui;
quest'ultimo, allora, scese dal motorino proprio mentre la fila era
arrivata, velocemente, quasi al capolinea. Vicinissimi si vedevano i
banchi coi militanti, davanti alla chiesa dell'Evangelistria, mentre
le campane cominciavano a suonare a distesa e un'altra fila di
persone, vestite da festa, entrava dentro per la messa. I banchi
erano davvero pieni di ogni cosa; militanti albadoristi
indaffaratissimi confezionavano sacchetti e li davano alla gente che
passava davanti esibendo la carta d'identità sfilando poi via chi a
testa bassa, chi a testa alta e chi senza testa. Degli altoparlanti
diffondevano ora canzoni patriottiche, ora inni sacri della
tradizione.
“Dico
a te, vecchio. Ti ho sentito prima, sai. Ti voglio abbracciare per
questo, camerata!”
Iosifos
si toccò per l'ennesima volta la tasca sinistra. Il giovanotto si
avvicinò, e lo abbracciò convinto. Un vero greco che non si
vergognava, finalmente. Magari un povero lavoratore cui quei
maledetti immigrati aveva rubato il lavoro o la pensione, costretto a
far la fila la notte di Natale per avere qualcosa da mangiare. Ma
tutti oramai sapevano quale fine avrebbero fatto, con l'Alba Dorata
al potere. Nell'abbraccio di quel marcantonio al povero vecchio, dal
collo del maglione spuntò fuori qualcosa. La sciarpa. Aveva degli
strani peneri. Giusto giusto quando la signora Samaritha era stata
servita e si era allontanata con la sua carta d'identità di greca
cristiana, e com'è bello essere cristiani quando Cristo sta nascendo
e suonano le campane a distesa. Magari avrebbe fatto pure un salto
alla messa, e domani ci sarebbe stato qualcosa da mettere sotto i
denti per lei e anche per quello di Pol Pot.
“Ma
cos'è questo?”
“La
mia sciarpa...”
Il
ragazzo cominciò a tirargliela fuori, la sciarpa, al vecchio; a
grandi manciate. Ne venne fuori una bella keffiah palestinese, bianca
e rossa, da combattimento. Yosef se l'era fatta fare a N. da un suo
amico arabo, un bravissimo tessitore che in quel momento stava pure
lui in coda, da diciotto ore, a un valico tra Israele e i territori,
aspettando di poter passare per tornare a casa. Naturalmente Yosef
non lo sapeva.
Una
ragazza al banco della roba, anche lei col giubbotto e biondissima,
disse a Yosef mentre il ragazzo suo camerata guardava la keffiah:
“Me
la fai vedere la carta d'identità, tu?”
Yosef
tirò fuori dalla tasca sinistra la carta d'identità di Iosifos
Iliopoulos, nato a Rethymnon (Creta) eccetera.
“Ma
guarda tu!”, disse la ragazza. “Sono anch'io di Rethymnon, lo
sai?”
“Incredibile!”,
rispose Yosef con una specie di sorriso mentre gli era venuta la
pelle d'oca.
“Già,
incredibile. Dove stavi a Rethymnon?”
“Ci
manco da anni oramai...”
“Sì,
Iosifos caro, ma ti ricorderai dove abitavi, no?”
“In
via....in via Agiou Nikolaou.”
“Via
Agiou Nikolaou a Rethymnon non c'è.”
“Mi
sarò sbagliato...forse era Agiou Mihali...”
“Non
c'è nemmeno Agiou Mihali, bello. E 'sta carta d'identità è falsa.”
“Come
falsa...? Ma che cazzo dici, tu...?”
“E'
falsa perché è firmata col nome del sindaco di Salonicco. La hai
mai vista una carta d'identità di un comune firmata dal sindaco di
un altro comune? Io no.”
Attorno
si era fatto il silenzio e il gelo.
Fanculo
a Christos. Doveva averci uno stock di firme di sindaci e si era
sbagliato. E lui era fregato. Era finita. Telos. Il ragazzo che lo
aveva abbracciato con tanto entusiasmo stava calpestando la keffiah
sotto gli anfibi, mentre si sentivano provenire dalla chiesa i cori
da dietro l'iconostasi: “Brutto arabo di merda, schifoso, lurido
verme! Ci volevi fregare, eh! Di Creta, eh!?! Ecco perché ci hai
quel muso scuro da latrina! Ora te lo diamo noi un bel po' da
mangiare!”
Yosef
fu circondato in due secondi da dieci energumeni, mentre alla sua
keffiah veniva dato fuoco. La sua carta d'identità era stata gettata
pure nelle fiamme; aveva cessato di essere greco, di essere cristiano
e anche di essere vivo.
Alla
Mangiatoia, la Elettra aveva prima cominciato a sentire Maryam
lamentarsi e non sapeva cosa fare; di tutto aveva fatto nella sua
vita, fuorché la levatrice. Nonostante il suo mestiere, di figli non
ne aveva avuti anche perché s'era fatta chiudere le tube da ragazza;
ma tutto s'impara alla svelta, quando occorre. Bisognava, forse,
chiamare un'ambulanza; e con cosa la si pagava, poi? Di ambulanze
pubbliche dell'ospedale manco a parlarne, anche perché l'ospedale
vicino, a ripensarci, non era più pubblico. Quelle private costavano
carissime. Nel fondo alla Mangiatoia faceva un freddo boia mentre
Maryam aveva rotto le acque; si sentì un raglio dal terreno vicino.
“Cazzo,
l'asino...e il bue! Porca troia, magari se li porto dentro, con il
fiato e con la merda fanno un po' di caldo...”, pensò l'Elettra; e
corse fuori a prendere i due animali, spalancando la porta-finestra e
facendoli entrare dentro. Maryam era stranamente tranquilla; era
sicura che Yosef sarebbe tornato da un momento all'altro per vedere
nascere suo figlio, magari rimediando anche qualcosa da mangiare e
una coperta. Da un momento all'altro. Spuntò un testolina.
Il
primo cazzotto prese Yosef spezzandogli una costola, mentre
proseguiva la distribuzione del cibo ai greci; lui non era più
greco, era un morto. Al secondo cazzotto partì un'altra costola,
mentre sentì arrivarsi qualcosa sulla testa. Al terzo colpo caddè
per terra fra gli sputi; al quarto sentì un calcio nei coglioni, ché
tanto suo figlio ormai era nato di sicuro e avevano assolto al loro
compito naturale. Al quinto colpo sentì due raffiche di mitra e vide
cascare a terra in una pozza di sangue il ragazzo di Alba Dorata che
lo aveva scoperto, e anche la ragazza pura cretese di Rethymnon. I
colpi erano tutt'altro che cessati, e si vedevano due automobili ferme con tre
persone che continuavano a sparare mentre la gente scappava da tutte
le parti, chi abbandonando sacchettate di roba, chi arraffandone a
più non posso. A terra c'erano otto fascisti, mentre gli altri erano
scappati in chiesa; si sentivano urla dappertutto e, più in là,
altri cadaveri col giubbotto nero. Le due automobili erano ripartite,
nel frattempo, a velocità folle. Yosef si rialzò sanguinante; era
mezzanotte in punto. Nella confusione, raccolse tre sacchetti di
roba; uno era pieno di latte in polvere multinazionale. Correre.
Anche se non ce la faceva. Correre. Correre a casa, mentre nel cielo
splendeva una luce.
Arrivò
alla Mangiatoia trafelato e ridotto a un ecce homo. Coi suoi
sacchetti ridotti a ecce sacchetti, ma la roba ancora era là dentro.
Erano quasi le una di notte.
Maryam
era distesa sul pagliericcio, vicino alla cucina economica e alla
bombola del gas dalla quale il gas mancava da dodici giorni.
Sorrideva, con un marmocchio sulla pancia; l'Elettra era seduta,
sporca come una fogna; per terra, liquidi, pezzi di placenta, ogni
cosa. Il bambino era bellissimo e dava lievissimi vagiti; ci aveva
pure un bel pisellino. Maryam non parlava.
“Ce
l'hai fatta a tornare a casa, tu”, disse l'Elettra leggermente
incazzata. “E ti sei anche perso la nascita di tuo figlio,
stronzo.”
“Sì,
però ho portato a casa tre sacchettate di roba...”
“E
dove le hai prese?”
“Non
te lo dico.”
“Non
sarai mica...?”
“Andato
a rubarle, dici?”
“Se
tu le avessi rubate avresti fatto benissimo. Io dicevo...non sarai
mica andato da quei merdosi...?”
“Dici
quelli di Alba Dorata? Ma sei ammattita? Secondo te danno la roba a
un ebreo palestinese?...”
“Appunto...”
“Ma
com'è che ti sei conciato così? Sei ferito!”
“Sono
stato preso da una macchina qui vicino...”
Non
disse più niente, Yosef. Corse dalla moglie e dal bambino. Da
Iesous, con quel nome un po' a bischero, di sicuro; ma così era
stato deciso. Maryam non parlava, e quel suo non dir nulla era un
misto di felicità e di pugni al cielo. Un po' più in là stavano
portando via dodici cadaveri di militanti di Alba Dorata ammazzati,
secondo il referto che qualcuno avrebbe stilato sicuramente, da
svariate raffiche di tre diversi mitra. La roba sui banchi era
scomparsa, così come quella abbandonata a terra nel fuggi-fuggi
generale; le prime agenzie internazionali stavano passando con la
notizia della strage di Natale al Pireo. Nel cielo brillava,
inesorabile, il raggio laser proveniente dalla discoteca “Comet”,
da poco aperta vicino allo stadio Karaiskaki.
domenica 22 dicembre 2013
Il tafferuglio esteriore
Mi sono sempre chiesto come facciano a rimanere "feriti" così in abbondanza. In Valsusa, a Milano, a Firenze, da tutte le parti. C'è qualcosa che non funziona. I fabbricanti e i fornitori dovrebbero essere avvertiti e severamente redarguiti, eccheccazzo.
Insomma, oggi pomeriggio ce li avevo davanti agli occhi. Tutti bellini in tenuta antisommossa. Ora, ce l'avete presente una tenuta antisommossa? Ci potrebbe passare sopra un autobus senza che si facciano un accidente, praticamente. Ci hanno dei caschi che bisognerebbe averci una cara, vecchia catapulta de' tempi che furono, per spaccarli. Oltracciò, naturalmente, sono armati fino ai denti; un particolare di cui tenere lievemente conto.
Di fronte, diciamocelo chiaramente, una masnada di scalzi & gnudi. Aste di bandiere fatte di pericolosissima plastica modello Esselunga (prezzi corti). Raudi fischioni in vendita dal peracottaro all'angolo, con istruzioni in nepalese classico. Dalle foto pubblicate dai giornali si evince anche che sono stati lanciati ferali fanaletti di segnalazione di transenne (grammi 20 di plasticaccia gialla), palline di gomma trovate nelle patatine Crik Crok, pezzi di panini al prosciutto in vendita nella zona (forse l'arma più letale, ma per lo stomaco; d'altronde, a Eataly non ci hanno fatto nemmeno avvicinare). Non si dimentichino i mortiferi fumogeni stile derby Capalle-San Mauro a Signa e gli infernali spintoni appresi in proficui anni di pogo ai concerti della Kazzabbest Antagonyst Death Band. Lo spray al peperoncino non ce lo abbiamo; in compenso, nello zaino con la marmotta avevo un rimasuglio di habanero oramai marcio. Mi ero dimenticato di levarlo, porca zozza.
Ecco, con tutto questo, oggi cinque di quei tapini sono riusciti a restare feriti. Non si legge altro: Cinque agenti feriti. Ma come avranno fatto, perbacco? Ma quelle gran tenute, che terranno sul serio? O chi gliele fabbrica, la Cooperativa dei Mutilatini? Come avrà fatto uno di loro a restare ustionato a una mano, se ci hanno indosso dei guanti con cui potrebbero tirare una sega a un tyrannosaurus rex? Oppure saranno rimasti feriti per le poderose ondate di solidarietà che si abbattono su di loro dopo tre minuti? Non è dato saperlo.
Intanto, però, oggi li ho visti fare una cosa davvero mai vista. Quattrocento metri a marcia indietro, ma di gambe. Quasi tutta via Cavour retrocedendo come gamberi con un corteo davanti, preceduto da uno striscione con scritto Torna a casa Lussi e il disegno di un cane (bau, bau). Da Guinness dei primati: dopo le cariche di alleggerimento, la retromarcia antisommossa. In quel caso, se uno solo di loro fosse inciampato, avrebbero fatto come i birilli. Nel frattempo, circa duecento antagonisti hanno rischiato seriamente di morire: dal ridere.
Ma questo non lo leggerete sui giornali.
Ma questo non lo leggerete sui giornali.
venerdì 20 dicembre 2013
mercoledì 18 dicembre 2013
Caschi contro libri
Chiaramente, stavolta, i caschi non se li sono levati; di fronte, del resto, non ci avevano mica una massa di fascisti tricolorati e di altri opportunisti variamente agghindati. Ci avevano degli studenti incazzati per i quali i poliziotti non sono affatto "uno di noi"; per loro sono sempre i soliti che manganellano, che caricano, che portano via. La normalità, insomma.
Si sono tenuti i caschi, e gli studenti milanesi si sono opposti con scudi fatti...di libri. Mi sembra una cosa assolutamente degna di nota; in primo piano, qualcuno tenta di resistere alla carica della polizia con La banda Bellini di Marco Philopat. La banda Bellini avrebbe preso i "forconi" e glieli avrebbe infilati nel culo, ai "tricolorati". Più in là mi pare di scorgere (ma dalla foto non si vede benissimo) uno scudo con un "Eco"; qui ci avrei forse qualcosa da ridire, fermo restando che si può benissimo decidere di resistere a una carica anche con un romanzo di Carolina Invernizio o con le Formiche che s'incazzano.
Che libro avrei scelto, però, per il mio scudo? La questione non è di certo fondamentale, ma sul mio ci avrei messo senz'altro La gioia armata di Bonanno. Qualcuno lo conoscerà senz'altro: è quel libriccino che comincia con una disquisizione sulle gambucce di Indro Montanelli.
lunedì 16 dicembre 2013
Il tredici dicembre (Santa Lucia)
E poiché il sottoscritto non si sentiva per nulla propenso a dialogar co' forchettoni, con le legalità manu militari e con le consuete rivendicazioni piccolo-borghesi; poiché non ci aveva proprio niente da capire in quelle masnade di gentecomennòi, che poi gli è solo gentecomellòro, lasciando volentieri l'incombenza a tutta una serie di volonterosi cui piace non dico sprecare il tempo, ma addirittura cacarci sopra, essendo giunto il tredici di dicembre (Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia) decise di andarsene a un corteo d'antifascisti, convinto com'era che quel ch'era accaduto non più di due anni prima non appartenesse a un passato da rimuovere alla svelta, ma a un presente sempre più buio e crudelmente stupido. Vi andò quindi, in compagnia di centinaja d'altre persone che s'erano raunàte di fronte alla basilica di San Lorenzo, presso uno de' luoghi ove il lugubre fascista Casseri Gianluca, da Piteglio (Pistoja), aveva preso a sparare -come poco prima in piazza Dalmazia- su tutto un mondo; e io e anche te che mi leggi, amica o amico, ne facciamo parte anche se ci è andata bene, anche se non ci si chiama Samb o Diop, anche se non eravamo là in quegli orribili momenti. Ne facciamo parte e s'ha da sapere bene chi sono i nostri nemici, da riconoscere chi ci vuole morti.
Fu così che, durante quel corteo, decise di infrangere l'oscuro con un'immagine passibile di far venire i bordoni; e s'appostò col suo zaino e la marmotta Maddalena, e la prese. Sfilava una goccia di maestà nella fredda sera dicembrina, tra le finte luminarie d'un finto cristo nato per segnare il crollo dell'indice dei consumi. Sfilava anche un ragazzo nell'ombra, una presenza che si percepiva in ogni cosa e non solo nel suo nome che veniva gridato tra rabbia e lacrime.
Terminato che fu quel corteo, il sottoscritto doveva aspettare oltre due ore per recarsi alla vicina stazione della ferrovia; aspettava, come ogni venerdì sera, una persona che gli è sommamente cara. Si ritrovò dunque nella necessità di far passare quel lasso di tempo.
Quanto tempo era che non girava per due ore intere per quel quartiere; lo faceva in un giorno in cui, per motivi più che banali, non aveva mangiato assolutamente niente. Saltato il pranzo. Nulla sotto i denti. Già prima del corteo, era arrivato in San Lorenzo prossimo a cascare in terra dalla fame; e chi lo conosce, sa che cosa significa la fame di R.V.
Fame che si stava esplicando, in quel momento, in un quartiere che aveva visto una bella parte della sua adolescenza; tra il mercato e girate senza meta né costrutto, puzzolente, forse innamorato e senz'altro con una quantità rimarchevole di rotelle disassate. Era un altro tempo, era un'altra città nel vedere, nel sentire, nell'annusare. Perché quel sottoscritto, con il quale oggi mi nomino in terza persona, era anch'egli un altro; ma la fame, quella sí, era la stessa. C'era, vicino alla statua, un baracchino di trippajo; ne montava un'odore di lampredotto da far venire l'appetito persino a' morti, e figuratevi a uno che era vivo.
Il panino col lampredotto è questa cosa che si vede qui accanto. È una "rosetta" riempita dal trippajo con un bollito di abòmaso bovino, ci metto l'accento perchè non si pensi che abbia qualcosa a che vedere col sadomàso. C'è chi se lo fa preparare con la salsa verde o con la salsa piccante, ma quello vero si mangia solo col sale e col pepe, e col sopra del panino un po' inzuppato nel brodo di cottura. Oltre a essere una delizia assoluta, è come mangiarsi Firenze con tre euri e cinquanta; ben più della famosa bistecca, perché il panino col lampredotto te lo puoi mangiare direttamente con San Lorenzo davanti agli occhi. O anche con piazza dell'Isolotto, come fo sempre; ma intorno ci hai non soltanto il vedere, ma anche il sentire e l'annusare. Come dicevo prima. Così me ne sono andato a mangiare un panino e a bere un bicchiere di vino; mi aspettavo il solito trippajo vestito da trippajo, unto come un trippajo, loquente come un trippajo.
Dentro il baracchino, invece, c'era una delicatissima e bella ragazza con gli occhi leggermente a mandorla. Ho chiesto il panino, e questa s'è messo a prepararlo come un trippajo fiorentino, con gli stessi gesti. Tirare fuori il lampredotto dalla pentola col forchettone bidentato. Adagiarlo sul tagliere. Tagliarlo coi coltellacci incrociati e depositarlo, con gli stessi, nella rosetta tagliata in due e smidollata. Il lampredotto nella parte di sotto, la parte di sopra inzuppata nel brodo. Il sale e il pepe. Il bicchiere di vino rosso. Quante volte in vita mia l'avrò visto fare; il tredici dicembre, Santa Lucia, me lo stava facendo una ragazza delle isole Filippine.
Mi sono accorto allora che i rumori e le voci di quel panino non erano più quelle di quand'ero ragazzo. Erano voci dove il parlare fiorentino era confuso e armonizzato in mezzo a diecimila altre lingue. L'odore del lampredotto era frammisto a quello d'altre cose una volta lontanissime, persino immaginarie. Mi guardavo intorno magari pensando a quale antico nome spagnolo avrà avuto quella provetta trippaja fiorentina di Mindanao o di Luzón, Encarnación, Corazón o María Inmaculada. Ché fiorentina era, come me e come quegli altri; ché lampredotto era, e meraviglioso, cotto al punto giusto e ben sistemato nel panino, come quello preparato dal Pinzauti Mario o dal Degl'Innocenti Rigoletto. E allora, dopo essere andato al corteo con un po' di fame in meno, e dopo aver gridato i nomi di due fiorentini di Dakar o della Casamance ammazzati da un cadavere fascista di nessun luogo, sono tornato in San Lorenzo a quell'ora dove il mercato chiude, e i barrocciai sbaraccano riportando a mano i barrocci e le merci nei magazzini sotto i portici di via dell'Ariento o di via Panicale. E mi sono messo a camminare, da solo, mentre mi era tornata una fame da diluvio.
Il mercato che smobilitava alla fine della giornata mi ha accolto con un rap in rumeno. Un rap in rumeno non lo avevo mai sentito; veniva da un barroccio dove si vendevano cinturoni con gli strasse, borse coi peneri, piattini con Padre Pio, torri di Pisa fabbricate a Taiwan, bandane e qualche keffiah palestinese. Questo rap ci aveva qualcosa a che fare col sole; din soare, din soare, coglievo nel ritornello, che vuol dire: "dal sole, dal sole". A quel punto, la mia personale iconografia avrebbe dovuto ricordarsi di quando, quattordicenne, avevo cominciato a imparare il rumeno; ci sarebbe stata bene, con gli ascolti notturni di Radio Bucarest per sentire un po' come suonava per davvero la lingua che mi compariva per la prima volta su una grammatichetta Hoepli del 1918 sottratta alla biblioteca della scuola. Di rumeni in Italia, in quel 1977, ci saranno stati soltanto i funzionari dell'ambasciata e qualche antico residente capitato per un matrimonio o chissà per quale altro sbalzo dell'esistenza; ora, bastava passare per il mercato di San Lorenzo all'ora dello sbaracco de' barrocci, e si sentivano i rap din soare. Perfetto esempio di una delle principali regole della lingua rumena, che rimane un po' strana a noialtri; in rumeno l'articolo determinato si appiccica in fondo al nome ("il sole" si dice soarele), ma se il nome è in compagnia di una preposizione l'articolo non si deve mettere e si dice, appunto, din soare. Nulla di tutto questo. All'improvviso mi ero accorto che stavo prolungando la manifestazione, ma da solo. Dimostravo, senza dire mezza parola, col "collo" di maglia calato in testa e con sulle spalle lo zaino con la marmotta Maddalena, nota anche come la Marmotta di pelouche più fotografata dalla Questura. Dimostravo scrivendomi, in testa, queste cose. Dimostravo guardando. Dimostravo riacchiappando quelle strade con le loro voci cambiate, con un nuovo amalgama, con tutto quel che continuava a sfuggirmi tranne una cosa, una sola.
Non era a caso che proprio quelle strade, dopo piazza Dalmazia, fossero state scelte dal nazista della montagna Pistoiese per il suo raid; e io li odio i nazisti della montagna Pistoiese, non ho l'Illinois a disposizione ma due anni fa, nella mia città, ho visto in azione l'oscuro e la paura propagandati come prassi armata esercitata per creare un consenso. I mercati. Due mercati. Camminavo per quelle strade comprendendo definitivamente il perché delle campagne di pulizia etnica della Nazione, che non sono dissimili nella loro sostanza dagli spari del Casseri. Tutti quanti al servizio del padrone, e il padrone vuole centri "storici" dove la storia smetta di esistere col suo fluire e coi suoi intrecci, con le sue ondate e con il suo lampredotto filippino. Il padrone vuole salotti buoni, vuole il decoro piccoloborghese sempre e comunque anche se lo traveste, a volte, da lusso; ma è un lusso che sa di piccole cose di pessimo gusto, quello del padrone. Non ha nessun odore. Sa di nouvelle cuisine del cazzo, non di trippa e centopelle. Per questo mette in azione, il padrone, il suo Casseri o il suo giornale massone. O il suo sindaco, o il suo pretonzolo antidegrado. Dal barroccio accanto, già mezzo smontato, veniva altra musica in una lingua a me ignota; e forse diceva le stesse cose mentre mi accendevo un sigaro antifame. Mi era tornata, la fame, in grande stile. Una cisterna vuota al posto dello stomaco.
Piglio una strada laterale, andando verso la stazione della ferrovia. Così a caso, tanto si va comunque in quella direzione; oltre alla fame, ho addosso un freddo cane. Passo davanti a un kebabbaro, ormai ce ne sono a decine; e mi colpisce il nome. Newroz Kebab. Il Newroz è il capodanno persiano, curdo, caucasico, centrasiatico; è un nome scritto in decine di modi diversi. È un'antichissima parola persiana ove new significa "nuovo", tanto a sottolineare che il persiano è lingua indoeuropea, e roz vuol dire "giorno"; ma il vero significato sarebbe "nuova luce". Roz, con un bel rotacismo iniziale e la "z" delle lingue satem, viene dalla stessa radice *leuk della "luce" (lux, light, Licht) e della "luna" (*leuksna). Dopo il sole rumeno, la luna e la luce; e il kebab. Entro nel Newroz con passo militaresco, deciso a combattere la mia battaglia; dentro, due ragazzi giovanissimi guardano avidamente la tv sintonizzata sul satellite, mentre passa una sit-com intitolata "Ciran Ciran". Il canale televisivo è turco, ma passano in sovraimpressione scritte pubblicitarie con indirizzi di Diyarbakir, e niente affatto in turco. Sono in lingua curda. E sono in via Panicale, Firenze, il tredici dicembre (Santa Lucia).
La lingua curda di distingue bene dal turco, perché è piena di "w" e di "q" (lettere del tutto assenti dall'alfabeto turco). Come il persiano, è una lingua indoeuropea. Nella sit-com si vedono uomini rigorosamente incravattati, ma qualcuno ha cravatte sgargianti (un tizio coi baffi la ha addirittura rosa). Le donne più attempate hanno il foulard in testa, quelle più giovani esibiscono chiome fluenti e trucchi esagerati; si sentono le finte risate di sottofondo, e i due ragazzi ridono pure loro. Dev'essere una cosa buffa. Prima di mettermi a sedere a un tavolo, prendo una decisione storica; ordino il Superchebabbone Special. E mentre me lo prepara uno dei ragazzi, decido di non prendere né bibite, né birra e né vino; vo al frigo e piglio un barattolo di ayran, yogurt con acqua ghiacciata. Dal lampredotto filippino all'ayran curdo naturfrisch, dato che è prodotto in Germania.
Mi viene portata una piattata spaventosa, contenente deliziose fettine di rinoceronte adagiate su uno sfizioso letto di verdurine vulcaniane e patatine fritte del mesozoico, il tutto condito con una delicata salsina al molibdeno; sotto lo sguardo interrogativo del ragazzo curdo (che peraltro continua anche a guardare la televisione), inizio l'opera di distruzione del Superchebabbone Special. Non lo mangio: lo rado al suolo. Nel locale c'è un calduccio da far meraviglia, e terminata vittoriosamente la battaglia chiedo urbanamente al ragazzo curdo se posso aspettare un po' al tavolo, dato che all'arrivo della persona che aspetto manca ancora un'ora e passa. Lo pago per sicurezza, e mi risiedo al tavolo dopo che il ragazzo m'ha fatto cenno di fare come se fossi a casa mia; e, infatti, come se fossi a casa mia comincio prima a pencolare con la testa e poi mi stendo con la testa sulle braccia incrociate, e mi addormento per una bellissima pennica. Ronf. Tra la piattata vuota, il barattolo vuoto dello yogurt naturfrisch, due telefonini e il libro di Ferracuti che racconta la strage dei picchettini dell'Elisabetta Montanari. Ravenna, tredici marzo millenovecentoottantasette. E non fate finta di ricordarvene, perché tanto non è vero.
Quando mi sveglio, dopo una mezz'ora di sonno vero, la trasmissione al Newroz Kebab è cambiata. Ora c'è un telegiornale in turco, ma entro poco diventa una partita di calcio. Mi rivedo per un attimo all'Allah Snackbar di Friburgo; poi esco e mi riaccendo un sigaro. E' ora di andare alla stazione dopo essermi sgranchito le gambe, tirato un rutto in mezzo alla strada e risistematomi il "collo" sul capo. Non vinceranno. No pasarán. Non prevarranno le loro città finte e agghiaccianti. Potranno mandare altri Casseri, potranno fare un articolo al giorno inventandosi paure e terrori, potranno sfrattare, potranno espellere; la città mette in campo la sua vita, e la vita vince sempre e comunque. Mette in campo il suo disordine armonico e il suo puzzo che ha un profumo bellissimo. Mette in azione quel miscuglio di nuovo e di storia che è nemico di chi la storia fa di tutto per farcela dimenticare. Mette in azione la lingua curda a due metri dalla lapide di Carlo Lorenzini, papà di Pinocchio; e non c'è dubbio che il Pinocchio sia stato tradotto anche in curdo. Mette in azione barricate impalpabili, ma proprio per questo insuperabili. Ed è per questo che, camminando verso la stazione, continuo la mia personale e durissima manifestazione senza parole. Sono tutte già scritte, e sono qui.
Quanto tempo era che non girava per due ore intere per quel quartiere; lo faceva in un giorno in cui, per motivi più che banali, non aveva mangiato assolutamente niente. Saltato il pranzo. Nulla sotto i denti. Già prima del corteo, era arrivato in San Lorenzo prossimo a cascare in terra dalla fame; e chi lo conosce, sa che cosa significa la fame di R.V.
Fame che si stava esplicando, in quel momento, in un quartiere che aveva visto una bella parte della sua adolescenza; tra il mercato e girate senza meta né costrutto, puzzolente, forse innamorato e senz'altro con una quantità rimarchevole di rotelle disassate. Era un altro tempo, era un'altra città nel vedere, nel sentire, nell'annusare. Perché quel sottoscritto, con il quale oggi mi nomino in terza persona, era anch'egli un altro; ma la fame, quella sí, era la stessa. C'era, vicino alla statua, un baracchino di trippajo; ne montava un'odore di lampredotto da far venire l'appetito persino a' morti, e figuratevi a uno che era vivo.
Il panino col lampredotto è questa cosa che si vede qui accanto. È una "rosetta" riempita dal trippajo con un bollito di abòmaso bovino, ci metto l'accento perchè non si pensi che abbia qualcosa a che vedere col sadomàso. C'è chi se lo fa preparare con la salsa verde o con la salsa piccante, ma quello vero si mangia solo col sale e col pepe, e col sopra del panino un po' inzuppato nel brodo di cottura. Oltre a essere una delizia assoluta, è come mangiarsi Firenze con tre euri e cinquanta; ben più della famosa bistecca, perché il panino col lampredotto te lo puoi mangiare direttamente con San Lorenzo davanti agli occhi. O anche con piazza dell'Isolotto, come fo sempre; ma intorno ci hai non soltanto il vedere, ma anche il sentire e l'annusare. Come dicevo prima. Così me ne sono andato a mangiare un panino e a bere un bicchiere di vino; mi aspettavo il solito trippajo vestito da trippajo, unto come un trippajo, loquente come un trippajo.
Dentro il baracchino, invece, c'era una delicatissima e bella ragazza con gli occhi leggermente a mandorla. Ho chiesto il panino, e questa s'è messo a prepararlo come un trippajo fiorentino, con gli stessi gesti. Tirare fuori il lampredotto dalla pentola col forchettone bidentato. Adagiarlo sul tagliere. Tagliarlo coi coltellacci incrociati e depositarlo, con gli stessi, nella rosetta tagliata in due e smidollata. Il lampredotto nella parte di sotto, la parte di sopra inzuppata nel brodo. Il sale e il pepe. Il bicchiere di vino rosso. Quante volte in vita mia l'avrò visto fare; il tredici dicembre, Santa Lucia, me lo stava facendo una ragazza delle isole Filippine.
Mi sono accorto allora che i rumori e le voci di quel panino non erano più quelle di quand'ero ragazzo. Erano voci dove il parlare fiorentino era confuso e armonizzato in mezzo a diecimila altre lingue. L'odore del lampredotto era frammisto a quello d'altre cose una volta lontanissime, persino immaginarie. Mi guardavo intorno magari pensando a quale antico nome spagnolo avrà avuto quella provetta trippaja fiorentina di Mindanao o di Luzón, Encarnación, Corazón o María Inmaculada. Ché fiorentina era, come me e come quegli altri; ché lampredotto era, e meraviglioso, cotto al punto giusto e ben sistemato nel panino, come quello preparato dal Pinzauti Mario o dal Degl'Innocenti Rigoletto. E allora, dopo essere andato al corteo con un po' di fame in meno, e dopo aver gridato i nomi di due fiorentini di Dakar o della Casamance ammazzati da un cadavere fascista di nessun luogo, sono tornato in San Lorenzo a quell'ora dove il mercato chiude, e i barrocciai sbaraccano riportando a mano i barrocci e le merci nei magazzini sotto i portici di via dell'Ariento o di via Panicale. E mi sono messo a camminare, da solo, mentre mi era tornata una fame da diluvio.
Il mercato che smobilitava alla fine della giornata mi ha accolto con un rap in rumeno. Un rap in rumeno non lo avevo mai sentito; veniva da un barroccio dove si vendevano cinturoni con gli strasse, borse coi peneri, piattini con Padre Pio, torri di Pisa fabbricate a Taiwan, bandane e qualche keffiah palestinese. Questo rap ci aveva qualcosa a che fare col sole; din soare, din soare, coglievo nel ritornello, che vuol dire: "dal sole, dal sole". A quel punto, la mia personale iconografia avrebbe dovuto ricordarsi di quando, quattordicenne, avevo cominciato a imparare il rumeno; ci sarebbe stata bene, con gli ascolti notturni di Radio Bucarest per sentire un po' come suonava per davvero la lingua che mi compariva per la prima volta su una grammatichetta Hoepli del 1918 sottratta alla biblioteca della scuola. Di rumeni in Italia, in quel 1977, ci saranno stati soltanto i funzionari dell'ambasciata e qualche antico residente capitato per un matrimonio o chissà per quale altro sbalzo dell'esistenza; ora, bastava passare per il mercato di San Lorenzo all'ora dello sbaracco de' barrocci, e si sentivano i rap din soare. Perfetto esempio di una delle principali regole della lingua rumena, che rimane un po' strana a noialtri; in rumeno l'articolo determinato si appiccica in fondo al nome ("il sole" si dice soarele), ma se il nome è in compagnia di una preposizione l'articolo non si deve mettere e si dice, appunto, din soare. Nulla di tutto questo. All'improvviso mi ero accorto che stavo prolungando la manifestazione, ma da solo. Dimostravo, senza dire mezza parola, col "collo" di maglia calato in testa e con sulle spalle lo zaino con la marmotta Maddalena, nota anche come la Marmotta di pelouche più fotografata dalla Questura. Dimostravo scrivendomi, in testa, queste cose. Dimostravo guardando. Dimostravo riacchiappando quelle strade con le loro voci cambiate, con un nuovo amalgama, con tutto quel che continuava a sfuggirmi tranne una cosa, una sola.
Non era a caso che proprio quelle strade, dopo piazza Dalmazia, fossero state scelte dal nazista della montagna Pistoiese per il suo raid; e io li odio i nazisti della montagna Pistoiese, non ho l'Illinois a disposizione ma due anni fa, nella mia città, ho visto in azione l'oscuro e la paura propagandati come prassi armata esercitata per creare un consenso. I mercati. Due mercati. Camminavo per quelle strade comprendendo definitivamente il perché delle campagne di pulizia etnica della Nazione, che non sono dissimili nella loro sostanza dagli spari del Casseri. Tutti quanti al servizio del padrone, e il padrone vuole centri "storici" dove la storia smetta di esistere col suo fluire e coi suoi intrecci, con le sue ondate e con il suo lampredotto filippino. Il padrone vuole salotti buoni, vuole il decoro piccoloborghese sempre e comunque anche se lo traveste, a volte, da lusso; ma è un lusso che sa di piccole cose di pessimo gusto, quello del padrone. Non ha nessun odore. Sa di nouvelle cuisine del cazzo, non di trippa e centopelle. Per questo mette in azione, il padrone, il suo Casseri o il suo giornale massone. O il suo sindaco, o il suo pretonzolo antidegrado. Dal barroccio accanto, già mezzo smontato, veniva altra musica in una lingua a me ignota; e forse diceva le stesse cose mentre mi accendevo un sigaro antifame. Mi era tornata, la fame, in grande stile. Una cisterna vuota al posto dello stomaco.
Piglio una strada laterale, andando verso la stazione della ferrovia. Così a caso, tanto si va comunque in quella direzione; oltre alla fame, ho addosso un freddo cane. Passo davanti a un kebabbaro, ormai ce ne sono a decine; e mi colpisce il nome. Newroz Kebab. Il Newroz è il capodanno persiano, curdo, caucasico, centrasiatico; è un nome scritto in decine di modi diversi. È un'antichissima parola persiana ove new significa "nuovo", tanto a sottolineare che il persiano è lingua indoeuropea, e roz vuol dire "giorno"; ma il vero significato sarebbe "nuova luce". Roz, con un bel rotacismo iniziale e la "z" delle lingue satem, viene dalla stessa radice *leuk della "luce" (lux, light, Licht) e della "luna" (*leuksna). Dopo il sole rumeno, la luna e la luce; e il kebab. Entro nel Newroz con passo militaresco, deciso a combattere la mia battaglia; dentro, due ragazzi giovanissimi guardano avidamente la tv sintonizzata sul satellite, mentre passa una sit-com intitolata "Ciran Ciran". Il canale televisivo è turco, ma passano in sovraimpressione scritte pubblicitarie con indirizzi di Diyarbakir, e niente affatto in turco. Sono in lingua curda. E sono in via Panicale, Firenze, il tredici dicembre (Santa Lucia).
La lingua curda di distingue bene dal turco, perché è piena di "w" e di "q" (lettere del tutto assenti dall'alfabeto turco). Come il persiano, è una lingua indoeuropea. Nella sit-com si vedono uomini rigorosamente incravattati, ma qualcuno ha cravatte sgargianti (un tizio coi baffi la ha addirittura rosa). Le donne più attempate hanno il foulard in testa, quelle più giovani esibiscono chiome fluenti e trucchi esagerati; si sentono le finte risate di sottofondo, e i due ragazzi ridono pure loro. Dev'essere una cosa buffa. Prima di mettermi a sedere a un tavolo, prendo una decisione storica; ordino il Superchebabbone Special. E mentre me lo prepara uno dei ragazzi, decido di non prendere né bibite, né birra e né vino; vo al frigo e piglio un barattolo di ayran, yogurt con acqua ghiacciata. Dal lampredotto filippino all'ayran curdo naturfrisch, dato che è prodotto in Germania.
Mi viene portata una piattata spaventosa, contenente deliziose fettine di rinoceronte adagiate su uno sfizioso letto di verdurine vulcaniane e patatine fritte del mesozoico, il tutto condito con una delicata salsina al molibdeno; sotto lo sguardo interrogativo del ragazzo curdo (che peraltro continua anche a guardare la televisione), inizio l'opera di distruzione del Superchebabbone Special. Non lo mangio: lo rado al suolo. Nel locale c'è un calduccio da far meraviglia, e terminata vittoriosamente la battaglia chiedo urbanamente al ragazzo curdo se posso aspettare un po' al tavolo, dato che all'arrivo della persona che aspetto manca ancora un'ora e passa. Lo pago per sicurezza, e mi risiedo al tavolo dopo che il ragazzo m'ha fatto cenno di fare come se fossi a casa mia; e, infatti, come se fossi a casa mia comincio prima a pencolare con la testa e poi mi stendo con la testa sulle braccia incrociate, e mi addormento per una bellissima pennica. Ronf. Tra la piattata vuota, il barattolo vuoto dello yogurt naturfrisch, due telefonini e il libro di Ferracuti che racconta la strage dei picchettini dell'Elisabetta Montanari. Ravenna, tredici marzo millenovecentoottantasette. E non fate finta di ricordarvene, perché tanto non è vero.
Quando mi sveglio, dopo una mezz'ora di sonno vero, la trasmissione al Newroz Kebab è cambiata. Ora c'è un telegiornale in turco, ma entro poco diventa una partita di calcio. Mi rivedo per un attimo all'Allah Snackbar di Friburgo; poi esco e mi riaccendo un sigaro. E' ora di andare alla stazione dopo essermi sgranchito le gambe, tirato un rutto in mezzo alla strada e risistematomi il "collo" sul capo. Non vinceranno. No pasarán. Non prevarranno le loro città finte e agghiaccianti. Potranno mandare altri Casseri, potranno fare un articolo al giorno inventandosi paure e terrori, potranno sfrattare, potranno espellere; la città mette in campo la sua vita, e la vita vince sempre e comunque. Mette in campo il suo disordine armonico e il suo puzzo che ha un profumo bellissimo. Mette in azione quel miscuglio di nuovo e di storia che è nemico di chi la storia fa di tutto per farcela dimenticare. Mette in azione la lingua curda a due metri dalla lapide di Carlo Lorenzini, papà di Pinocchio; e non c'è dubbio che il Pinocchio sia stato tradotto anche in curdo. Mette in azione barricate impalpabili, ma proprio per questo insuperabili. Ed è per questo che, camminando verso la stazione, continuo la mia personale e durissima manifestazione senza parole. Sono tutte già scritte, e sono qui.
mercoledì 11 dicembre 2013
lunedì 9 dicembre 2013
P&R prêt-à-galèr
Ve li ricordate Padalino & Rinaudo, i due sostituti della procura torinese che, alcuni mesi va (in Valsusa, e dove altrimenti?) hanno inaugurato il primo servizio di pronto intervento incriminazione, recandosi in Valle al seguito delle truppe di occupazione con gli atti già preparati e soltanto da riempire?
L'Italia, come si sa, è il paese della moda. Ci abbiamo le griffes (parola che, in francese, significa peraltro "artigli di un rapace", ndr), quelle specializzate in arrosto umano alla cinese. Dopo il prêt-à-porter, ecco dunque l'ultimissima moda: il prêt-à-galèr. Una task-force di magistrati "dedicati", con un budget di galere e accuse di "finalità terroristiche" preconfezionate e, appunto, pronte all'uso.
Stamani la premiata ditta P&R ha infatti confezionato le ennesime quattro galere, vale a dire l'ennesimo "blitz antiterrorismo" per un "assalto notturno" al cantiere di Chiomonte, lo scavo più militarizzato del mondo. Tanto che c'erano, visto che è quasi Natale e quindi bisogna fare un bel pacco dono, P&R hanno anche ordinato alla Digos di perquisire un paio di centri sociali torinesi. Il prêt-à-galer si rivela quindi un'altra specialità della moda italiana; si potrebbe ipotizzare che, prima o poi, Padalino & Rinaudo ce li ritroveremo su una qualche passerella a sfilare assieme alle top models.
E' così figo, del resto, distribuire galere su galere per servire il padronato. Così "in" emettere ordini di custodia cautelare per far piacere alle cooperative di "muratori e cementisti". Così à la page affibbiare le "finalità terroristiche" da offrire a Letta e Hollande. Manca a quei due, certo, quell'aura di "eroe antimafia" che ha fatto le fortune del loro maestro Caselli, recentemente ritiratosi dalle sfilate; meglio, per le nuove leve, difendere tutta quell'interminabile serie di mafie che stanno agendo in Valsusa.
domenica 8 dicembre 2013
Di che morte si muore
Ho compiuto da poco cinquant'anni.
Nella mia vita ho fatto già in tempo diverse volte a non voler morire in qualche modo.
Poiché sono stato un ragazzino discretamente precoce, l'undici gennaio del 1975 già mi dicevo che non volevo morire democristiano.
Qualche anno dopo, lo confesso, qualche volta mi sono detto che non volevo morire berlusconiano.
In Italia, del resto, è prassi comune non voler morire; forse perché, in generale, siamo già morti da un bel pezzo.
Arrivato a una certa età, mi sono detto: "Caro Riccardo, ora è tempo che tu ti decida a morire in qualche maniera".
L'alternativa era tra rimorire berlusconiano, morire grillino e morire renziano.
Stasera credo che tale dubbio mi sia stato finalmente sciolto, perché con uno nato l'undici di gennaio del 1975, altro che "ventennio"!
Insomma, finalmente so di che morte si muore: si muore renziani. Cioè democristiani, il che mi fa perlomeno ritornare ai miei verdissimi anni. Cazzo, quando nasceva Matteo Renzi ero in prima media, ora che ci penso. Avevo a che fare con la Bensi di matematica, con la Bruscaglioni d'italiano, con la Rossi Ferrini di storia e geografia e con il Fagotti di applicazioni tecniche; ci fece pure comprare il seghetto per fare il traforo nel legno compensato. O quello di musica che ci fece comprare il piffero da suonare in classe?
Poi va da sé che morirò Riccardo Venturi, in culo a Renzi, a su' pa'e alla su' nonna.
Però una certa buffa saggezza che mi sto ritrovando addosso mi ha insegnato che non esistono né oasi, né tantomeno campane di vetro.
Può darsi quindi che morirò si Riccardo Venturi, ma con uno che mi privatizzerà persino l'agonia. E con uno che ha già cominciato con le metafore palloniere, di modo che morirò anche un po' berlusconiano.
Il problema è che morirò pure italiano.
Morirò senza i famosi "ventànni" rivoluzionari, coi fascisti del terzo millennio e col PD. Ganzo!
Buona morte a tutti.
La terra non ti sia
La terra non ti sia
né lieve, né pesante;
ti sia compagna antica
di strade mai interrotte.
Ti sia mare infinito
e fuoco di grandezza;
ti sia aria, elemento
di vento e di chiarezza.
La terra non ti sia
palate di chiusura;
ti sia portale e oltre
di là da ogni misura.
Ti sia d'amore e lacrime
sorgente luminosa;
e di ricordo sempre
amica silenziosa.
Þér megi jörðin ekki vera
Jón Hróðmar Finnbogason
Til B.
sabato 7 dicembre 2013
Due o tre cose su Mandela
Ora lo stanno facendo passare per un „Gandhi”, Nelson Rolihlahla Mandela. Scordando magari che in galera per ventisette anni c'è stato per le sue lotte. Eppure basterebbe sfogliare un comunissimo articolo Wikipedia, non fare ricerche alla Biblioteca del Congresso; una lotta cominciata fin dagli anni '40 e radicalizzatasi nel 1952, con la campagna di resistenza dell'ANC e l'organizzazione dell'ufficio legale Mandela & Tambo per fornire assistenza a basso costo a molti neri che ne sarebbero rimasti privi. Fu arrestato per la prima volta il 5 dicembre 1956, nella stessa data che molti anni dopo sarebbe stata quella della sua morte; dopo il massacro di Sharpeville nel marzo 1960 e la successiva interdizione dell'ANC e di tutti gli altri gruppi anti-apartheid, passò ad appoggiare senza reticenze la lotta armata contro il regime razzista sudafricano. Fondò lui, Nelson Mandela, l'ala armata dell'ANC, Umkhonto We Sizwe („Lancia della Nazione” in lingua xhosa), della quale fu comandante in capo coordinando le campagne di sabotaggio e i pianidi guerriglia. Si dedicò a raccogliere fondi dall'estero e dispose addestramenti paramilitari per i combattenti. Il suo definitivo arresto nel 1962 avvenne grazie a informazioni fornite al governo sudafricano dalla CIA, e qualcuno dovrebbe dirlo una buona volta al piangente Obama. Inizialmente fu condannato a cinque anni per „viaggi illegali all'estero” e „incitamento allo sciopero”; ma il 12 giugno 1964, mentre era ancora in carcere, fu condannato all'ergastolo per „sabotaggio e tradimento”. In carcere scrisse il manifesto dell'ANC, che fu pubblicato il 15 giugno 1980; un suo famoso passo recitava testualmente: ”Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid!”. E' rimasto in carcere fino al 1990; è stato per qualche anno presidente del „nuovo” Sudafrica, dove ora i minatori neri in sciopero possono tranquillamente essere massacrati da poliziotti neri. Così, ora, Nelson Mandela deve, nell'ora di sua morte, beccarsi il massacro dei „cordogli planetari”, espressi da tutto un gotha di figure che definire improponibili sarebbe un eufemismo; compresi quelli di Israele e del suo primo ministro Gnagnagnàu o come accidenti si chiama. E pensare che Israele è stato l'unico stato al mondo ad aver riconosciuto i Bantustan tipo il Transkei, il Ciskei e il Bophutatswana, gli stati-fantoccio creati nel 1977 dal regime razzista come ghetti per la deportazione della popolazione nera (che fu privata della cittadinanza sudafricana).
Ce ne sarebbero da dire parecchie altre, su Nelson Mandela. Prima di tutto andrebbe riconosciuto il suo ruolo di combattente niente affatto „pacifista” come si è voluto far passare dagli anni '90, con la sua liberazione dal carcere, e, ovviamente, in queste ore successive alla sua scomparsa. Sarà forse che quando sento nominare „Gandhi” mi viene l'immediata voglia di imbracciare un AK 47 e sparare a tutti i cialtroni che esaltano un razzista indiano il quale, proprio quando risiedeva in Sudafrica, ebbe a pronunciare più volte parole di autentico disprezzo razziale nei confronti della popolazione nera. Li chiamava Kaffir i neri sudafricani, il „Grand'Anima”, scrivendo cose del genere (rivelate da Joseph Lelyveld, ex direttore editoriale e inviato del New York Times, nel suo volume Great Soul: Mahatma Gandhi and his Struggle with India, pubblicato da Alfred Knopf): «Di regola non sono civilizzati, sono fastidiosi, sporchi e vivono quasi come animali”, oppure „«Fummo fatti marcire in una prigione riservata ai Kaffir. Potevamo capire di non essere collocati insieme ai bianchi, ma essere messi sullo stesso livello dei Kaffir ci sembrò insopportabile”. E ancora: „«Un indiano deve essere vessato perché lavora troppo, un Kaffir deve essere vessato perché non lavora abbastanza», «Gli indiani vengano trascinati al livello dei rozzi Kaffir, la cui occupazione è cacciare e la cui sola ambizione è radunare il bestiame e comprarsi una moglie, per passare la vita nell’indolenza e nudi» e, infinine, parlando degli Afrikaners bianchi: «Noi indiani crediamo nella purezza della razza quanto loro».
Gli è toccato poi, a Mandela, gestire la cosiddetta „riconciliazione nazionale” in Sudafrica; in pratica, tenere a bada la voglia di vendetta e di rivalsa dei neri sudafricani. Si potrebbe anche dire che, nel „nuovo” Sudafrica era abbastanza facile, dato che le leve del potere e le risorse economiche sono rimaste in massima parte nelle mani dei bianchi, e sta casomai emergendo (a fatica) una media borghesia nera che ancora ha però scarsa incidenza sull'economia che conta. In pratica, l'apartheid è stato eliminato nelle sue componenti più visibili e eclatanti (e nella rappresentanza politica di sistema) ma persiste nella vita reale del paese, con una separazione di fatto nonostante gli esempi di „buona volontà” istigati in primis proprio da Mandela. Nelson Mandela, una volta inserito come „figura carismatica” nella gestione diretta del potere, non ha minimamente messo in discussione il sistema capitalista in Sudafrica; chi lo ha fatto, come Steve Biko o Chris Hani, ha pagato con la tortura e con la vita. Il „nuovo Sudafrica” di Mandela è esattamente quello vecchio con qualche ghetto nero in più (l'intera downtown di Johannesburg, ad esempio), con tante manifestazioni esteriori pronte per gli applausi internazionali e con le stesse miniere di diamanti, con la stessa De Beers, con le stesse townships e le stesse disuguaglianze. Mandela non ha avuto né il coraggio e né la forza di spingersi oltre, mettendo in discussione quello stesso sistema capitalista che è stato alla base dell'apartheid; se è giusto ricordarlo per la sua lotta, è giusto anche riconoscere dove questa lotta si è fermata e si è arenata. Fosse proseguita, non avrebbe del resto avuto così tanti „cordogli” planetari, e neppure il „premio Nobel per la pace” e il film di Clint Eastwood. Non avrebbe avuto il „Palamandela” a Firenze intitolatogli da vivo. Il vecchio combattente incarcerato dal potere, a un certo punto, si è convertito alle „riconciliazioni”, e si sa bene dove menino generalmente, codeste riconciliazioni. Menano al mantenimento pieno del potere economico da parte di chi già lo aveva, e a qualche contentino di imborghesimento per una ristretta fascia della massa esclusa. Per il resto, c'è sempre bisogno di scendere a cavare „diamanti per sempre”, c'è sempre bisogno della forza lavoro a buon mercato che è sempre esistita, e c'è sempre bisogno degli immancabili e simbolici „panem et circenses” (il rugby, i mondiali di calcio con le vuvuzelas), cui viene attribuito un valore buono sia per illudere gli allocchi, sia per gli „abbracci” che piacciono tanto ai futuri cordoglianti.
Giusto quindi, a mio parere, ricordare Nelson Mandela per quello che è stato, stando lontani anni luce dai cori unanimi. Dicono che il nome „Rolihlahla”, che sarebbe stato quello vero di Mandela se, alle scuole elementari, non gli avessero imposto anche quello dell'ammiraglio di Trafalgar, significhi „colui che combina guai” (secondo altre interpretazioni vorrebbe dire invece „rompiscatole”); e per un certo tempo di guai ne ha combinati parecchi, oppure ha rotto parecchie scatole. Non ne ha combinati però quanti ancora ce ne volevano, di guai, rovesciando il Sudafrica come andava rovesciato. Non ne ha rotte abbastanza di scatole, preferendo „riconciliarsi” con chi ancora emargina, sfrutta, uccide a livello locale e planetario. Si è messo a fare il „piacione”, Nelson Mandela, e infatti alla sua morte è piaciuto a tutti nel consueto festival dell'ipocrisia a base di Gandhi e altro. Io ho ritenuto degno ricordarlo, ma con queste due o tre cose.
Nella foto sopra: Chris Hani e Peter Mokaba a un comizio del Partito Comunista Sudafricano agli inizi degli anni '90; Nelson Mandela è seduto a sinistra. Chris Hani è stato ucciso il 10 aprile 1993.
venerdì 6 dicembre 2013
Zitti, infami!
Pochi minuti fa mi è arrivato sul telefonino il seguente messaggio SMS, spedito dall'ATAF (l'ex azienda comunale dei trasporti fiorentini, privatizzata e in via di smembramento):
BLOCCO NON PROGRAMMATO
DEL SERVIZIO BUS ATAF
PER SCIOPERO ILLEGITTIMO.
AGGIORNAMENTI IN TEMPO REALE
SU WWW.ATAF.NET
Illegittimi siete voi e le vostre privatizzazioni di merda.
Illegittimi siete voi e quel bamboccio di merda di Matteo Renzi.
Illegittimi siete voi e le vostre "primarie" del cazzo.
Illegittimi siete voi e la maiala di vs. madre.
Illegittimi siete voi e il becco di vs. padre.
A prescindere dal fatto che il servizio andava bloccato a oltranza prima che il suddetto bamboccio fascista di merda privatizzasse i trasporti nell'area fiorentina. Ci è voluto lo smembramento dell'ATAF e l'asta delle linee al miglior offerente per farvi decidere!
mercoledì 4 dicembre 2013
Internazionalismo
Era piuttosto semplice
essere internazionalisti.
A
casa propria, naturalmente. A parte un pugno di quelli veri, che
prendevano armi e bagagli e andavano a combattere realmente dove si
combatteva, e ci morivano. Talmente pochi, che oggi ci scrivono dei
libri sopra; quei pochi che andavano incontro alle cose.
Mi
dicono, e mi ripetono, che allora tutti si sentivano coinvolti da
tutto ciò che accadeva nel mondo, perché quel che accadeva nel
mondo riguardava tutti. Se una data situazione era relativamente
vicina, arrivavano magari gli studenti come quelli greci negli anni
della dittatura dei Colonnelli; ma si mostrava solidarietà
attiva anche nei confronti di
avvenimenti lontanissimi, come quelli del Cile o dell'Angola. Ogni
tanto si vedeva qualche esiliato.
E
così, in questi giorni, mi sento fare spesso un discorso. Mi dicono
che, di fronte a quel che è successo a Prato pochi giorni fa, la
mobilitazione sarebbe
stata immediata. Senza dubbio; il problema è che, allora, i sette
lavoratori cinesi bruciati nel capannone non c'erano. Non c'erano né
le Chinatown a due
passi da casa, né le immigrazioni di massa. Lampedusa era una
meravigliosa isoletta più vicina all'Africa che all'Italia, dove
faceva sempre caldo. E c'era tanta solidarietà quotidiana, tanto
coinvolgimento senza
avere quei cazzo di coinvolti
tra i coglioni nelle città, nelle fabbriche, nei campi di pomodori,
nei mercatini, nelle case occupate.
E
così, oggi, sette lavoratori cinesi morti bruciati mentre dormivano
dentro una fabbrica non coinvolgono più
nessuno; la cosa passa e va, col solito balletto istituzionale, i
lutti cittadini, i
“non ce la facciamo più” e, in realtà, la più gelida
indifferenza. E chi se ne frega, so' cinesi. Niente più sventolii
del Libretto Rosso, ora si sventola il libretto di lavoro.
Chissenefrega se solo due anni fa un nazista armato si è presentato
in piazza Dalmazia sparando addosso ai negri. I cinesi? Ce ne stanno
duemila in due metri quadri, chissà come hanno fatto a bruciare solo
in sette.
Quando
il coinvolgimento ce
lo abbiamo avuto sotto il naso, nella quotidianità; quando si
trattava di manifestare solidarietà per quel che succedeva a
Rosarno, e non in qualche Mozambico; quando si trattava di
mobilitarsi ogni giorno perché quel che accade a chiunque, qua
accanto a noi, riguarda davvero tutti e non certamente nelle fulgide
idealità; quando non ci si accorge nemmeno che i lavoratori del
settore della logistica stanno lottando da mesi tutti assieme,
italiani e stranieri, senza differenze; quando sarebbe necessario e
anche più facile mettere in pratica questa cosa elementare, dato che
le situazioni sono arrivate qui da noi in tutta la loro crudezza, e
non più attraverso i racconti e le testimonianze di qualche
esiliato; allora la solidarietà è scomparsa.
E'
scomparsa la mobilitazione. E' scomparso il coinvolgimento. Bruciano
i cinesi; nemmeno un misero presidio. Eppure sono sette lavoratori,
sette schiavi, sette come quelli della Thyssen. Eppure si sa
benissimo perché sono morti, e anche chi li ha ammazzati. Eppure si
sa bene che il Casseri ha sparato ai senegalesi come altri pari a lui
sparerebbero agli italiani; si dice sempre che “potrebbe toccare a
chiunque” ma, nella realtà, se tocca a dei cinesi l'indifferenza
si nutre proprio di questo. Sono separati.
Sono misteriosi.
Rispuntano le battute idiote sul fatto che “sono tutti uguali”.
L'attenzione viene immediatamente spostata sul fatto che sono
“clandestini” e “irregolari”, in un frangente in cui ci hanno
spinto tutti quanti nella clandestinità di fatto e
nell'invisibilità. E così un fatto come quello di Prato, oltre a
scomparire dopo due giorni dalle cronache (nelle coscienze, comunque,
non è mai nemmeno entrato), assolve esclusivamente alla funzione di
passerella per gli assassini. Loro sì che sono coinvolti,
e sanno di esserlo; logico che facciano di tutto per spostare
l'attenzione sui terreni che fanno più comodo. Mica si parla di
capitalismo globale, si parla delle condizioni di lavoro
mentre gli stessi agiscono
quotidianamente per smantellare ogni conquista. Parlano addirittura
di “Auschwitz” nella fabbrica dei cinesi, senza essere mai
entrati in un call center. Parlano di “offesa alla dignità dei
lavoratori”, loro.
Di
fronte a tutto ciò non sarebbe occorsa una semplice “mobilitazione”.
Sarebbe occorso prenderli tutti quanti a mazzate, stiamoci poco a
girare intorno. D'accordo la “solidarietà”, ma essa ha bisogno
di parlare ogni volta un linguaggio adeguato per essere veramente
capita ed avere, quindi, una reale efficacia. Nulla di tutto questo,
naturalmente.
Com'era
bello, sì, l'internazionalismo
quando era bello lontano. Così rassicurante. Quando si espletava in
un mondo ancora dilatato, e dove le distanze ancora esistevano. Si
scendeva in piazza a migliaia e migliaia per l'aggressione
all'Angola, e succedeva anche, a volte, che la polizia caricasse e
sparasse; succedeva persino, in qualche caso, di rimetterci la pelle
suscitando l'agghiacciante sarcasmo della stampa di regime (“Morire
a vent'anni per l'Angola”, come titolò la “Nazione” dopo
l'assassinio di Piero Bruno il 22 novembre 1975). Ora, invece, i
cinesi possono pure bruciare nei loculi in cartongesso, finendo
triturati nel chissenefrega più sovrano. Passati dal “ci riguarda
tutti” al “cazzi loro” nel giro di una generazione, e in un
momento in cui il coinvolgimento generale ce lo abbiamo, tutti i
giorni, davanti al naso. In cui l'internazionalismo è
venuto a farci una visita di massa. E così si rimuove. Anzi, che
brucino tutti, così Prato tornerà ai pratesi; magari torneranno
pure “di sinistra” con le case del popolo e l'Arcicaccia; e
noialtri torneremo, invece, a manifestare per la vile aggressione
imperalista al valoroso popolo senegalese mentre qualche fascista di
Pistoia scorrazza per i mercatini armato fino ai denti.
Nessuno
che dica che in quella fabbrica di Prato siamo morti anche noi,
perché quelle persone erano come noi. Come noi stritolate negli
ingranaggi. Come noi costrette a vivere una vita da schiavi. Come noi
ammazzate dai padroni. Come noi obbligate a sottostare ai ricatti del
sistema, perché qui non si tratta mai di stupide “filosofie” e
di bizantinismi verbali. Si tratta della cruda realtà quotidiana,
tanto visibile quanto ignorata. Invece no; sono cinesi di cui non si
sa nemmeno il nome. Sono carne da macello come lo siamo noi, però a
noialtri piace forse considerarci carne di prima scelta, bistecche
sulla tavola del padrone.
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