lunedì 29 luglio 2013
Piole e guardrail
Me le ricordo, sì, le "piole".
Erano, boh, dei raduni, chiamiamoli così. Ai tempi di una Rete che non c'è più, quella quando a un certo punto ci si vedeva, per forza. Ci si vedeva e si credeva, persino, di essere "amici", di "condividere" e tante altre belle cose del genere. Ci avevamo persino l' "inno", la canzone degli "amici veri purtroppo o per fortuna", quella di Guccini per intendersi. Ne abbiamo fatte parecchie, in varie località italiane, di codeste "piole", negli anni fra il '99 e il 2005; la prima a Bologna e l'ultima a Firenze. Prima di accorgerci che s'era amici sì, amici no, amici un cazzo. Prima di tirar fuori tutta la carogneria e la meschinità che ci avevamo dentro, altro che "condivisione". Prima di spedirci a vicenda nel dimenticatoio quando è andata bene, e nell'odio quando è andata benissimo.
Restano, come sempre, i ricordi di un'illusione. Va bene così, sicuramente. Furono chiamati "piole", questi raduni con l'inno, quando ce lo disse uno di quei famosi "amici veri" (di cui attualmente ignoro se sia vivo o se sia morto), di provenienza piemontese. Ci spiegò che cos'era, in Piemonte, una "piola": vale a dire, se ben mi ricordo, un'osteria dove veniva servito il vino e dove ci si poteva portare il mangiare e le posate da casa. Piacque la cosa, e da allora i raduni si chiamarono "piole"; ognuna aveva una sua specie di "tema" e di nome. Poi c'era anche "Borgorosso", vabbè, e quante schitarrate, quanti alcool, quanti casini di ogni genere; mentre eravamo così "amici", imparavamo pian piano a non sopportarci. Vabbè, lezione imparata. Basta così.
Così, quando lo scorso anno, il venticinque di febbraio in Val di Susa prima di una manifestazione, ebbi modo di passare davanti, a Bussoleno, all' "Osteria Piola la Credenza", gioco forza mi vennero a mente queste cose. Eccomi là davanti, finalmente, a una piola vera e propria, con tanto di insegna. Sapevo che era un ritrovo dei No Tav della valle, ma non ci entrai; mi limitai a una specie di sorrisetto interno, un po' amaro e un po' non so, mi ripassò in testa l'immagine del filosofo culturista che sollevava di peso un "piolante" alto due metri e pesante centoventi chili, e via.
Leggo oggi che la Piola di Bussoleno è stata visitata dall'autorità giudiziaria, per ordine dei "piemme" (tali Padalino e Rinaudo) che si occupano diligentemente della repressione totale e indiscriminata del movimento No Tav. Oramai siamo al delirio totale di questi "fedeli servitori" che resteranno celebri per essere stati i primi "piemme preventivi", una task force che ha accompagnato i poliziotti già pronta a firmare in loco i provvedimenti di fermo. Questi qua che ordinano perquisizioni nelle osterie e che appioppano "finalità di eversione e terrorismo". Come scrive Baruda, giustamente, nell'articolo linkato: "Evidentemnte, non gli basta la figura di merda fatta con gli arresti
della scorsa settimana (già tradotti ai domiciliari) e continuano a
puntare in alto, verso la madre di tutte le imputazioni che Magistrati
di questo calibro sognano proprinare alle lotte sociali e ai movimenti,
specie quando questi non abbassano la testa!" Ma non credo che, a questi, interessi molto delle figure di merda che fanno assieme al loro capo supremo, l'eròo antimafio Caselli. Interessa loro mettere paura. Interessa loro far vedere le catene dello Stato e del Capitale, di cui sono al servizio per uno stipendio mensile. Questi sono gli "idoli" del Partito Nazionaldemocratico. Questi i loro fini terroristici, perché il terrore vogliono crearlo loro, in chiunque si opponga all'ordine delle loro "istituzioni democratiche".
Così, tocca anche alla Piola di Bussoleno. Quella dei No Tav, e anche quella del Guccini "stile Cavezzali" che si vede nel manifesto, della musica magari finto-irlandese o finto-occitana, ma chissenefrega. Nel frattempo, mentre si ammazza una valle intera e si creano i "terroristi eversori" per far piacere al mercato, al senatore E., alla "Cooperativa Muratori e Cementisti", all' "Europa" e quant'altro, le "grandi opere" si fanno notare, qualche chilometro più in giù, per certi loro guardrail un po' bassi per trattenere un pullman pieno di famiglie che avrebbero fatto meglio a andarsene a fare un giro altrove, senza prendere quella maledetta autostrada che rappresenta bene il "progresso" di questo paese.
Mi viene da pensare che, se per caso gli irpini e i matesani si fossero a suo tempo opposti alla costruzione di quell'autostrada di merda (la avete mai fatta?), non soltanto i gitanti di Pozzuoli sarebbero ancora tutti vivi. Ci sarebbero stati anche dei solerti magistrati pronti a distribuire eversioni e terrorismi a chiunque si fosse opposto. Ci sarebbero state galere e arresti domiciliari farciti di accuse ridicole. Ci sarebbe stato, in parole povere, lo Stato italiano nella sua essenza più profonda. Nato fascista, morirà fascista. Forse anche lui precipitato da un viadotto, durante una gita di "piemme" che vanno in Val Susa a firmar provvedimenti cautelari. Patapùnfete!
venerdì 26 luglio 2013
Una casa in riva al fiume
La casa che vedete nella foto è a pochi metri da casa mia, ma appartiene
ad un mondo che non c'è più. E' una vecchissima casa colonica
plurifamiliare di quando l'Isolotto era ancora una distesa di campi,
vale a dire fino agli anni '50 del XX secolo; non si sa come sia
sopravvissuta, là su una vecchia strada che, dopo esser passata sotto al
ponte dell'Indiano, si perde lungo l'Arno tra un campo nomadi, un
cementificio e un'installazione militare. Ad un certo punto diventa un
viottolo rivierasco fino alla foce della Greve; un'antica campagna
violentata dalla città. Ma questa cosa che ho scritto, non crediate che
sia una specie di “ragazzo della via Gluck”. E', invece, la storia di
uno dei miei sogni ad occhi aperti a contrasto con la realtà.
Quando ci si passa davanti, all'angolo tra la decrepita e polverosa via dell'Isolotto e la via dello Scalo che presuppone qualche scomparso porto di barche, si hanno strane sensazioni. Qualche anno fa è stata occupata da qualcuno che ne ha disegnato la facciata, con una scritta e una strana e bella figura che avvolge una finestra. E' lo stile, che ben conosco, degli squat; ma, attualmente, dev'essere abitata da qualcuno che non vuol farsi vedere. E s'immagina perfettamente chi possa essere. Sono gli invisibili delle nostre città, che non sono soltanto invisibili. Sono anche inimmaginabili. Proibito anche figurarseli, mentre sventolano dei poveri panni e si intravede un filo di fumo.
Quelle volte che ci passo, il sogno ad occhi aperti è sempre lo stesso; è talmente grande, quella casa, che me la vorrei rifare, o meglio rendere abitabile, a modo mio. Tenendo la scritta e la strana figura, e trasformarla in ciò che è probabilmente già stata per un periodo: uno squat aperto a tutti, pieno di gatti, di libri e di gente che ci vive, ci sogna e ci lotta. E' una sorta di “sogno comunitario” che mi porto dietro da tutta la vita, e che ho seminato letteralmente ai quattro angoli del mondo. Le vecchie case contadine che vanno in rovina nelle periferie delle città sono il mio mondo ideale, ma non per desiderio di “oasi”; per desiderio di condivisione, di ideali, di coscienza. O così mi dico di sognare, per un minuto o una vita che sia. A questo punto del sogno, però, interviene sempre la realtà. Il presente. Gli sgomberi forzati, le ruspe, le demolizioni. Il mondo che ho in testa, che è peraltro parecchio semplice, soccombe a ciò che hanno in testa i padroni. E guardo la casa in riva al fiume coi suoi invisibili e le sue macerie. La abbatteranno, un giorno, prima che crolli da sola. Non irradierà mai ciò che ho in testa, non sono del resto nessuno perché ciò possa accadere.
E allora, una data notte, le dedico una canzone. Una canzone che avevo in testa da tanto; ma doveva trovare, stavolta, la sua musica. L'ha trovata, alla perfezione assieme alla sua struttura metrica, in una vecchia e bellissima canzone di Ricky Gianco che parla di tutt'altro (e che riporto qui sotto). Ma, forse, anche la mia parla di un amore, e di un sogno, e di una rabbia che aumenta. Me la rivedo nella notte scura del passato con la vita che ci è scorsa, coi suoi volti e le sue vite, con l'alito enorme del tempo che non si ferma.
Quando ci si passa davanti, all'angolo tra la decrepita e polverosa via dell'Isolotto e la via dello Scalo che presuppone qualche scomparso porto di barche, si hanno strane sensazioni. Qualche anno fa è stata occupata da qualcuno che ne ha disegnato la facciata, con una scritta e una strana e bella figura che avvolge una finestra. E' lo stile, che ben conosco, degli squat; ma, attualmente, dev'essere abitata da qualcuno che non vuol farsi vedere. E s'immagina perfettamente chi possa essere. Sono gli invisibili delle nostre città, che non sono soltanto invisibili. Sono anche inimmaginabili. Proibito anche figurarseli, mentre sventolano dei poveri panni e si intravede un filo di fumo.
Quelle volte che ci passo, il sogno ad occhi aperti è sempre lo stesso; è talmente grande, quella casa, che me la vorrei rifare, o meglio rendere abitabile, a modo mio. Tenendo la scritta e la strana figura, e trasformarla in ciò che è probabilmente già stata per un periodo: uno squat aperto a tutti, pieno di gatti, di libri e di gente che ci vive, ci sogna e ci lotta. E' una sorta di “sogno comunitario” che mi porto dietro da tutta la vita, e che ho seminato letteralmente ai quattro angoli del mondo. Le vecchie case contadine che vanno in rovina nelle periferie delle città sono il mio mondo ideale, ma non per desiderio di “oasi”; per desiderio di condivisione, di ideali, di coscienza. O così mi dico di sognare, per un minuto o una vita che sia. A questo punto del sogno, però, interviene sempre la realtà. Il presente. Gli sgomberi forzati, le ruspe, le demolizioni. Il mondo che ho in testa, che è peraltro parecchio semplice, soccombe a ciò che hanno in testa i padroni. E guardo la casa in riva al fiume coi suoi invisibili e le sue macerie. La abbatteranno, un giorno, prima che crolli da sola. Non irradierà mai ciò che ho in testa, non sono del resto nessuno perché ciò possa accadere.
E allora, una data notte, le dedico una canzone. Una canzone che avevo in testa da tanto; ma doveva trovare, stavolta, la sua musica. L'ha trovata, alla perfezione assieme alla sua struttura metrica, in una vecchia e bellissima canzone di Ricky Gianco che parla di tutt'altro (e che riporto qui sotto). Ma, forse, anche la mia parla di un amore, e di un sogno, e di una rabbia che aumenta. Me la rivedo nella notte scura del passato con la vita che ci è scorsa, coi suoi volti e le sue vite, con l'alito enorme del tempo che non si ferma.
Una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
quando attorno c'era il cielo, quando attorno c'era il niente
finché la città è avanzata col suo grido sconvolgente,
ora passi là davanti, col suo muro disegnato
che nasconde quattro cose di qualcuno disperato
con i resti di una cena, fantasmi di scatolette
materassi bombardati, ruggine di sigarette.
Io ci passo e mi vien voglia di sognarmi muratore,
di reinfondere la vita in quelle mura ed il calore,
desiderio che mi prende nella carne e nelle ossa
di sconfiggere il futuro, spalancare la riscossa
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
porta che non aprirai
quando la guardi e non lo sai
Certo mi potrei sognare con i gatti e coi compagni
barricare le anarchie mentre ristrutturi i bagni,
allacciare all'infinito la corrente clandestina
mentre si dà vita a un sogno e si tira a far mattina,
certo sì che si potrebbe mitragliare d'allegria,
di rifiuto e di bagliori da questa periferia,
a tre passi da quel campo coi suoi odori penetranti
di occhi chiari e di Mercedes dai sedili esorbitanti,
fisarmoniche sparate, libri e scuole sotto braccio
vecchi e donne e labbra forti sulla via del Poderaccio
mentre il cielo a primavera fa incendiare la speranza,
mille vecchie case in festa, mille fiumi in lontananza
Quella casa che non hai,
e che non hai avuto mai,
vita che non rivivrai
quando la vivi e non lo sai
Ed immagino gli incroci tra il passato ed il presente,
cappellacci con gli attrezzi per vangar l'inesistente,
e conversa il contadino col bambino pakistano,
la ragazza di campagna con il venditore indiano
e la nonna alla finestra scuote il capo ad un ragazzo
con la cresta e gli sorride come si sorride a un pazzo
i miei mondi immersi e misti, variopinti, disassati,
confusioni delle lingue dentro ai miei pensieri armati
con le mura trasparenti dei miei amori sconfinati
nelle albe e nei tramonti dove il fiume è come un mare
che non vuole mai confini, che non vuole limitare
neanche l'ieri ed il domani, neanche il tempo da oscillare
Quella casa che non sai,
che anche stanotte sognerai,
quella casa, tu lo sai,
è grande quanto i tuoi guai
Ma poi sento dei rumori e gli sguardi clandestini
mentre ondeggiano dei panni e si sfregano cerini,
c'è il nessuno alle finestre e c'è un nulla negli strami
da gommoni e da miserie, e da guerre e dalle fami,
forse scorgo aliti sporchi, forse scorgo una mano
dalle vite sconosciute che son giunte da lontano,
tiro avanti o tiro indietro, il cielo si fa bluastro,
già ti vedi all'orizzonte la ruspa del borgomastro
e divise caschi e scudi e manganelli e polizia
sgomberare e sicurezza, la ferocia e la follia
e ora vedi quelle facce miste ai vecchi contadini
e la casa in riva al fiume vola via coi suoi cerini
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
quando ci ripasserai
non sarà mai esistita mai.
Vecchia strada ormai sbarrata con i blocchi di cemento,
vecchia casa là a disfarsi coi suoi spettri controvento,
casermoni e lassù il ponte col suo traffico impazzito
mentre torno a casa a piedi con lo sguardo un po' stranito,
è una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
Quella casa che non sai,
e che non vuol morire mai,
quella porta la aprirai
se questo mondo abbatterai.
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
quando attorno c'era il cielo, quando attorno c'era il niente
finché la città è avanzata col suo grido sconvolgente,
ora passi là davanti, col suo muro disegnato
che nasconde quattro cose di qualcuno disperato
con i resti di una cena, fantasmi di scatolette
materassi bombardati, ruggine di sigarette.
Io ci passo e mi vien voglia di sognarmi muratore,
di reinfondere la vita in quelle mura ed il calore,
desiderio che mi prende nella carne e nelle ossa
di sconfiggere il futuro, spalancare la riscossa
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
porta che non aprirai
quando la guardi e non lo sai
Certo mi potrei sognare con i gatti e coi compagni
barricare le anarchie mentre ristrutturi i bagni,
allacciare all'infinito la corrente clandestina
mentre si dà vita a un sogno e si tira a far mattina,
certo sì che si potrebbe mitragliare d'allegria,
di rifiuto e di bagliori da questa periferia,
a tre passi da quel campo coi suoi odori penetranti
di occhi chiari e di Mercedes dai sedili esorbitanti,
fisarmoniche sparate, libri e scuole sotto braccio
vecchi e donne e labbra forti sulla via del Poderaccio
mentre il cielo a primavera fa incendiare la speranza,
mille vecchie case in festa, mille fiumi in lontananza
Quella casa che non hai,
e che non hai avuto mai,
vita che non rivivrai
quando la vivi e non lo sai
Ed immagino gli incroci tra il passato ed il presente,
cappellacci con gli attrezzi per vangar l'inesistente,
e conversa il contadino col bambino pakistano,
la ragazza di campagna con il venditore indiano
e la nonna alla finestra scuote il capo ad un ragazzo
con la cresta e gli sorride come si sorride a un pazzo
i miei mondi immersi e misti, variopinti, disassati,
confusioni delle lingue dentro ai miei pensieri armati
con le mura trasparenti dei miei amori sconfinati
nelle albe e nei tramonti dove il fiume è come un mare
che non vuole mai confini, che non vuole limitare
neanche l'ieri ed il domani, neanche il tempo da oscillare
Quella casa che non sai,
che anche stanotte sognerai,
quella casa, tu lo sai,
è grande quanto i tuoi guai
Ma poi sento dei rumori e gli sguardi clandestini
mentre ondeggiano dei panni e si sfregano cerini,
c'è il nessuno alle finestre e c'è un nulla negli strami
da gommoni e da miserie, e da guerre e dalle fami,
forse scorgo aliti sporchi, forse scorgo una mano
dalle vite sconosciute che son giunte da lontano,
tiro avanti o tiro indietro, il cielo si fa bluastro,
già ti vedi all'orizzonte la ruspa del borgomastro
e divise caschi e scudi e manganelli e polizia
sgomberare e sicurezza, la ferocia e la follia
e ora vedi quelle facce miste ai vecchi contadini
e la casa in riva al fiume vola via coi suoi cerini
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
quando ci ripasserai
non sarà mai esistita mai.
Vecchia strada ormai sbarrata con i blocchi di cemento,
vecchia casa là a disfarsi coi suoi spettri controvento,
casermoni e lassù il ponte col suo traffico impazzito
mentre torno a casa a piedi con lo sguardo un po' stranito,
è una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
Quella casa che non sai,
e che non vuol morire mai,
quella porta la aprirai
se questo mondo abbatterai.
giovedì 25 luglio 2013
Salari, esplosioni.
" 11 aprile 1975. Passata ora di pranzo. A Sant'Anastasia, in provincia di
Napoli, si sente un boato. La fabbrica Flobert, che produce proiettili
d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, è esplosa. Dodici le vittime,
tutte giovani. I capannoni erano situati in contrada Romani, alle
pendici del Monte Somma, nel vesuviano. Sono tanti ad accorrere sul
luogo della sciagura. Molti temono per la vita dei propri cari. “Nun se
capette 'niente”, dirà Ciro Liguoro, uno dei sopravvissuti. E niente si
capirà per molto tempo ancora.
Era un venerdì come tanti. Al lavoro quel giorno si trovavano sessanta persone, molte donne, più remissive, con le mani più piccole degli uomini e dunque più adatte ad inserire polvere da sparo nei proiettili di gomma. Nel reparto dove scoppia la scintilla che causerà la deflagrazione si trovano tredici operai, maschi, e circa 200mila cartucce, che per mesi verranno ritrovate per le vie del paese dai bambini che si divertivano a farle scoppiare. Dodici di loro muoiono sul colpo, solo uno si salva per miracolo. Cinque donne e cinque uomini subiranno gravi ferite. Pezzi dei loro corpi appaiono a 100 metri di distanza, di uno non si ritroverà nemmeno più il corpo. Due cadaveri carbonizzati verranno trovati dai primi soccorritori aggrappati a una rete, nel vano tentativo di scappare.
Venivano tutti da paesi confinanti: Sant'Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano D'Arco, Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Portici. Si conoscevano tutti: Giuseppe Mosca, 20 anni, Antonio Tramontano, 21 anni, Giuseppe Sorrentino, 22 anni, Antonio Savarese, 23 anni, Mariano Barra, 24 anni, Giovanni Esposito, 25 anni, Antonio Frasca, 25 anni, Michele Allocca, 32 anni, Michele Esposito, 34 anni, Giovanni Caruso, 35 anni, Giovanni Cerciello, 39 anni, Vincenzo Florio, 42 anni.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima. Molte delle 60 persone presenti lavoravano in nero in capannoni di legno e lamiera, privi delle più basilari norme di sicurezza. Alcuni degli operai risulteranno assunti solo 5 giorni prima dell'incidente. All'inizio si pensa che a far scattare la scintilla sia stata una cicca di sigaretta lasciata cadere da un operaio. Non è così: le inchieste successive ipotizzeranno che la causa siano alcune sostanze proibite contenute nella miscela utilizzata durante la lavorazione.
“Il padrone ci aveva chiamato negli uffici pochi giorni prima per dirci che avevamo il posto di lavoro, eravamo tutti giovani e contenti. Però, ci disse, c'è una cosa – racconta Liguori in un documentario dal titolo A' Flobert (ma pecchè per faticà pure a morte amm’affruntà) di M. Gibo Gibertini del gruppo Le Nacchere Rosse – una cosa da niente, disse. Dovete costruire dei proiettili per le pistole Flobert. Però ci assicurò che non c'era nessun problema". Pochi giorni dopo lo scoppio non c'era più nulla. Solo silenzio. Odore di morte. I funerali si tennero nella Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna dell’Arco. Tanti gli operai presenti. I pianti dei familiari delle vittime riempiono l'aria. Dei camion militari trasporteranno le dodici bare al cimitero del paese, dove tutt'ora si trova una lapide, ormai logora e vecchia, con su scritto: Pagarono con la vita il pane, la pietà del popolo li volle qui riuniti.
Una donna, che allora era poco più di una bambina e lavorava già nella fabbrica, racconta che il proprietario è morto di vecchiaia. Lei si chiama Immacolata Russo e per puro caso fu sostituita da un giovane di cui non ha mai saputo il nome, che morirà al suo posto. Imma racconterà anni dopo, in una bella intervista a Girolamo De Simone, quale era il suo lavoro: “Preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo. La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese 'vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?', cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste..., ma lei ribadì 'tu non devi fare niente, devi solo guardare'... Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più".
"Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola - prosegue il racconto di Immacolata. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi... Non ci teneva a posto, ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto. Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi... scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa. Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome”.
Era l'11 aprile del 1975. Ad ottobre dello stesso anno gli E-Zezi, gruppo operaio di Pomigliano canterà alla Festa dell'Unità una canzone rimasta indelebile nella memoria, A' Flobert, conosciuta però come Sant'Anastasia. Un canto di morte e memoria. Un pianto sulle tombe di quei dodici operai, brandelli di corpi riuniti in un unico “tavuto”, una lapide posta sulle migliaia di vittime del lavoro che ogni anno fanno vergognare il nostro paese, ma non i responsabili di tanta tragedia. " - Sara Picardo.
Era un venerdì come tanti. Al lavoro quel giorno si trovavano sessanta persone, molte donne, più remissive, con le mani più piccole degli uomini e dunque più adatte ad inserire polvere da sparo nei proiettili di gomma. Nel reparto dove scoppia la scintilla che causerà la deflagrazione si trovano tredici operai, maschi, e circa 200mila cartucce, che per mesi verranno ritrovate per le vie del paese dai bambini che si divertivano a farle scoppiare. Dodici di loro muoiono sul colpo, solo uno si salva per miracolo. Cinque donne e cinque uomini subiranno gravi ferite. Pezzi dei loro corpi appaiono a 100 metri di distanza, di uno non si ritroverà nemmeno più il corpo. Due cadaveri carbonizzati verranno trovati dai primi soccorritori aggrappati a una rete, nel vano tentativo di scappare.
Venivano tutti da paesi confinanti: Sant'Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano D'Arco, Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Portici. Si conoscevano tutti: Giuseppe Mosca, 20 anni, Antonio Tramontano, 21 anni, Giuseppe Sorrentino, 22 anni, Antonio Savarese, 23 anni, Mariano Barra, 24 anni, Giovanni Esposito, 25 anni, Antonio Frasca, 25 anni, Michele Allocca, 32 anni, Michele Esposito, 34 anni, Giovanni Caruso, 35 anni, Giovanni Cerciello, 39 anni, Vincenzo Florio, 42 anni.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima. Molte delle 60 persone presenti lavoravano in nero in capannoni di legno e lamiera, privi delle più basilari norme di sicurezza. Alcuni degli operai risulteranno assunti solo 5 giorni prima dell'incidente. All'inizio si pensa che a far scattare la scintilla sia stata una cicca di sigaretta lasciata cadere da un operaio. Non è così: le inchieste successive ipotizzeranno che la causa siano alcune sostanze proibite contenute nella miscela utilizzata durante la lavorazione.
“Il padrone ci aveva chiamato negli uffici pochi giorni prima per dirci che avevamo il posto di lavoro, eravamo tutti giovani e contenti. Però, ci disse, c'è una cosa – racconta Liguori in un documentario dal titolo A' Flobert (ma pecchè per faticà pure a morte amm’affruntà) di M. Gibo Gibertini del gruppo Le Nacchere Rosse – una cosa da niente, disse. Dovete costruire dei proiettili per le pistole Flobert. Però ci assicurò che non c'era nessun problema". Pochi giorni dopo lo scoppio non c'era più nulla. Solo silenzio. Odore di morte. I funerali si tennero nella Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna dell’Arco. Tanti gli operai presenti. I pianti dei familiari delle vittime riempiono l'aria. Dei camion militari trasporteranno le dodici bare al cimitero del paese, dove tutt'ora si trova una lapide, ormai logora e vecchia, con su scritto: Pagarono con la vita il pane, la pietà del popolo li volle qui riuniti.
Una donna, che allora era poco più di una bambina e lavorava già nella fabbrica, racconta che il proprietario è morto di vecchiaia. Lei si chiama Immacolata Russo e per puro caso fu sostituita da un giovane di cui non ha mai saputo il nome, che morirà al suo posto. Imma racconterà anni dopo, in una bella intervista a Girolamo De Simone, quale era il suo lavoro: “Preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo. La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese 'vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?', cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste..., ma lei ribadì 'tu non devi fare niente, devi solo guardare'... Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più".
"Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola - prosegue il racconto di Immacolata. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi... Non ci teneva a posto, ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto. Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi... scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa. Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome”.
Era l'11 aprile del 1975. Ad ottobre dello stesso anno gli E-Zezi, gruppo operaio di Pomigliano canterà alla Festa dell'Unità una canzone rimasta indelebile nella memoria, A' Flobert, conosciuta però come Sant'Anastasia. Un canto di morte e memoria. Un pianto sulle tombe di quei dodici operai, brandelli di corpi riuniti in un unico “tavuto”, una lapide posta sulle migliaia di vittime del lavoro che ogni anno fanno vergognare il nostro paese, ma non i responsabili di tanta tragedia. " - Sara Picardo.
Viernarì unnice aprile
'a Sant'Anastasia
n'u tratto 'nu rummore
sentiett' 'e ch' paura.
Je ascevo 'a faticà
manc'a forza 'e cammenà
p'à via addumandà:
'sta botta che sarrà.
'A Massaria 'e Rumano
'na fabbrica è scuppiata
e 'a ggente ca fujeva
e ll'ate ca chiagneva.
Chi jeva e chi turnava
p'à paura e ll'ati botte
ma arrivato 'nnanz' 'o canciello
Maronn' e ch' maciello!
Din't vuliette trasì
me sentiette 'e svenì
'nterr' 'na capa steva
e 'o cuorpo nn' 'o teneva.
Cammino e ch' tristezza
m'avoto e ncopp' 'a rezza
dduje pover' operaje
cu 'e carne tutt'abbruciat'.
Quann' arrivano 'e pariente
'e chilli puverielle
chiagnevano disperati
pè 'lloro figlie perdute.
«'O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pe pietà
pe fforza ccà adda stà».
«Signò, nun alluccate
ca forse s'è salvato»
e 'a mamma se va avvutà
sott' 'a terra 'o vede piglià.
So' state duricie 'e muorte
p'è famiglie e ch' scunfuorto
ma uno nun s'è trovato,
povera mamma scunzulata.
Sò arrivat' 'e tavute
e 'a chiesa simmo jute
p'ò l'urdemo saluto
p'e cumpagne sfurtunate.
P'e mmane nuje pigliamm'
tutti 'sti telegramm'
so' lettere 'e condoglianze
mannate pè crianza.
Atterrà l'ajmm' accumpagnat'
cu a rraggiaria 'ncuorpo
e 'ncopp' 'a chisti muort'
giurammo ll'ata pavà...
E chi va 'a faticà
pur' 'a morte addà affruntà
murimm' 'a uno 'a uno
p'e colpa 'e 'sti padrune.
A chi ajmma aspettà
sti padrune a' cundannà
ca ce fanno faticà
cu 'o pericolo 'e schiattà.
Sta ggente senza core
cu 'a bandiera tricolore
cerca d'arriparà
tutt' 'e sbaglie ca fà.
Ma vuje nun'ò sapite
qual'è 'o dolore nuoste
cummigliate cu 'o tricolore
'sti durici lavoratori.
Ma nuje l'ajmm' capito
cagnamm' 'sti culuri
pigliammo a sti padrune
e mannammel' 'affanculo.
E cu 'a disperazion'
'sti fascisti e 'sti padrune
facimmo nu muntone,
nu grand' fucarone.
Cert' chisto è 'o mumento
e 'o mumento 'e cagnà
e 'a guida nostra è grossa
è 'a bandiera rossa.
Compagni pè luttà
nun s'adda avè pietà
me chesta è 'a verità
'o comunismo è 'a libertà.
'a Sant'Anastasia
n'u tratto 'nu rummore
sentiett' 'e ch' paura.
Je ascevo 'a faticà
manc'a forza 'e cammenà
p'à via addumandà:
'sta botta che sarrà.
'A Massaria 'e Rumano
'na fabbrica è scuppiata
e 'a ggente ca fujeva
e ll'ate ca chiagneva.
Chi jeva e chi turnava
p'à paura e ll'ati botte
ma arrivato 'nnanz' 'o canciello
Maronn' e ch' maciello!
Din't vuliette trasì
me sentiette 'e svenì
'nterr' 'na capa steva
e 'o cuorpo nn' 'o teneva.
Cammino e ch' tristezza
m'avoto e ncopp' 'a rezza
dduje pover' operaje
cu 'e carne tutt'abbruciat'.
Quann' arrivano 'e pariente
'e chilli puverielle
chiagnevano disperati
pè 'lloro figlie perdute.
«'O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pe pietà
pe fforza ccà adda stà».
«Signò, nun alluccate
ca forse s'è salvato»
e 'a mamma se va avvutà
sott' 'a terra 'o vede piglià.
So' state duricie 'e muorte
p'è famiglie e ch' scunfuorto
ma uno nun s'è trovato,
povera mamma scunzulata.
Sò arrivat' 'e tavute
e 'a chiesa simmo jute
p'ò l'urdemo saluto
p'e cumpagne sfurtunate.
P'e mmane nuje pigliamm'
tutti 'sti telegramm'
so' lettere 'e condoglianze
mannate pè crianza.
Atterrà l'ajmm' accumpagnat'
cu a rraggiaria 'ncuorpo
e 'ncopp' 'a chisti muort'
giurammo ll'ata pavà...
E chi va 'a faticà
pur' 'a morte addà affruntà
murimm' 'a uno 'a uno
p'e colpa 'e 'sti padrune.
A chi ajmma aspettà
sti padrune a' cundannà
ca ce fanno faticà
cu 'o pericolo 'e schiattà.
Sta ggente senza core
cu 'a bandiera tricolore
cerca d'arriparà
tutt' 'e sbaglie ca fà.
Ma vuje nun'ò sapite
qual'è 'o dolore nuoste
cummigliate cu 'o tricolore
'sti durici lavoratori.
Ma nuje l'ajmm' capito
cagnamm' 'sti culuri
pigliammo a sti padrune
e mannammel' 'affanculo.
E cu 'a disperazion'
'sti fascisti e 'sti padrune
facimmo nu muntone,
nu grand' fucarone.
Cert' chisto è 'o mumento
e 'o mumento 'e cagnà
e 'a guida nostra è grossa
è 'a bandiera rossa.
Compagni pè luttà
nun s'adda avè pietà
me chesta è 'a verità
'o comunismo è 'a libertà.
Città S. Angelo, Pescara, 25 luglio 2013. |
" Ci vorrebbero morti. Vorrebbero vedere morti gli operai, i precari
e tutta l’Alfasud, i disoccupati e i cuozzi. Vorrebbero vedere morti, e
seppelliti, una volta per sempre, tutti i poveri maronna. Utili e
inutili. I verniciatori, i fabbri, gli imbianchini, i falegnami, i
cottimisti, i part-taim, le colf e le maestrine. E pure ’e mpagliasegge,
’e collcenter, i commessi, i facchini, i camerieri, i contadini, i
portantini, ’e guardiamachine, chille ca cogliono ’e patane e chille ca
te portano ’a pizza nfino â casa. Vulessero verè muorte ’e zingare, ’e
nire, ’e gialle, e, primm’e tutto, ’e russe. Vulessero appiccià ’e case,
’e ciardine, ’e rullotte, ’e baracche (e pure ’e cucce de’ cani) di
tutti i rom, gli immigrati, i senza tetto, i senza soldi, i senza
niente. Come hanno ucciso l’Italsider, come hanno riempito di merda e
rifiuti tossici la campagna e i quartieri, come hanno baciato la
camorra, come ne sono stati baciati e ripagati. Come hanno inquinato le
teste con piccoli e grandi fratelli, amici, markette, otto e mezzo,
quiz, lotterie, cantagiro e porte aperte. Come hanno ucciso la storia,
la geografia e la grammatica italiana. Come hanno condonato tutto
l’abuso, il pertuso, le ville, l’evasione fiscale, ’a corruzione,
’o falso in bilancio, asoretaemmammeta, il furto con destrezza, la rapina,
l’usura, Genova, la Diaz e Bolzaneto, i prestiti bancari. Con la stessa
velocità e malvagità, ci vorrebbero tutti morti. E quindi tutti muti.
Senza musica e senza voce, senza ricordo e senza allegria. Senza vino e
scarze ’a formaggio. Ma nuie l’avimme schiatta ncuorpe! So’ loro c’hanna
murì. " (Gruppo Operaio 'E Zezi)
Contusi
Dal punto di vista dell'evoluzione della lingua italiana contemporanea, sarebbe molto interessante compilare un lessico ragionato (e diacronico, reperendo le prime attestazioni dell'uso di un dato vocabolo in una particolare accezione -principio lessicografico fondante alla base, tra l'altro, dell'Oxford English Dictionary) della terminologia che si potrebbe definire "di servitù mediatica". È chiaro che molte altre definizioni sarebbero possibili; per chiarire meglio il concetto, si tratta di tutta una gamma di termini (oramai parecchio vasta) che sono utilizzati per veicolare "a battage" il pensiero unico della cosiddetta "Democrazia di inizio millennio". Anche lessicograficamente, si tratta di una cosa non di poco conto: si va dalla reimmissione in circolo di parole precedentemente in declino (come decoro) alle nuove accezioni di termini esistenti (degrado), dalla restrizione semantica (sicurezza) all'ipertrofia martellante (paura, terrore), dalla creazione di espressioni (tolleranza zero) all'antitesi (telecamera amica). Come si può facilmente vedere, sono osservati, almeno lessicalmente, i principi fondamentali della Neolingua orwelliana: certo, non si è arrivati alla creazione di un "nuovo linguaggio" anche dal punto di vista morfosintattico, ma siamo comunque di fronte a tutta una terminologia che presuppone il Crimethink, sintetizzato dalla parola fondamentale: Legalità.
Ci occuperemo qui di un termine apparentemente comune: contuso. Si tratta del participio passato di un verbo non usato comunemente, contundere (latino contundo, -is, contusi, contusum, dal significato più antico di "soggiogare", poi passato a quello di "battere, picchiare, ferire"). Del verbo italiano, oltre al participio passato, si usa praticamente soltanto il participio presente nell'espressione corpo (o oggetto) contundente. Si tratta di usi prevalentemente medici e giuridici, unitamente al sostantivo derivato contusione. Comunemente, è sinonimo pieno del comune termine "botta": se, a livello popolare, si dice "prendersi (beccarsi) una botta in testa", in un referto medico si parla di "riportare una contusione cefalica".
Da un po' di tempo, il termine contusi ha sviluppato una sua particolare accezione riservata esclusivamente alle forze di polizia. Non esiste praticamente azione di piazza, infatti, dove non si abbiano dei contusi tra le forze dell'ordine; "quindici contusi tra gli agenti a Terni", "ventotto poliziotti contusi a Chiomonte", eccetera. Alla cosa, naturalmente, viene dato un grosso risalto: essa serve a mille cose (la pura e semplice propaganda, la condanna dei violenti, le interrogazioni parlamentari, la carriera del sen. Esposito, i messaggi di solidarietà, le azioni del COISP, i titoli di Repubblica...) e può sostenere fortemente l'immagine del poliziotto che si fa "massacrare" per un misero stipendio nonché, soprattutto, giustificare arresti e repressione. Dunque, largo ai contusi. Organicamente, non potrebbe esistere alcuna azione di repressione poliziesca senza un numero vario di contusi tra i repressori.
La foto a lato mostra un gruppo di potenziali contusi in azione in Val di Susa. Come si può osservare, si tratta di truppe antisommossa dotate di potenti mezzi meccanici per il getto d'acqua ad alta pressione, e di protezioni personali capaci di assorbire urti di notevole entità (nonché, ovviamente, di armi da fuoco). Le contusioni sarebbero dovute al "lancio di pietre", fermo restando che neppure il più forzuto dei NO TAV sarebbe capace di lanciare macigni, a meno che non abbiano ingaggiato Obelix. Ricordo a tale riguardo che il record mondiale maschile del getto del peso è di m. 23,12, stabilito nel 1990 dall'americano Randy Barnes con l'attrezzo dal peso di kg 7,260, mentre quello femminile è di m. 22,63, stabilito nel 1987 dalla sovietica Natal'ja Lisovskaja con un attrezzo di 4,000 kg. Si hanno notizie di incidenti occorsi durante delle gare di getto del peso, ma naturalmente i giudici di gara impegnati nelle competizioni di atletica leggera non sono dotati di una tenuta antisommossa.
La foto a fianco mostra invece un manifestante NO TAV nelle condizioni in cui è stato prelevato dalle forze dell'ordine contuse. Si tratta di un esempio tra centinaia. Mentre qualche esponente dell'UDC o roba del genere esprime solidarietà alle forze dell'ordine, mentre i giornali parlano con toni accorati di fermare la violenza, mentre il pool di magistrati si fa addirittura trovare già sul posto con due PM "ad hoc" pronti a convalidare in loco gli arresti (come dire: sarebbe come se, quando interviene un'ambulanza per la strada, si portasse già dietro un paio di chirurghi coi ferri già pronti), mentre il sen. Esposito del Partito Democratico arriva a dire che i contusi hanno fatto benissimo a manganellare a sangue i manifestanti (inventandosi poi la classica minaccia di morte, prassi oltremodo comune; spererà forse di ricevere la solidarietà dell'ANPI ?), ecco quel che accade. Giornalmente. Ma questo post tratta di problemi squisitamente lessicali, quindi passiamo oltre.
L'immagine qui accanto mostra il sindaco di Terni, Leopoldo Di Girolamo, peraltro del Partito Democratico, nelle condizioni in cui è stato ridotto dopo una manifestazione degli operai dell'AST (ex Thyssen). Sono gli effetti nefasti degli ombrelli: come tutti sanno, infatti, dopo le prime accuse infondate di una serie di manganellate da parte di un agente, è spuntato addirittura un "video" dove si vede il sindaco colpito da un'ombrellata, la quale ha notevolmente sollevato il ministro dell'interno, Angelino X: "Sono sollevato nell'aver avuto conferma che ancora una volta la polizia
ha svolto regolarmente il suo compito di tutela dell'ordine pubblico e
dei cittadini". Comunque vada, è da notare che, generalmente, nel caso di cittadini colpiti dalle forze a "tutela dell'ordine pubblico", la terminologia si fa parecchio vaga.
C'è riluttanza estrema nell'usare il crudo termine di "feriti", anche se le foto mostrano chiaramente che non si tratta quasi mai di semplici contusi. Il manifestante e il sindaco delle foto precedenti sono feriti. Si vede sangue in abbondanza. Nel caso della Val di Susa, oltre ad essere feriti, sono non di rado arrestati e condotti in galera; ciò cui viene dato però risalto sono però le presupposte contusioni riportate dagli agenti in tenuta da battaglia. A tale riguardo, in un impeto di esattezza, ho cercato in Rete immagini di poliziotti contusi ricorrendo alle più svariate chiavi di ricerca; un'autentica desolazione. Ho soltanto trovato l'immagine che segue, dove si vedono due agenti presso la famosa rete del cantiere in atteggiamento quasi affettuoso, con uno dei due che carezza amorevolmente il casco del collega per lenire le contusioni che esso ha riportato: davvero una scena commovente.
Avendo dunque sviscerato la nuova accezione del termine contuso, resta -come in ogni lessico che si rispetti- da fornire una definizione stringata e chiarificatrice (ad esempio: Latte: liquido prodotto dalle ghiandole mammarie dei mammiferi di sesso femminile). In questa accezione si potrebbe procedere nel modo che segue: Contuso (agg. p.pass. da contundere): Detto di agenti di polizia, carabinieri (o altre forze dell'ordine ivi compresi i vigili urbani): colpito sul casco a prova di proiettile, o in altre parti del corpo coperte con ogni sorta di protezione ad alta tecnologia, da una sassatina lanciata a mani nude o da altri oggetti improvvisati, con effetti sanitari generalmente nulli ma di valore giuridico e propagandistico. Le parole sono importanti, non mi stancherò mai di dirlo; chiudo quindi con altre due immagini, molto famose.
Nella prima si vede un ragazzino palestinese nell'atto di contundere con una pietra, un carro armato israeliano, che riportò un gravissimo "tonk" sulla parte anteriore:
Nella seconda si vede invece come può reagire un agente contuso (che, in seguito, riportò ogni sorta di calorosa solidarietà per il vile atto eccetera, prima di essere condannato per molestie sessuali ad una bambina di undici anni):
mercoledì 24 luglio 2013
martedì 23 luglio 2013
Giorno più, giorno meno
Così si leggeva sul retro della maglietta di un ragazzo in piazza Macellai Messicani (o Carlo Giuliani, ex Alimonda), a Genova, sabato scorso. Vabbè, il giorno non era il ventotto, ma il ventinove di luglio; poco importa. Si potrebbe anche immaginare Gaetano Bresci la sera del ventotto, mentre magari provava la pistola o si beveva quell'ultimo mezzo litro, o qualsiasi altra cosa. Oggi, nel mese di luglio, è invece il ventitré; giorno più, giorno meno. Sembra che da qualche parte sia nato un "erede al trono" del quale non si sa ancora manco il nome; come dire, se si è re non si può nemmeno fare il classico "lo chiameremo Andrea" non appena fatta la morfologica al quarto mese, perché bisogna che il mondo stia col fiato sospeso. Un antico suddito di quella corona diceva che siamo nati per marciare sulla testa dei re, e un operaio tessile di Coiano di Prato scelse l'unico modo realmente praticabile per farlo; per il resto, vorrei farlo gentilmente presente, sono i re che continuano a marciare sulle nostre teste, anche se non hanno corone e troni. Dicono però che la "gente" ha bisogno di "favole"; e nessuna favola comincia con "c'era una volta un presidente della repubblica". Forse va anche bene così, provate a immaginarvi Biancaneve che comincia pensando a Giorgio Napolitano.
lunedì 22 luglio 2013
Global saints
Avrà sì e no una ventina d'abitanti, Gàmbaro; probabilmente, d'inverno saranno anche di meno. Fino a ieri pomeriggio non sapevo nemmeno che esistesse, sperso nella Valle del Nure sulla strada che, da Piacenza, porta a Chiavari per il passo dello Zovallo. Si passa prima dal Ponte dell'Olio, poi dalla Bàttla, la Bettola; poi la strada sale e sale, in mezzo a boschi e paesini dai nomi bizzarri tra i quali, però, ho trovato pure un assai familiare Bólgheri. E' un posto incredibilmente bello, coi cartelli che ricordano il numero preciso dei partigiani che vi sono morti tra il '43 e il '45, e che erano, in quelle plaghe, guidati dall'anarchico Canzi; posto sì di partigiani, e di minatori. Anzi, di minatori emigrati in Francia; a partire dalla Bettola, ogni paese è gemellato con Nogent-sur-Marne, dove pare che se ne siano andati tutti o quasi. La Bettola è il paese di Lazzaro (o Lazare) Ponticelli, combattente in due eserciti, morto a centodieci anni suonati e celebre per essere stato l'ultimo poilu rimasto, l'ultimo combattente francese (e forse di tutto il mondo) della Prima guerra mondiale. C'è un paese, le Ferriere, col bar delle Miniere e con in piazza non il monumento ai caduti, ma un carrello da fossa sistemato su un pezzo di rotaia. E boschi, boschi fitti da ogni parte, di quelli da aver paura a ritrovarcisi dopo una cert'ora. Li pigliavano, gli uomini della Valle del Nure, a spezzarsi le ossa nelle miniere francesi; sono i ritals di Nogent di cui narrava un loro figlio, François Cavanna. Per le strade dei paesini si vede ogni tanto, ancora, qualche macchina con targa francese; guerra e miniera, miniera e guerra, e forse non è un caso che Nogent sia sulla Marna. Ci sono soltanto persone anziane in giro, in una domenica d'estate dove si cerca invano un po' di refrigerio; fa un caldo boia anche in quota, e l'unica cosa che si riesce a rinfrescare un po' sono gli occhi nel vedere quelle bellezze. Maledetta Italia del cavolo, che razza di paese; e così, per puro caso e per voglia di fare due passi lasciando la macchina, si arriva a Gàmbaro. Una deviazione sulla strada coi cartelli di legno scritti con la vernice; da una parte a Gàmbaro e dall'altra a Prelo.
Un paesino, stupendo, e sei o sette vecchi. A un paio, forse marito e moglie, chiediamo se ci sia una panchina dove mettersi a sedere; ci rispondono che ce ne sono addirittura un paio accanto alla chiesa, e poi ci offrono di venire a casa loro a pigliare un caffè. Così, senza esserci mai visti né conosciuti; scherzano con i compaesani dicendo loro d'aver raccolto due pellegrini, così ci chiamano a me e alla Daniela, e la cosa, in quel momento, mi fa un piacere assurdo. Troviamo le panchine addossate alla chiesa; davanti c'è il monument aux morts, ché in questa valle non stona di certo chiamarlo in francese. E si vede che le guerre son riuscite a portarsi via dei ragazzi persino a Gàmbaro.
Mentre la Daniela legge qualcosa, mi stendo sull'altra panchina mettendomi lo zaino a mo' di guanciale, e mi addormento. Io sono uno dalla nanna facile, specialmente all'aperto; in più, mi piace dormirmi posti come questo. Il sonno, anche breve, dev'essere per me come la pisciatina per i cani; ci marco il territorio. E' il segno di riguardo che riservo ai posti che non mi andranno via dalla memoria, quand'anche non dovessi mai più ricapitarci com'è regionevolmente probabile per questo paesino di montagne che, prima o poi, scenderanno al mare e all'universo. Nel sonno mi vedo la Storia che ho in testa, le case di pietra me le raccontano e i minatori, i partigiani e le voci dei vecchi che ciaccolano fuori dalla casa davanti si confondono mentre il braccio destro, che tengo dormendo sul torace, si stampa di strani ghirigori prodotti dal tessuto e dalla cintura sulla pelle. Dopo un po' mi sveglio, sbadiglio, mi stiracchio e mi alzo; all'improvviso, mi ritrovo davanti, minaccioso, qualcuno. Quasi faccio un balzo di paura.
Opporcaputtanadellèva. Non me n'ero accorto. E' lì davanti a me, col suo sottanone di bronzo e il cordiglio. A braccia spalancate, come a dirmi: Pensavi forse di scapparmi? Impossibile. Non si scappa a Padre Pio. Ha preso possesso anche di Gàmbaro.
Qualche giorno fa parlavo di santi. La circostanza era, invero, parecchio buffa; però, devo confessare che sono un appassionato di santi e sante. A casa di mia madre ho ancora un enorme martirologio scritto in tedesco, lasciatomi molti anni fa in eredità da una contessa prussiana (non sto scherzando, credetemi; era Frau Gräfin Waldtraut Von Rosenow, ove Waldtraut significa "sposa del bosco", il secondo elemento è quello che ha dato luogo all'antica parola italiana drudo). Trovandomi in un posto come Gàmbaro, mi vien fatto di pensare a quale santo di campi, di boschi e di miniere avranno adorato ne' secoli quei montanari, affidandogli amori e guarigioni, miracoli ignorati già nel paese accanto e prodigi lontani dalla storia: qualche santo che, ne sono sicuro, andava a lavorare insieme loro nelle viscere della terra, e che dev'essere pure emigrato assieme a loro a Nogent-sur-Marne in mezzo ai ritals di cui l'ateo Cavanna della Val di Nure, nelle prime pagine di un suo libro, raccontava ai francesi le variopinte e bellissime bestemmie. E' per questo che a me, in Fontesanta, non dà nessuna noia ma tutt'altro la statuina della Madonna sistemata sul rifugio, alla quale quei comunisti col fucile in spalla a diciott'anni avranno pur rivolto qualche occhiata; la compagna Madonna vegliava, a modo suo. E così qualche compagno santo della Valle del Nure, al quale pure l'anarchico Canzi, sulla cui tomba in Peli di Coli è cresciuto un velenosissimo e bellissimo aconito, avrà dato rispetto; e, del resto, su in Peli di Coli il parroco, l'anno scorso, dette il sagrato agli anarchici che festeggiavano e cantavano, e poi se ne scese a valle per certi affari suoi.
Cazzo se mi garbavano quei santi là, San Gariboldo o Santa Pampalea, santa Libertaria o san Cacamosche; santi, spesso, inventati. Oppure, ma è la stessa cosa, santi della porta accanto, con le scarpacce grosse, dalla sbronza facile. San Mamiliano che si faceva squartare da vivo mentre i santilariesi si contendevano le reliquie. Ce n'era uno per ogni paesino di questa terra, e anche Gàmbaro avrà avuto il suo o la sua; finché non sono arrivati i Global Saints e si son pappati ogni cosa. Santi standard, a norma UE, regolati per legge, imposti dalla propaganda. Con le loro schiere di VIP o presunti tali. Anche Dio, Gesù e la Madonna cedono il passo, relegati in una specie di serie B dalla quale s'ignora se si risolleveranno mentre san Medjugorje e San Padre Pio fanno come il Barcellona e il Bayern Monaco.
Ed eccomelo, quindi, di fronte a me. Ma ve lo immaginate, il Forgione in Val di Nure? Ha ammazzato tutti. Passi per Gàmbaro, ti svegli e te lo ritrovi davanti; quasi ti aspetteresti che ci avesse, che so io, addosso il marchio della Nestlé o del McDonald's. In effetti, somiglia pure abbastanza a Ronald McDonald, non so se qualcuno ci ha mai fatto caso. E così, pure addosso alla chiesina di Gambaro ci hanno messo il McPio a braccia spalancate, pronto a miracolare pure me e farmi chiedere un Pioburger con patatine. E mi piglia uno sconforto terrificante; rimpiango una madonnina adorante, un gesubbambino al quale battere una pacca sulle spalle e dirgli, Oh, bella fiha, bene ci si sta quassù eh! Nulla da fare. I Global Saints hanno vinto. Le loro armate sono penetrate fino a Gàmbaro, mentre i vecchi santi sfrattati vagano per i boschi come fantasmi. O, chissà, come partigiani, preparandosi alla guerriglia. Di tempo per organizzarsi ne hanno, del resto; e me lo auguro. Sogno il giorno in cui appenderanno un Forgione di bronzo per i piedi a piazzale Loreto, e i santi minatori ripiglieranno possesso delle loro terre millenarie. Sarà, perdio, un gran giorno.
domenica 21 luglio 2013
Tempesta di cervelli
Confesso di seguire con scarsissima partecipazione le vicende legate alla ministra Cécile Kyenge. Non riesco proprio ad appassionarmi al "brand" delle donne del governo Letta, sia quelle di colore, sia quelle bionde teutoniche; altrimenti, che so io, dovrei appassionarmi anche alla Cancellieri e roba del genere, e al governo di cui tutte queste signore fanno parte a pieno titolo assieme a Angelino Alfano, a Saccomanni e compagnia brutta. Certo è che la signora Kyenge un merito, chiamiamolo così, lo ha senz'altro: negli ultimi tempi, la sua presenza è servita a scatenare una delle più possenti tempeste di cervelli che si siano viste in questo paese, che già di suo non se ne fa mancare mai una. Alla leghistaglia varia oggi si aggiunge anche il "consigliere comunale" di SEL (tale Angelo Romano Garbin, nella foto) di Cavarzere, ovviamente in Veneto, che vorrebbe lasciare la sua collega padovana (la leghista Valandro, quella che voleva far stuprare la ministra) "nelle mani di una ventina di negri". Più che una tempesta di cervelli, qui si rischia l'uragano Katrina; da far impallidire persino il Luca Dordolo, che credevo inarrivabile.
Dove avviene, naturalmente, tutta questa popo' di burrasca di poderose intelligenze? Ma su Facebook, va da sé. Da quando imperversano i social networks, è tutto un susseguirsi di eventi che sembrano seguire una scaletta fissa: le affermazioni sul proprio profilo, l'indignazziò-indignazziò, la notizia che passa subito su Repubblica, lo scàndalo, la precipitosa cancellazione delle affermazioni dal Libro de' Ceffi, le scuse e il passaggio immediato alle altre schermaglie su Twitter. Fino alla volta dopo. In effetti, così si dimostra perfettamente il famoso enunciato del "politico vicino alla gente": dai leaders fino agli ultimi eletti locali, i social networks collegano in maniera inappuntabile l'idiozia della "gente" a quella dei suoi "rappresentanti", fornendo così un quadro esatto della "democrazia": chiacchiere e stronzate da bar. Cosa che, del resto, è sempre stata: ma i social networks, e deve esserne dato loro atto, la mettono davanti agli occhi nella sua nudità e crudezza, nonché nella loro quotidianità. Il tutto, va da sé, condito con le immancabili facce: da quella di Calderoli a quella del "sellino" di Cavarzere, il quale esibisce persino il Che Guevara tatuato sull'avambraccio. Non mi sono mai interessato granché di fisiognomica, però mi viene da pensare che -perlomeno in questo paese- essa abbia un certo qual fondamento.
A quando la prossima puntata? Ci sarà mai una variazione? Che so io, il leghista che vuol far stuprare Patroni Griffi e il sellino che gli risponde minacciandolo di lasciarlo nelle mani di Quagliariello (così vediamo un po' se si fanno le "riforme costituzionali"...?) L'ardua sentenza alle prossime facebuccate e/o twittate.
domenica 14 luglio 2013
Perché il 20 luglio andrò a Genova
Io credo che, il 20
luglio a Genova, saremo in pochi.
Sono passati dodici anni.
Il tempo sembra andare ancora più veloce di prima; non so se sia a
causa dell' “era telematica” o di qualche altra cosa. Ultimamente
ho avuto modo di fare due chiacchiere con dei ragazzi e delle ragazze
di una ventina d'anni circa, e non sono ragazzi disimpegnati.
Qualcuno milita in dei movimenti antagonisti e ci ha anche già un
paio di denunce sul groppone; anche se, ora come ora, per beccarsi
una denuncia (o anche peggio) basta davvero poco. Bene; la situazione
è piuttosto curiosa. Tutti conoscono il nome di Carlo Giuliani, ma
come una specie di icona. Quasi fosse morto non dodici, ma
centododici anni fa; in alcuni casi, slegato totalmente dagli
avvenimenti. Due o tre di questi ragazzi, che pure conoscevano il
nome di Carlo Giuliani, mi hanno detto di non sapere che era stato
ammazzato a Genova nel 2001. Nel 2001 avevano sette, otto anni; dei
bambini. Il venti di luglio di quell'anno è probabile che stessero
facendo il bagno e giocando su una spiaggia, come del resto è giusto
che sia.
Sono stato ben lontano
dallo scandalizzarmi e dal cedere alla tentazione di fare la solita,
pedante e stantia “lezione di memoria” a quei ragazzi. Mi sono
quasi rotto le scatole della “memoria generazionale” o roba del
genere. Non voglio correre il rischio di trasformarmi nel solito
trombone degli anni '70, tutto piagnistei sulla rivoluzione sognata,
“disillusioni” e pappardelle del genere. Di fronte a me avevo
ragazzi qualunque, che il loro mondo lo hanno visto e lo vedono così
com'è, sulle loro spalle. E allora bisogna accettare ogni cosa,
anche che un ragazzo ammazzato dallo Stato dodici anni fa sia
diventato una specie di nome che vola, uno che c'è e non si sa, un
sentito dire, una palla di gomma alla deriva nel mare.
Anche e soprattutto per
questo andrò a Genova. Dovessimo essere pure in venti in quella
maledetta piazza che, è inutile fare, continua imperterrita a
chiamarsi “Alimonda”. Non esiste nessuna “piazza Carlo Giuliani
ragazzo” con tanto di cartello, in questo paese; e forse, ora che
ci penso, è meglio così.
C'è una cosa che quei
ragazzi hanno ben presente, anche senza sapere bene quel che accadde
a Genova in quei giorni. Hanno ben presente che, senza nessun “G8”,
senza nessun assalto alla Diaz, senza nessuna macelleria messicana,
potrebbe toccare anche a loro. Prelevati e portati in questura per
una scritta o una testimonianza scomoda su cose che hanno visto e non
dovevano vedere. Tritati senza aver tirato nessun estintore al
carabiniere. Intimiditi, impauriti, spauriti così, diciamocelo forte
e chiaro, lo siamo tutti senza nessuna distinzione di età. Questo lo
sanno senza nessun bisogno di icone; lo sanno per la loro storia di
tutti i giorni.
E allora si va a Genova,
in quella piazza, senza nessuna “celebrazione” vuota di senso. Ci
si va per vedere a quale punto miserevole siamo arrivati, e per
cercare di constatarlo definitivamente e senza false illusioni. Ci
si va per toccare uno sfacelo, perché di fronte allo sfacelo è bene
non fare come gli struzzi. Ci si va non per una canzone o uno slogan;
ci si va per non arrendersi, certo, ma si deve anche essere coscienti
che la resa avviene ogni giorno quando ci si rinchiude nei ghetti che
ci hanno preparato. Piazza Alimonda, il venti di luglio di ogni anno,
è uno di quei ghetti. Un ghetto volante. Mi ritrovo a pensare che
sarebbe meglio rivedersi in un'altra piazza, una qualsiasi, persino
non di Genova; e occuparla. Quel che altrove fanno, tra gli eserciti
e la merda, tra i lacrimogeni e gli spari, tra ogni cosa e il suo
contrario.
Ci vado e ci si va, in
quella piazza, con queste cose in testa. Lo dirò se ne avrò modo;
oppure me lo terrò per me, con un panino in mano e con davanti facce
che conosco e non conosco. E niente memoria. Non c'è più da
prenderla a pretesto. Fare conto che tutti quanti, anche se c'eravamo
con la polizia alle calcagna, anche se ci hanno presi e portati via,
anche se siamo dovuti scappare senza sapere nemmeno dove si andava,
avessimo tutti sette o otto anni. Forse, ora che ci penso, è questo
l'unico modo plausibile per dire che “Carlo vive”, perché ogni
anno che passa è invece sempre più morto in modo direttamente
proporzionale a quanto lo “ricordiamo”.
Riprenderci quella piazza
come se fosse uguale a ogni altra, di ogni città, di ogni paese. Ci
sarebbe forse il caso, allora, di vederselo rispuntare per davvero,
Carlo Giuliani. Sotto altri nomi, magari quelli di quei bambini del
2001 che volevano giocare mentre un qualche suo genitore sbiancava in
volto con una radiolina all'orecchio. Mentre a Bolzaneto si alzavano
grida che nessuno sentiva. E' per questo che bisognerebbe andarci, in
piazza Alimonda, finché quella piazza non si levi e decida di
chiudere il discorso, una volta per tutte, nell'unica maniera
possibile.
Credo che saremo in
pochi.
Credo che saremo, ognuno,
con la propria solitudine ed il proprio smarrimento.
Credo che, sul treno,
farò qualche sogno.
Credo.
Paragoni
" La stupidità militare e l'immensità del mare sono le due sole cose che sappiano dare un'idea di infinito. "
= Fred Vargas =
lunedì 8 luglio 2013
Il vizio del fumo
Fumare costa. Certo, con quel che ho avuto un par d'anni fa, una cosa del genere non dovrei neppure scriverla per ischerzo; ma è stato tutto inutile. Conoscendomi a sufficienza, non ho nemmeno azzardato i classici buoni propositi, neppure di fronte ai toni quasi minacciosi dei medici della riabilitazione cardiaca; sono stato ufficialmente riabilitato, mi sono sentito un po' tipo Bucharin cinquant'anni dopo ch'era bell'e morto, e comunque ho smesso di fumare le sigarette. Da due anni circa fumo dei cigarillos, marca "Che Sauvages", un mozzicone dei quali si vede nel portacenere nella foto (che svela al mondo anche la postazione di non-lavoro dell'Asociale). Sinceramente, ho un po' "composto" la foto; figuriamoci se tengo sul piccì un bicchierino con due gelsomini e la tessera sanitaria. Però il resto è veritiero, compresa la mia tazza con i Simpson; il computer mostra una pagina eBay in cui un tizio di Imola mette in vendita (a tre euri più spedizione) una scatola vuota di Che Sauvages; se non ci credete, andate a vedere qui.
Piena costa, da pochi giorni, sei euri e venti centesimi. Contiene venti cigarillos; prima costava cinque euri e novantacinque. Le mie quantità giornaliere sono estremamente variabili; ci son dei giorni che riesco a fumarne non più di cinque o sei, e dei giorni in cui me ne fucilo una scatola intera. In generale, d'inverno fumo molto di più; il che rende casa mia una ghiacciaia, perché fra fumo e gatto libero tengo due finestre aperte fisse, oltre ai finestrini soprapporta all'ingresso. Mi ci sono abituato; m'infilo tre maglioni e campo felice, almeno finché campo. Di conteggi mensili quanto al fumo non ne fo mai; sarebbe inutile, una perdita di tempo. Il sigaro mi ha fatto veramente dimenticare le sigarette; a volte ne fumo ancora qualcuna, perché le scatole dei "Che" non entrano di certo nelle macchinette e, a dire il vero, neppure si trovano da tutti i tabaccai. Ma mi fanno veramente schifo, oramai. Mi sono fatto una specie di "geografia" dei tabaccai che, a Firenze, vendono i Che; a sera e a notte ce ne sono soltanto due, di cui uno in un'area di servizio dell'A-11; va da sé che, da quando mi son ritrovato motorizzato a pie', non ci posso più andare.
Qualche giorno fa, sembra che il vizio del fumo abbia fatto una vittima non preventivata; non il solito cancro o il solito infarto, insomma. Non il "lento suicidio" di cui si legge sempre in lingua giornalese (accanto ai "freddati" e alle "giovani vite spezzate all'alba", insomma), ma un suicidio velocissimo. Si tratta di un giovanotto di ventisei anni, di professione muratore, che, in Brianza, si è sparato in casa sua. Causa presunta: ancora una volta la crisi. Lo scenario consueto dei "suicidi buoni", quelli senza più lavoro-senza futuro-senza speranza che si ammazzano per le lagrime di Repubblica e per le "accuse allo Stato" il quale si lascia cortesemente accusare, con garbo e partecipazione, per poi escogitare, che so io, i decreti del fare e l'abolizione delle province. L'altro giorno ho immaginato che questo sia il primo passo: prima si aboliscono le province, poi le regioni e poi lo Stato intero. Si abolisce da solo. Si suicida anche lui per la crisi. Sai ganzo!
Insomma, tornando al povero giovanotto brianzolo che non trovava più lavoro, che non poteva essere più indipendente e compagnia bella (queste, naturalmente, sono le stronzate che si leggono sui giornali), mi ha particolarmente colpito una cosa dichiarata da un parente. Negli ultimi tempi, il ragazzo andava dicendo che "non poteva più nemmeno comprarsi le sigarette". Insomma, prima di arrivare a spararsi, che è comunque un gesto estremo, avrebbe potuto dire che non poteva più comprarsi da mangiare, o mettere venti euri di benzina, o ricaricarsi il telefonino, o andare al cinematografo o allo stadio; no. Come parametro dell'avvenuta sua discesa nel baratro, aveva scelto le sigarette. Il fumo, insomma. E il fumo bisogna comprarselo.
Ho perso un po' di dimestichezza coi prezzi delle sigarette, ma quando vo dal tabaccaio vedo che, più o meno, si va dai quattro euri e trenta ai cinque a pacchetto. E il gioco è chiarissimo: nonostante le "campagne antifumo", in una situazione del genere la gente non smette di fumare proprio un cazzo. "Il fumo uccide", ma in un certo senso aiuta pure una variegata, e vasta, gamma di disgraziati a vivere; e si badi bene che, col termine di "disgraziati", io non intendo soltanto quelli per cause economiche. Tutt'altro! Quando, a un certo punto, le condizioni diventano tali che non ci si può più nemmeno permettere di spendere una decina di euri al giorno per comprarsi le sigarette, ecco che all'orizzonte si profilano la pistola, la corda insaponata o la finestra al quarto piano. E così si raggiunge finalmente l'ambitissimo scopo che l'umanità intera si è data: smettere di fumare.
Nonostante tutto, sembra che il bravo Preiti non abbia fatto granché scuola; e, così, le pistole sono tornate rassicurantemente ad essere rivolte verso se stessi. Questa storia delle sigarette brianzole promette di essere interessante e di aprire nuovi scenari; tirano un sospiro di sollievo quelli di Equitalia e delle banche, avete visto che non è sempre colpa nostra, non ci si ammazza soltanto per una cartella esattoriale o per un fido rifiutato, e magari Befera ora pensa a mettere aree fumatori negli uffici. Se potessi, piglierei quel giovanotto brianzolo e gli direi che, se era proprio question di fumare, avrebbe potuto arrangiarsi tranquillamente; come si faceva quando s'era poveri. O non si è poveri anche ora, come si legge un giorno sì e un giorno sì? Non si farà la rivoluzione, ma almeno ci si potrebbe comportare da poveri invece d'ammazzarsi perché non si hanno le sigarette da comprare. Dire di essere poveri mentre ci si comporta ancora come se si fosse ricchi non torna molto; si riapprenda dunque a fare i poveri, ché poi qualcosa succede. Invece di dar retta alle puttanate sulla ripresa e sul lavoro per i giòvani.
Per esempio, non s'ha da fumare? Non importa mica "comprarsele", le sigarette. Un po' si scroccano, certo; anche per la strada. Chiedere una sigaretta a un estraneo non è mica un reato, al massimo venti ti dicono di no ma uno prima o poi lo trovi. Poi si rifumano le cicche. Io non mi vergogno di certo di dir di farlo, anche se coi cigarillos è più semplice. Oppure si fa come i vecchi ciccaioli.
Il ciccaiolo andava per le strade munito di un bastone con un puntale, e a volte con una lanterna; col puntale infilzava le cicche belle "grasse" (cioè quelle di sigarette fumate poco, nelle quali c'era ancora parecchio tabacco) e le metteva in un sacco. Le disfaceva, raccoglieva il tabacco, e poi se lo fumava o lo rivendeva. In un periodo in cui è tornato molto in auge farsi le sigarette col tabacco sciolto e le cartine, si tratta di un antico mestiere che raccomanderei vivamente, per esempio, ai muratori ventiseienni disoccupati con propositi suicidi. E che non hanno più da fumare. Ce ne sarebbero parecchi, di codesti antichi mestieri, che dovrebbero essere riconsiderati attentamente. Ultimamente ho rivisto in giro, dopo decenni, negozietti dove si effettuano rammendi e piccole riparazioni di ogni tipo. Che ve lo ricordate quando si guastava il tostapane o il rasoio per una bischerata, e si buttava via tutto per ricomprarsi un apparecchio nuovo? Ora lo si fa riparare.
Insomma, sarà meglio fumarsi le cicche raccolte per la strada, fregandosene degli acari, dei germi e del salutismo, oppure spararsi in camera a ventisei anni? Sarà meglio il suicidio lento, che una mia zia la volevan fare smetter di fumare a novantatré anni e aveva cominciato a dodici, o il suicidio veloce, 'ntrasatt'? Constato che non pensa mai abbastanza alla nostra salute lo stesso Stato che ce la leva ogni minuto, in forma di balzelli, di cacciabombardieri, di polizie, di scuoledìaz, di spread, di bombe sui treni, di qualsiasi cosa. Però vuole che smettiamo di fumare (vendendo per altro i tabacchi in regime di monopolio, e lucrandoci parecchio sopra perché i prezzi aumentano sempre per tutelare la salute, e mai per farci soldoni a palate da distribuire ai Batman vari). Sarebbe bene allora organizzarsi per andargli in culo, e non suicidarsi perché ti hanno ridotto a non poterti nemmeno più comprare un pacchetto di sigarette che costa oramai quanto due chili di pane, o come due di quei gratta e vinci coi quali lo stesso Stato spenna le pensionate al minimo. Bastone, puntale, lanterna e via. Tanto si muore lo stesso, e altro che di cancro.
giovedì 4 luglio 2013
Il Superstronzo, l'Astrologa e i Santi
Ma lo sapete che, ultimamente, c'è persino qualche "canarino Titti" che va tuittando in giro che ci avremmo i "santi"? Due di codesti "santi" li vediamo nel filmato sopra (girato dal regista genovese Gian Luca Valentini e rimasto inedito) nei panni, rispettivamente, di un imprenditore senza scrupoli e di un'astrologa che legge la sfera di cristallo; a costoro, che sono morti di recente, i tuittatori di cui sopra pare che aggiungano due che morti non lo sono ancora (Dario Fo e Gino Strada, per la precisione) e due altri morti (male) diverso tempo fa, Falcone e Borsellino.
Ohibò; e così il sottoscritto, che ha ricordato qua dentro sia Andrea Gallo che Margherita Hack si ritrova, all'improvviso, negli insoliti panni di veneratore di santi. E pensare che l'unico "santo" di questo blog è il "S. Pietrino protettore dei manifestanti" che campeggia nel santino nell'immagine a sinistra! Lungi da me, naturalmente, voler controbattere agli ignoti adepti dei messaggini SMS a 140 caratteri; proprio non mi interessa. Diciamo che invio una piccola risposta a me stesso, che è una cosa alquanto più corretta. Mi giro attorno e, per tutti gli sforzi che io faccia, non vedo altarini, tabernacoli o sacelli. Di Falcone e Borsellino men che mai; sugli "eroi antimafia", anzi, ho delle opinioni del tutto mie che mi astengo dall'esprimere qui perché non ho la benché minima intenzione di essere messo pubblicamente alla gogna come il calciatore Miccoli (il cui linciaggio mi ha fatto, debbo dirlo, letteralmente inorridire; anche se così impara a andare alle "partite del quore" e altre simili stronzate).
Quanto agli altri quattro, morti o vivi che siano, non ho proprio nessun tipo di "venerazione" agiografica; erano semplicemente due persone che mi ispiravano, e continuano ad ispirarmi, una notevolissima simpatia (e direi che si tratta di una cosa legittima, al pari dell'antipatia). Non hanno sempre detto e fatto cose che mi corrispondevano appieno (penso ad esempio alla "costituzione" brandita da Andrea Gallo ad ogni pie' sospinto); ma ho smesso da un bel po' di tempo di rapportarmi esclusivamente a presupposti "compagni di strada" che s'incastrino troppo con quel che sono e cerco (assai imperfettamente) di portare avanti. Debbo confessare che sono assai geloso del mio assoluto individualismo come persona, anzi della mia unicità; sarebbe, quindi, del tutto inutile cercare altri "me stessi" perché non ce ne sono proprio.
Ho incontrato sulla mia strada, diciamo, un due o tre "me stessi" verso i quali, è vero, ad un certo punto ho rischiato seriamente la venerazione; e con tutte e tre queste persone è andata a finire malissimo. Ma si vive per imparare e, alla fin fine, se ne esce con le buone o con le cattive. Se c'è quindi una cosa che proprio rifiuto, è la venerazione e il pendere dalle labbra. Figuriamoci da quelle di un prete un po' fuori dagli schemi e di un'astrofisica (io, poi, bocciato morale in ogni materia scientifica fin dai tempi dell'asilo infantile cui, peraltro, non sono manco andato). O di un medico, o di uno scrittore di teatro e d'altre cose (i due mandaingalera pentitisti non li prendo manco in considerazione). Ciò non toglie che rivedere quei due, morti da poco, interpretare a sberleffo ciò che nella loro vita non sono stati affatto, mi dice parecchie cose e me li fa umanamente mancare (anche se, ovviamente, mai li ho conosciuti di persona; e, comunque, anche la cosiddetta "conoscenza personale" significa assai poco).
Vorrei credere che sia così anche per tutti coloro che, in questi giorni, hanno espresso qualsiasi cosa nei confronti di quelle due persone. Nessun "santo" ma semplicemente due che hanno detto e fatto qualcosa di degno (e, sottolineo, "qualcosa"; non tutto, in blocco e acriticamente). E basta così. Scusatemi ora, ché devo andare a preparare la petizione affinché la collina di Santa Margherita a Montici, proprio dietro Arcetri, sia ribattezzata "Santa Margherita Hack"; e se penso che, là vicino, esiste anche la Torre del Gallo...
Quanto agli altri quattro, morti o vivi che siano, non ho proprio nessun tipo di "venerazione" agiografica; erano semplicemente due persone che mi ispiravano, e continuano ad ispirarmi, una notevolissima simpatia (e direi che si tratta di una cosa legittima, al pari dell'antipatia). Non hanno sempre detto e fatto cose che mi corrispondevano appieno (penso ad esempio alla "costituzione" brandita da Andrea Gallo ad ogni pie' sospinto); ma ho smesso da un bel po' di tempo di rapportarmi esclusivamente a presupposti "compagni di strada" che s'incastrino troppo con quel che sono e cerco (assai imperfettamente) di portare avanti. Debbo confessare che sono assai geloso del mio assoluto individualismo come persona, anzi della mia unicità; sarebbe, quindi, del tutto inutile cercare altri "me stessi" perché non ce ne sono proprio.
Ho incontrato sulla mia strada, diciamo, un due o tre "me stessi" verso i quali, è vero, ad un certo punto ho rischiato seriamente la venerazione; e con tutte e tre queste persone è andata a finire malissimo. Ma si vive per imparare e, alla fin fine, se ne esce con le buone o con le cattive. Se c'è quindi una cosa che proprio rifiuto, è la venerazione e il pendere dalle labbra. Figuriamoci da quelle di un prete un po' fuori dagli schemi e di un'astrofisica (io, poi, bocciato morale in ogni materia scientifica fin dai tempi dell'asilo infantile cui, peraltro, non sono manco andato). O di un medico, o di uno scrittore di teatro e d'altre cose (i due mandaingalera pentitisti non li prendo manco in considerazione). Ciò non toglie che rivedere quei due, morti da poco, interpretare a sberleffo ciò che nella loro vita non sono stati affatto, mi dice parecchie cose e me li fa umanamente mancare (anche se, ovviamente, mai li ho conosciuti di persona; e, comunque, anche la cosiddetta "conoscenza personale" significa assai poco).
Vorrei credere che sia così anche per tutti coloro che, in questi giorni, hanno espresso qualsiasi cosa nei confronti di quelle due persone. Nessun "santo" ma semplicemente due che hanno detto e fatto qualcosa di degno (e, sottolineo, "qualcosa"; non tutto, in blocco e acriticamente). E basta così. Scusatemi ora, ché devo andare a preparare la petizione affinché la collina di Santa Margherita a Montici, proprio dietro Arcetri, sia ribattezzata "Santa Margherita Hack"; e se penso che, là vicino, esiste anche la Torre del Gallo...
martedì 2 luglio 2013
Saluta e se ne va.
Cesare Batacchi, 1849-1929. |
Questa cosa è
dedicata al Sassicaia Molotov, livornese, macchinista teatrale.
Nel caso di post molto lunghi, sono solito segnalarlo prima; e questo è lunghissimo. Chi lo volesse leggere, farà forse meglio a stamparselo e procedere con calma; diciamo che non può essere concentrato in centoquaranta caratteri.
Cesare Batacchi era nato
a Firenze, in Santa Croce, il 4 settembre 1849. Precisi riferimenti
fanno credere che fosse nato in Borg'Allegri; e, a Firenze, ancora
poco tempo fa dire “Borg'Allegri” era sinonimo di strada tra le
più malfamate. E' capitato anche a chi scrive, quando da ragazzo si
lasciava andare a qualche intemperanza condita da un linguaggio non
propriamente da scuola di belle maniere, di sentirsi dire da
qualcuno: “Ma che vieni da Borg'Allegri?...”; insomma, la Santa
Croce che è stata. Ai tempi del Batacchi, poi, probabilmente non ce
la possiamo nemmeno lontanamente immaginare.
Firenze: Borgo Allegri. |
Era nato, come recitano
le scarne note biografiche dell'Archivio del Movimento Operaio, “da
Pietro e Carolina Ciulli”; tutti cognomi fiorentini del popolo.
Così, per curiosità, piglio l'elenco del telefono d'oggigiorno e vo
a vedere; sia pur nell'insignificante opuscolo che è diventato ora
l'elenco, a Firenze risultano ancora una venticinquina di Batacchi e
ancor più Ciulli; chissà che qualcuno non sia un lontano
discendente di Cesare Batacchi. Faceva il falegname; poi diventò
macchinista teatrale al Comunale, che allora si chiamava ancora
Politeama Fiorentino (prese
il nome di “Teatro Comunale” solo nel 1933). Ci era andato a
lavorare da poco in teatro, il Batacchi; e, del resto, era un teatro
nuovo. Era stato inaugurato nel 1862, ma già un anno dopo era andato
completamente a fuoco provocando morti e feriti; poi era stato
ricostruito tale e quale.
Le “scarne note
biografiche” dicono che Cesare Batacchi era diventato anche membro
dell'AIL, vale a dire l'Associazione Internazionale dei Lavoratori
cominciatasi a formare a Londra nel 1862 e che, in Italia, si
identificava con l'anarchismo. Anarchico internazionalista, insomma;
nulla di più facile, nella Firenze di quel periodo. Assieme a
Napoli, Firenze era in pratica la “capitale” dell'anarchismo
italiano, o comunque una delle città in cui il movimento
internazionalista si presentava più forte. Alla fine dell'anno 1873,
a Firenze era stata costituita la sede della commissione di
corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana, e di conseguenza
la città era diventata il centro dell'organizzazione
internazionalista in Italia. All'inizio del 1874 Cesare Batacchi
risultava in stretto contatto con gli anarchici Natta, Ceretti e
Scarlatti i quali, a loro volta, erano in contatto diretto con
Michail Bakunin.
Bakunin. |
Sono anni, quelli, di
spaventoso fermento. I congressi dell'AIL di Bologna nel marzo 1872,
e di Rimini nel maggio successivo, sanciscono il predominio
dell'anarchismo rispetto al marxismo nella penisola italiana;
inoltre, fallisce miseramente la Prima Internazionale e gli anarchici
ne fuoriescono in blocco abbracciando quanto propugnato da Bakunin.
Si crea, in pratica, un clima prerivoluzionario in Italia, e
specialmente in alcune regioni italiane. Sarà a questo punto bene
ricordare quanto affermato da Carlo Cafiero e Errico Malatesta al
congresso dell'Internazionale Antiautoritaria di Berna, nel 1876: «La
Federazione Italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad
affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di
propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere
le masse possa penetrare nei più profondi strati sociali...».
Il
1874 è, in Italia, anno di tentativi di insurrezione. Il più famoso
è senz'altro quello di Bologna e di Imola dell'agosto di quell'anno,
cui presero parte, oltre allo stesso Bakunin, Cafiero, Malatesta e
Andrea Costa; ma altri conati insurrezionali si ebbero
contemporaneamente nelle Marche, a Roma, in Puglia, e a Firenze. A
questi ultimi Cesare Batacchi doveva aver preso parte; da buon
borgallegrino qual era, aveva peraltro già subito condanne per
resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, una specialità che in
Santa Croce sapeva esplicarsi ancora nel 1966, quando gli abitanti
presero a copiose manate di fango addosso una jeep contenente anche
il presidente della repubblica, Saragat, che era venuto a vedere come
stavano i fiorentini dopo l'alluvione. Fu arrestato assieme a altre
decine di persone, e tutti furono mandati a processo nel 1875.
Imputati per il tentativo insurrezionale erano, oltre agli anarchici,
anche i repubblicani; il processo voleva essere anche una delle
“risposte dello Stato” (mi ricorda qualcosa) alla diffusione
dell'anarchismo nell'Italia “post-unitaria”, quella tanto
celebrata un par d'anni fa con le bandierine alle finestre. Il
processo di Firenze assunse un'importanza nazionale; e qui va notata
la condotta di Cesare Batacchi e di tutti gli altri anarchici.
Probabilmente per una precisa strategia, ed anche perché durante
l'insurrezione avevano fatto attenzione a coprirsi ben bene (pratica
sempre raccomandabile), si proclamarono totalmente estranei ai fatti
(“chi, io, un onesto lavoratore?!?!....”); e furono tutti
mandati assolti per insufficienza di prove. Fu così che il Batacchi
cominciò a costruirsi il suo destino di capro espiatorio, che lo
avrebbe colpito poco dopo assieme ad altri. Detto in parole povere:
era loro andata bene con la magistratura, e si preparavano quindi le
contromisure di polizia nelle questure del Regno. Quelle chiamate
generalmente “operazioni”.
L'arresto della Banda del Matese (1877) |
In
questo, le questure, che stavano attente, furono facilitate anche dal
dissidio interno tra gli internazionalisti, che opponeva gli
“estremisti”, vale a dire gli anarchici -per i quali, allora,
sarebbe stato inutile l'epiteto di “insurrezionalisti” perché
l'insurrezione era la prassi generalizzata- e i cosiddetti
“evoluzionisti”. Il colpo subito con le fallite insurrezioni del
1874 era stato duro, però la riorganizzazione era stata rapida e
aveva confidato in una “maggiore tolleranza” da parte della
“Sinistra”, che nel 1876, con il governo Depretis, era succeduta
alla “Destra”. Naturalmente, fu proprio dalla “Sinistra” di
Depretis che gli anarchici ricevettero il colpo mortale; emmenomale
che la storia dovrebbe essere “maestra di vita”. L'occasione fu
il tentativo insurrezionale nell'Italia meridionale, avvenuto
nell'aprile del 1877 e più noto come Banda del Matese; con il suo
fallimento, non si perse occasione per porre sotto accusa
l'organizzazione davanti alla opinione pubblica nazionale.
Ancor
più sfruttato fu l'attentato che l'anarchico individualista Giovanni
Passannante (nato a Salvia di Lucania nello stesso anno del Batacchi,
il 1849) realizzò a Napoli il 17 novembre 1878 nei confronti di re
Umberto I servendosi di un micidiale temperino (la storia successiva
insegnerà che per “marciare sulla testa dei re”, quella cosa per
cui saremmo nati secondo Shakespeare, ci vuole ben altro, tipo una
bella pistola). Su un fazzoletto, l'anarchico lucano scrive: «A
morte il re! Viva la Repubblica Universale». In una Napoli festante
accorsa a salutare il passaggio della real coppia, Passannante tira
fuori il temperino (lama di centimetri otto!), si avvicina alla
carrozza e cerca di colpire il sovrano, beccandosi però dalla regina
una “fiorata” addosso (vale a dire: l'attentatore fu colpito con
un mazzo di fiori), la quale devia il colpo sul ministro Cairoli che
ne riporta una ferita alla gamba. Il re, invece, riporta un semplice
graffio, sufficiente per scatenare sugli anarchici, oltre che la
repressione più violenta e capillare che mai si fosse vista, anche
la cosiddetta “rabbia popolare”.
Giovanni Passannante. |
In
mancanza di radio e televisione di regime, si ricorre ad ogni cosa
disponibile sul mercato; ad esempio, il “vate” Giosuè Carducci,
che scrive, in onore del “re buono” scampato al vile
attentato, la famosa Ode alla Regina. Mentre Passannante
viene tritato (prima condannato a morte, poi “graziato” e spedito
ad una sorte ben peggiore della morte nel forte della Linguella a
Portoferraio, dove impazzirà), mentre persino il paese di Salvia
deve espiare la colpa di aver fatto nascere quel “mostro” e deve
cambiare nome in “Savoia di Lucania” (che porta tuttora!), un
altro poeta ha il coraggio di scrivere, e di declamare pubblicamente,
un Inno a Passannante; si chiama Giovanni Pascoli, e la cosa
gli costerà l'arresto. In seguito, Pascoli si “ravvede” e
distrugge l'inno (ne restano solo i due versi finali); ma durante il
suo processo, esclamerà: «Se questi sono i malfattori, evviva i
malfattori!».
Il
giorno successivo, il 18 novembre 1878, si organizzano in tutta
Italia manifestazioni di appoggio alla monarchia e di ringraziamento
a Dio per aver preservato il “re buono” dal feroce anarchismo; in
una di esse, a Pisa, viene lanciata una bomba nel corteo, che non fa
nessuna vittima. Viene comunque arrestato un anarchico, Pietro
Orsolini, che nonostante le prove di assoluta estraneità ai fatti
viene sbattuto in galera a Lucca, dalla quale non uscirà che morto,
nel 1887). A Firenze invece, durante un'analoga manifestazione di
giubilo e ringraziamento (nonché, ovviamente, di “rabbia popolare”
antianarchica) viene lanciata un'altra bomba, al passaggio del corteo
in via Nazionale (così era stata ribattezzata l'antica via
Tedesca; figuriamoci se in quella che, per qualche anno era stata
capitale del Regno, ci poteva essere una via con un nome del
genere!); e stavolta è una strage. Il re sarà anche “scampato al
pericolo”, ma non scampano alla bomba tre fiorentini che
festeggiano l'intervento divino che ha deviato la lama di
Passannante, e che ci rimettono la pelle mentre un altro resta ferito
grave.
Firenze: via Nazionale (allora "Via Tedesca") in una foto del 1849. |
Facciamo
un passo indietro. Circa tre settimane prima di andare a Napoli,
nell'ottobre 1878, re Umberto I si era recato in visita anche a
Firenze ed erano scattati, come da prassi, gli arresti preventivi
riservati agli “elementi pericolosi”. Uno di questi era toccato a
Cesare Batacchi, al quale era toccato rimanere in galera anche nei
giorni successivi; un altro era toccato alla famosa Anna Kuliscioff,
che si trovava a Firenze. Il Batacchi viene rilasciato esattamente il
18 novembre, due ore prima dell'attentato di via Nazionale; e
viene arrestato immediatamente come suo autore, nonostante si premuri
di fornire anche per quelle sue due ultime ore di libertà un alibi
validissimo e confermato da più persone (era andato al teatro
Comunale a lavorare). Il fatto è che al Batacchi, come ad altri
anarchici, deve essere fatto pagare carissimo il semplice fatto di
essere tali; anche il suo “rilascio” prima dell'attentato assume
il valore di una trappola predeterminata; assieme a lui vengono
arrestati altri sei anarchici.
Il
processo si apre a Firenze il 31 marzo 1879 ed appare immediatamente
chiaro che non soltanto gli arresti degli anarchici, ma l'attentato
stesso hanno tutta l'aria di essere provocazioni poliziesche (al pari
di quello di Pisa). Come dire: una perfetta “strategia della
tensione” con bombe piazzate dallo Stato una novantina d'anni prima
di Piazza Fontana, ma con risultati che mostrano notevoli analogie.
Cesare Batacchi potrebbe essere definito il Valpreda del 1878, in
tutto e per tutto: così come nel 1969 furono fabbricati dalla
polizia falsi testimoni (come il famoso tassista Rolandi) per
incastrare l'anarchico, nel 1878 la questura ricorre ad un ladro
confidente della polizia (tale Buci) e, soprattutto, a due
“superteste” ben unti, istruiti e con promessa di rifarsi una
vita altrove a spese dello Stato: tali Francesco Alessi e Nicola
Menocci. Ovviamente, accanto alle unzioni in denaro, alle istruzioni
e alla promesse, la questura applica ai due “supertestimoni”
anche una congrua dose di minacce; tutto funziona alla perfezione, e
i due depongono al processo una massa di invenzioni e di falsità
preparate dalla Regia Questura. Cesare Batacchi si prende
l'ergastolo, e gli altri sei imputati anarchici vent'anni di lavori
forzati.
Il tassista Rolandi (in mancanza di immagini dell'Alessi). |
Nel
1881, però, succede una cosa imprevista. L'Alessi e il Menocci, i
due “superteste” fatti riparare all'estero (naturalmente, gli
anarchici fiorentini avevano giurato loro la pelle), furono presi dai
rimorsi di coscienza. Spontaneamente e indipendentemente l'uno
dall'altro, l'Alessi a Alessandria d'Egitto e il Menocci a Nizza,
dichiararono davanti a pubblici ufficiali di essersi inventati ogni
cosa. Non solo: dichiararono di averlo fatto su istigazione della
Polizia e sostennero “con forza” la totale innocenza dei
condannati. In seguito a queste rivelazioni clamorose, gli
internazionalisti iniziarono un'agitazione per la revisione del
processo, e nel 1882 Francesco Pezzi pubblicò sulla “Lanterna
libertaria” un opuscolo sul Batacchi con le dichiarazioni
dell'Alessi e del Menocci. La stessa rivista anarchica promosse una
campagna di stampa a suo favore. Ma, dopo la fine dell'Intemazionale
a Firenze, perché il processo Batacchi questo aveva significato, il
caso cadde in totale dimenticanza. In altre parole: nella “culla
del diritto” quale ama definirsi l'Italia, due supertestimoni che
avevano fatto condannare a pene gravissime degli innocenti
ritrattavano tutto, accusavano la Polizia (quindi lo Stato) e
sostenevano che “avevano dovuto farlo” per soldi e per minacce, e
le persone condannate venivano “dimenticate” in galera.
Cesare
Batacchi fu rinchiuso in quello che, forse, era il più terribile
carcere d'Italia: il Maschio di Volterra. Si
tratta di un'antichissima fortezza composta da due corpi, la Rocca
Vecchia e la Rocca Nuova, uniti tra loro da lunghe cortine a
beccatelli. La Rocca Vecchia fu fatta costruire nel 1342 dal Duca
d'Atene, Gualtieri di Brienne, all'epoca governatore di Firenze.
Fatta restaurare da Lorenzo il Magnifico, presenta una pianta
trapezoidale con al centro una torre semiellittica, detta “la
Femmina”. La Rocca Nuova, fatta costruire da Lorenzo tra il 1472 e
il 1475, presenta una pianta quadrata con quattro torrioni circolari
agli angoli e uno centrale detto “il Maschio”. La fortezza di
Volterra era nata come galera, e galera è rimasta per tutta la sua
storia, ancora al giorno d'oggi. Qui Cesare Batacchi, come tutti,
vive in condizioni disumane e totalmente dimenticato da tutti. Le
prime campagne in suo favore si esauriscono nel nulla passati i primi
lampi, al pari di quel che accade oggi. Fine della storia.
Pietro Corsi (1844-1887) |
Fine?
Non del tutto, mettiamola così. Bisogna, però, fare un salto di
lunghissimi anni; cercando di non scordare che, per Cesare Batacchi
ed altre cinque persone, non si tratta di anni di vita, ma di morte.
Per cinque? Ma non erano sei, gli altri imputati condannati a
vent'anni? Sì; ma uno, Pietro Corsi, era morto in galera nel 1887.
Ora siamo invece nel 1899, l'ultimo anno del XIX secolo. Stava
nascendo la generazione di “ragazzi” che, a diciott'anni, lo
Stato italiano avrebbe mandato al massacro nelle trincee. L'anno
prima, nel 1898, il “re buono” per la cui “salvezza” dal
temperino di Passannante i fiorentini manifestavano con giubilo
vent'anni addietro, aveva fatto stroncare nel sangue da Bava Beccaris
i “moti per il pane” di Milano; solo per ricordare alcuni fatti
che, naturalmente, tutti conoscono. Il giornale socialista fiorentino
“La Difesa” si ricorda di Cesare Batacchi e degli altri
anarchici dimenticati in galera, e costituisce un “comitato”
formato da rappresentanti di tutti i partiti politici. Nel frattempo,
per i cinque anarchici condannati a vent'anni scadono le pene, e
vengono tutti rimessi in libertà tranne il morto. Rimane in galera
solo il Batacchi, ergastolano di cinquant'anni.
Franco Serantini, 1951-1972 |
Nel
1900 si devono tenere le elezioni politiche, e i socialisti decidono
di candidare Cesare Batacchi alla Camera, nel collegio di
Pietrasanta; viene eletto a furor di popolo, dello stesso popolo che
si era completamente dimenticato chi fosse. Se vogliamo ancora
analogie, ricordiamo la candidatura di un Pietro Valpreda ancora in
galera, nel 1972, che provocò scintille nel movimento anarchico tra
“duri” e “elezionisti” (tra i quali un giovane sardo che si
dava parecchio da fare per sostenere la candidatura di Valpreda, tale
Franco Serantini; il quale, a quanto ne so, fu letteralmente
“smusato” per questo da un anarchico del “gruppo Durruti”, lo
stesso che pochi giorni dopo gli avrebbe pronunciato l'orazione
funebre dopo che era stato pestato a morte della polizia, a Pisa, e
lasciato morire in galera). Il 10 marzo 1900, l'elezione dell'
onorevole Cesare Batacchi, che in Borg'Allegri non si sarebbe mai
immaginato, un giorno, di poter uscire di galera con tale qualifica,
fu discussa in parlamento; e fu invalidata. Quattro giorni dopo,
però, il 14 marzo, arrivò la grazia; uscì dal Maschio di Volterra
il 16 marzo 1900, settantotto anni esatti prima della morte di Juan
Rodolfo Wilcock e, pare, anche del prelevamento di uno “statista”
democristiano di cui, per tutti gli sforzi che faccia, non mi riesce
ricordarmi il nome.
Poco
prima della scarcerazione del Batacchi, probabilmente ancora nel
1899, l' “eco” suscitato dalla campagna di liberazione della
“Difesa” raggiunge il popolo anche in un altro modo, che gli è
perfettamente naturale: una canzone. Sicuramente nasce a Firenze,
anzi in Santa Croce; all'improvviso tutti si ricordano del “povero
Batacchi”, del suo processo, dei falsi e infami testimoni, e della
triste sorte che gli è toccata. Il “popolo”, nella canzone
originale, si esprime con un rigore quasi da storico consumato;
tranne che per un fatto. Nessuna menzione dell'anarchia, nella
canzone; si tratta di un canto di galera. I motivi per i quali Cesare
Batacchi vi era finito, non vi sono menzionati; ciononostante, e fin
da subito, il componimento diventa un canto anarchico, e tra i più
famosi: Il maschio di Volterra. Se qualcuno già
lo conosce, ed è probabile, forse si sarà chiesto chi mai fosse
quel tale “Batacchi” che vi compare, e chi fossero l'Alessi e il
“Maocci” (così, nella canzone, viene chiamato Nicola Menocci).
Ah
me ne stavo mesto a lavorare
rinchiuso dentro il maschio di Volterra;
un secondin mi venne a salutare
con lieto volto la mano mi serra
e mi dice: «Allegro, grazia faranno a te
tutti i giornali parlano, combattano per te».
Grazia l' accetterò se mi daranno
coi miei diritti di buon cittadino,
sono innocente e l'è già ventun anno
non vo' morir col marchio d'assassino.
Sette innocenti ci voller condannar,
ma i nostri patimenti, chi li compenserà?
Non ebbi l'amicizia di un Labori
e il mio processo non lo vide Zola
dovrò subire sì pene offese e rancori
e dalla rabbia mordo coperte e lenzuola
nel ripensar quanto dovrò soffrir
a tormentar mi sento l'anima lo stesso si morir.
In queste quattro mura sì malidette
la meglio gioventù io l'ho qui passata
si portano l'offese a noi dirette
nel pronunciarci la galera a vita
mondo crudele che hai dato luce a me
son vittima di agenti di rinnegata fe'.
Vola pensiero mio sera e mattina
là nei dintorni di Borgo la Croce
via dei Pilastri e via Ghibellina
qua in borgo Allegri e piazza Santa Croce
mondo crudele che desti luce a me
sono vittima di agenti di rinnegata fe'.
L'hanno riconosciuta la mia innocenza
or che lo vedi il mio capello è grigio
viva l'adorno cavalier di scienza
che mi convertirono il bianco con il bigio
sette innocenti ci voller qui serrar
ma i nostri patimenti chi li compenserà.
Di quell'infame Alessi io mi rammento
e di tutti gli altri falsi testimoni
sento nell'aria un gelid'e un lamento
che mi sembra pervaso dai demoni.
Stride il Maocci che rantolando va
e gli dico: «Sei dannato per la tua falsità».
E addio compagni, viva la libertà
e questo l'è il Batacchi che non vi scorderà.
Addio compagni, viva la libertà
un saluto dal Batacchi: vi saluta e se ne va.
rinchiuso dentro il maschio di Volterra;
un secondin mi venne a salutare
con lieto volto la mano mi serra
e mi dice: «Allegro, grazia faranno a te
tutti i giornali parlano, combattano per te».
Grazia l' accetterò se mi daranno
coi miei diritti di buon cittadino,
sono innocente e l'è già ventun anno
non vo' morir col marchio d'assassino.
Sette innocenti ci voller condannar,
ma i nostri patimenti, chi li compenserà?
Non ebbi l'amicizia di un Labori
e il mio processo non lo vide Zola
dovrò subire sì pene offese e rancori
e dalla rabbia mordo coperte e lenzuola
nel ripensar quanto dovrò soffrir
a tormentar mi sento l'anima lo stesso si morir.
In queste quattro mura sì malidette
la meglio gioventù io l'ho qui passata
si portano l'offese a noi dirette
nel pronunciarci la galera a vita
mondo crudele che hai dato luce a me
son vittima di agenti di rinnegata fe'.
Vola pensiero mio sera e mattina
là nei dintorni di Borgo la Croce
via dei Pilastri e via Ghibellina
qua in borgo Allegri e piazza Santa Croce
mondo crudele che desti luce a me
sono vittima di agenti di rinnegata fe'.
L'hanno riconosciuta la mia innocenza
or che lo vedi il mio capello è grigio
viva l'adorno cavalier di scienza
che mi convertirono il bianco con il bigio
sette innocenti ci voller qui serrar
ma i nostri patimenti chi li compenserà.
Di quell'infame Alessi io mi rammento
e di tutti gli altri falsi testimoni
sento nell'aria un gelid'e un lamento
che mi sembra pervaso dai demoni.
Stride il Maocci che rantolando va
e gli dico: «Sei dannato per la tua falsità».
E addio compagni, viva la libertà
e questo l'è il Batacchi che non vi scorderà.
Addio compagni, viva la libertà
un saluto dal Batacchi: vi saluta e se ne va.
Ma
anche il famoso canto fa la fine del Batacchi, alla lunga: con gli
anni viene dimenticato. Lo ritrova però a Galceti, vicino a Prato,
Michele Luciano Straniero; è il 1962 quando, alla ricerca di canti
tradizionali in Toscana, si imbatte in un cantastorie locale, Luciano
Suisola, detto “Topino”, dal quale registra quanto segue:
Questa
è invece la bella versione, seppur abbreviata, che l'anno scorso ho
ascoltato (e registrato di persona) al “parco Iqbal Masih” di
Campi Bisenzio da Marco Rovelli e Lara Vecoli:
Di
versioni del canto ne esistono però letteralmente a decine, arrivate
anche fuori dalla Toscana (ce n'è, ad esempio, una proveniente da
Ancona). Verso il 1990, il gruppo psichedelico sardo “Joe Perrino &
The Mellowtones” ne ha fatto anche una versione rock; non so come
la abbia presa il Batacchi perché un borgallegrino rimane tale anche
da morto, ma fortunatamente è anarchico e noialtri non ci abbiamo
“aldilà”.
A
proposito di Cesare Batacchi, dato che -comunque- la sua vita non
termina con la scarcerazione per grazia dal Maschio di Volterra. Da
qualche parte si dice che “non si sa più nulla di lui”, sancendo
in questo modo che il galeotto rimandato libero perde
irrimediabilmente di interesse. Invece qualcosa si sa. Uscito da
Volterra, Cesare Batacchi torna in Santa Croce; sembra non occuparsi
più di politica, anche perché per tre anni deve subire la
sorveglianza speciale. Probabilissimo che ascolti parecchie volte il
canto scritto su di lui, e mi immagino che a un certo punto si sia
pure rotto parecchio i coglioni della cosa. A sentire alcuni,
comunque, rimane fedele agli ideali anarchici; per vivere, apre prima
una rivendita di carbone, e poi una di tabacchi (che è,
curiosamente, l'anagramma di “Batacchi”). Nel 1910 smette di
lavorare e si trasferisce in campagna, a Bagno a Ripoli; prendo
ancora l'elenco del telefono e constato che a Bagno a Ripoli esistono
tuttora numerosi Batacchi, quasi tutti all'Antella; e che c'è pure
un Alessi. Chissà se si conosce con un Batacchi. Il Batacchi Cesare,
comunque, persiste nelle sue idee anarchiche, perché noialtri siamo
fatti a questa maniera a parte qualche eccezione. Non svolge però
più alcun lavoro politico particolare almeno fino allo scoppio della
“grande guerra”; nel novembre del 1917 viene segnalato alla
questura come partecipante ad un convegno che riunisce anarchici e
socialisti mirato alla costituzione dei “Fasci Rivoluzionari”, su
decisione del Congresso anarchico tenutosi, clandestinamente, l'anno
prima. Nel 1927, già a regime fascista ben avviato coi relativi
tribunali speciali, a Cesare Batacchi tocca quel che proprio non si
sarebbe mai aspettato in quel frangente: viene totalmente
riabilitato. Vale a dire: viene riconosciuta formalmente la sua
innocenza, e la sua condanna viene “cancellata” dal casellario
giudiziario dopo che si è fatto vent'anni da morto a Volterra. Muore
l'undici di maggio del 1929; gli mancano pochi mesi per compiere
ottant'anni.
Il 18
aprile 1975, verso notte, in via Nazionale a Firenze, nel punto
esatto dove circa novantasette anni prima era stata messa dalla
polizia la bomba che aveva ammazzato tre partecipanti al corteo
filomonarchico (all'angolo con via Faenza), un giovane manifestante
comunista ad un corteo contro la repressione, Rodolfo Boschi, fu
ammazzato a revolverate. Fu arrestato uno che non c'entrava nulla,
tale Panichi; molti dissero d'aver visto sparare agenti in borghese.
Il fatto, come mi è capitato a volte di raccontare, accadde davanti
ai miei occhi, ed erano occhi di ragazzino. Non sapevo nulla allora,
ovviamente, di Cesare Batacchi. Per trovarne un'effigie ho dovuto
penare. Nessuna lapide sul posto, né per Rodolfo Boschi, né per dei
lontanissimi innocenti e per altri innocenti che sperimentarono,
sulle loro spalle e sulle loro vite, la violenza dello Stato
italiano. Per chi ha salutato e se n'è andato, a causa dello Stato, da una galera, dalla vita, e spesso da tutte e due.
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