giovedì 17 maggio 2007

Le traiettorie dei gatti



Questo è, al tempo stesso, l'ultimo post del vecchio blog "Da Galenzana" (o "Naufraghi a Galenzana" che dir si voglia) ed anche l'ultimo che ho scritto a Friburgo, nello scorso agosto.

Ci si trova, a volte, a confrontarsi con i meccanismi dei ricordi. Sono meccanismi bizzarri, sovente impenetrabili; i loro strumenti sono i gatti. Certo, di strumenti ce ne possono essere d’infiniti altri, infiniti quanto lo sono i ricordi; ma, per me, i gatti lo sono stati più d’una volta. Così mi è presa la voglia di raccontare quel che m’è successo due sere fa.

E’ stato, da queste parti, un mese d’agosto climaticamente orrendo. Una specie di brutto novembre in anticipo. Inutile razionalizzare e dirsi che, oltre le Alpi, le perturbazioni atlantiche hanno campo libero e che, di conseguenza, è del tutto normale che un sedici d’agosto piova a scrosci tutto il giorno e ci sia una temperatura massima diurna di undici gradi. Così è. Ma, ogni tanto, c’è stata qualche piccola pausa; una mattinata o un pomeriggio di bel tempo. Due sere fa era una di queste piccole pause, era una serata magnifica e io e la Manuela abbiamo deciso seduta stante di uscire e andare a farci una passeggiata. Bisognava tesaurizzare, insomma.

E ce ne siamo andati subito qua fuori, verso il parco del Guintzet, un posto da dove si gode un panorama mozzafiato sulle non lontane montagne dell’Oberland bernese. Siamo stati un po’ al parco a chiacchierare e a guardare; poi ce ne siamo tornati verso casa. C’è, poco prima di arrivare, una stradina che già nel nome ricorda il miagolio d’un gatto; si chiama Chemin de Meuwly. E sembra che lo sappiano, perché è sempre piena di gatti intenti alle loro occupazioni così bene analizzate, tempo e tempo fa, da Thomas Stearns Eliot. Mesi addietro, sempre durante una passeggiata, io e la Manuela avevamo assistito a una scenetta singolare: dalla finestra di una villetta si era affacciata una signora anziana, e aveva calato un cesto legato a una cordicella. Il cesto era pieno di roba da mangiare; dopo un po’ era arrivato un gatto, col suo fare naturalmente circospetto; aveva annusato un po’, e poi s’era messo a mangiare la roba che stava nel cesto. Finito il suo pasto, la signora, piano piano, aveva ritirato su il cesto, e la finestra s’era richiusa; ed è successo che, ripassandoci davanti, ci siamo ricordati di quell’episodio e ci siamo messi a ridacchiare.

E così m’è venuto di dire alla Manuela: “Ma lo sai che io questa cosa l’ho vista già fare a Firenze, una volta, anche se non c’erano di mezzo i gatti?”; al che, mi sono messo a raccontare. E’ la storia di un mio amico. Si chiamava Pier Francesco Poli. Dico “si chiamava”, perché è morto da qualche anno. Non m’era mai venuto a mente di parlarne; ma una sera arrivano un gatto e un cesto, e te lo fanno ricordare.

Pier Francesco Poli abitava in una vecchissima casa in via dei Cerchi, a cinquanta metri da piazza della Signoria. A un quarto piano terrificante. Ogni volta che andavo a trovarlo, sempre la sera dopo cena, prima di salire quelle rampe di scalini dovevo prendere fiato come Jacques Mayol prima di un’immersione; e quando arrivavo in cima ero sfinito. Entravo, e c’erano il mio amico e sua moglie, un donnone gioviale; era slovacca, la signora, di Bratislava; si chiamava Eva. Ora dovete sapere che, per non essere costretta proprio a farsi quella massacrante scalinata, la signora si serviva, per la spesa, dell’antico sistema del cesto calato dalla finestra; una sera di giugno che m’avevano invitato a cena, mentre arrivavo vidi la signora Eva affacciarsi alla finestra, calare giù il cesto legato a una cordicella, e il garzone di un negozio infilarci dentro la roba acquistata. Piano piano il cesto fu ritirato su, per poi ridiscendere con dentro i soldi del conto. Mi ricordo di essermi fermato lì a gustarmi tutta la scenetta, pensando che prima era una cosa molto comune, ma che ora non la si vedeva quasi più. Mi piace sempre poter assistere a cose pressoché scomparse, credo d’avere una parte non indifferente di me rivolta al passato, vissuto o meno che sia. Poi, una volta che il garzone ebbe preso i soldi e il portone fu aperto, mi preparai alla scalata.

Ora, però, devo dire chi fosse Pier Francesco Poli, come lo avessi conosciuto e perché andassi spesso a trovarlo. Devo avvertire chi mi legga, che sta per entrare in una specie di mondo sconosciuto ai più, fatto di poche persone strampalate. L’universo dei glottòmani.

Pier Francesco Poli faceva, quando studiavo all’università, il lettore di ceco e slovacco alla facoltà di lettere. Non ho mai studiato, se non un po’ da solo, le lingue slave; quindi, normalmente, non ci avrei dovuto avere a che fare. Ma le aule, in via degli Alfani, erano scarse, e i lettorati di quelle cosiddette “minori” erano poche, e piccolissime. Io studiavo lo svedese e il danese; senonché, l’auletta dove si tenevano i miei lettorati, quattro volte la settimana a ore impossibili (tipo le una e venti del pomeriggio, o le sette la sera) era esattamente la stessa di quelli di ceco e slovacco. Un giorno, credo fosse verso il 1984 o giù di lì, con la mia usuale testa fra le nuvole, aggravata in quegli anni da un certo “tappo”, mi capitò di sbagliare ora. Il lettorato di svedese era alle sette, e chissà perché mi presentai alle cinque. Senza bussare piombai dentro l’auletta, a testa bassa, bofonchiando un “bonasera” in svedese (“god afton”) e andandomi a sedere al mio solito banco. Solo allora mi accorsi che i presenti non erano i miei soliti compagni di corso, e che al posto della dottoressa Berit Andersson, con la sua pelliccia sintetica leopardata (detta “pelliccia di spelacchiopardo”) e l’eterna Merit in bocca (da qui gli appellativi di “Merit Andersson” o “Berit Merit” –allora si fumava tutti come ciminiere anche nelle aule universitarie, e guai a chi rompeva i coglioni), c’era un tizio, brutto come la fame, tarchiato e con un paio di occhialoni stile anni ’60, di quelli con la montatura spessa e le lenti che sembravano culi di bottiglia. Tutti mi stavano guardando allibito, anche perché m’ero già accesa la sigaretta (allora fumavo ancora le Chesterfield). Il tizio alla cattedra mi disse un semplice “Scusi, ma lei…?”; credo d’avergli risposto che avevo sbagliato aula, facendo qualche gesto con la mano. Sulla lavagna c’erano parole ignote, senza manco una vocale, “strč prst skrz krk” o roba del genere (non ci credete? In ceco significa “spingi il dito attraverso la gola”, controllate pure).

Mi alzai, richiesi scusa, spensi la sigaretta sul muro e uscii fuori. Come fu, come non fu, da quel giorno io e il tizio brutto con gli occhiali cominciammo a salutarci; e poi a scambiare qualche parola; e poi a raccontarci delle cose che avevano a che fare con le lingue. Era Pier Francesco Poli. Io avevo ventidue o ventitré anni, e lui una quarantacinquina e passa. Io ero uno studente, lui un insegnante. Ma piano piano scoccò una scintilla che non ho la pretesa di far capire: la scintilla della glottomania. E la glottomania non conosce barriere di età, di posizione, di niente. Scoprimmo reciprocamente che eravamo due glottòmani, e fu l’inizio di un’amicizia.

Dapprima consumata in baretti attorno alla facoltà, mezz’ore, sigarette e caffé a parlare della struttura dell’islandese antico comparata con quella, più sintetica, delle lingue scandinave moderne; oppure di certi particolari fenomeni fonetici dell’antico slavo ecclesiastico, e dei loro esiti in russo, in ceco o in serbocroato. E s’andava avanti, sempre avanti. Le mezz’ore diventarono ore; alla fine, Pier Francesco Poli m’invitò a andare a casa sua, in via dei Cerchi, perché aveva saputo che anch’io avevo una baraccata di grammatiche, di dizionari e d’altra roba, e voleva farmi vedere i suoi. E raccontarmi le sue storie, che erano tante, ma tante. Perché noi glottòmani, ve lo garantisco, se n’ha di storie da raccontare, per giove se ce ne abbiamo.

Ci andai, facendo la conoscenza della sua strabordante consorte slovacca, la signora Eva appunto, e dell’unica figlia, che a far contraltare ai genitori era biondina, magrissima, eterea. E molto bella. Aveva qualche anno più di me, parlava solo quattro lingue alla perfezione (la madre ne parlava sette e il padre dieci, sempre alla perfezione), e sembrava essere sempre di passaggio. La casa era arredata come m’immaginavo esattamente fosse un’abitazione nei paesi del realismo socialista negli anni ’50; mobili raffazzonati, nessuna televisione, solo una vecchia radio e suppellettili, diciamo, fantasiose. Alle pareti, diplomi, articoli di giornale scritti in slovacco o in bulgaro, un ritratto di Lenin col berretto, e libri. Scaffali interi di libri. Centinaia di libri. Migliaia di libri, di dizionari, di grammatiche, di opere teoriche, di fotocopie. Ero a casa mia. E in quella casa c’era calore, c’era un calore vero. Ci stavo benissimo con quella gente. Qualche volta ci andavo a mangiare, ma il più delle volte ci andavo dopo cena. Ci stavo fino a mezzanotte passata, a volte; ci si metteva nel salottino, col vino o con la vodka, e giù quintali di sigarette, di strutture morfosintattiche dell’ungherese (lingua che la signora Eva conosceva perfettamente, assieme al materno slovacco, al tedesco letterario e al dialetto viennese), di antichi documenti anglosassoni, del fatto che il bulgaro sia l’unica lingua slava che ha perso le declinazioni. Questi sono gli argomenti dei glottòmani. Che ci volete fare.

Ma con il passar del tempo, dietro alle lingue trasparì la vita, e le sue storie. Pier Francesco Poli ci era nato, in quella casa; da piccolo, mi raccontava, aveva visto la battaglia per la liberazione di Firenze, aveva visto due tedeschi ammazzare a sangue freddo un passante in bicicletta. Si passò a raccontarci di come si sbarcava il lunario. Questa è la realtà. Sbarcare il lunario. Mi disse quanto gli dava al mese la facoltà di lettere per fare il lettore di ceco e slovacco a cinque studenti: quattrocentocinquantamila lire. Doveva arrangiarsi a fare traduzioni, e anche la guida turistica quando capitava. La moglie faceva lo stesso, e la figlia studiava ancora. Io, a quel tempo, pure sbarcavo il lunario (cosa che ho continuato imperterrito a fare, con alterne fortune); addirittura, per un modestissimo compenso, scrivevo una rubrica di curiosità linguistiche per la “Nuova Enigmistica Tascabile”, intitolata “Viaggio nelle lingue del mondo, a cura di Kareka” (qualcuno mi chiamava “Kareka”, dal nome di un famoso giocatore di calcio brasiliano, perché spesso e volentieri “attaccavo” le parole che cominciavano con la “c” dura, e per dire “cavallo” mi capitava di dire “ca-ca-ca-ca-ca-vallo”; è un difetto che poi mi è fortunatamente scomparso). Risate, sigarette e giù bicchierini corretti con considerazioni approfondite sull’estinzione, nel XVI secolo, del polabo (o polabico), antica lingua slava parlata sulle rive dell’Elba (il fiume, non l’isola; “polabo” deriva da “Po Labe”, “sull’Elba”) oramai talmente corrotta dal tedesco che in uno dei suoi rari documenti scritti prima della sua scomparsa, il passivo si forma con il verbo “wardôt”, chiaramente il tedesco “werden” slavizzato alla bell’e meglio.

Mi raccontò, Pier Francesco Poli, che sempre per sbarcare il lunario aveva dato lezioni private di turco senza conoscere il turco. Su non so quale giornale aveva letto un annuncio di un tizio che, per motivi di lavoro, cercava qualcuno che gli insegnasse il turco. Non ci pensò due volte e rispose. Si comprò una grammatica turca e un dizionario. Due giorni prima della lezione privata, si studiava un capitolo della grammatica a fondo e imparava le parole; poi ripeteva tutto a pappagallo all’ “allievo”, inventandosi la pronuncia a partire dalle note presenti sulla grammatica. Alla fine del corso di lezioni si beccò pure un compenso extra del cliente soddisfattissimo, e si ritrovò anche ad aver più o meno imparato il turco. Verso i primi anni ’60, da studente universitario, aveva deciso di darsi alle lingue slave, russo, polacco e ceco. Per imparare una lingua bene, da che mondo è mondo, bisogna andare nel paese dove la si parla, e starci anche un bel po’. Aveva chiesto il passaporto e i visti per andare in Russia e negli altri paesi socialisti, facilitato senz’altro dall’essere, anche di famiglia, un perfetto comunista ortodosso, fedele alla linea, iscritto al PCI, entusiasta dei “festival della gioventù” di Berlino Est o di Sofia, delle “Spartachiadi”, dello stadio ginnico Strahov di Praga (il più grande stadio del mondo: conteneva 250.000 spettatori. Ora sembra sia in rovina). Quando la moglie andava in cucina mi confessava sottovoce di aver trombato come un ossesso ai “festival della gioventù”; cacciava fuori degli album enormi pieni di vecchie foto e di ritagli di giornale, c’erano delle ragazze da mozzare il fiato, e c’era pure lui da giovane. Incredibilmente era un bel ragazzo. Mi chiesi più volte che cosa gli dovesse essere successo per esser diventato com’era, e mi veniva a mente il vecchio racconto del professor Rosario La Ciura, l’uomo che aveva conosciuto la Sirena parlando greco antico, da giovane bellissimo; e che era, in vecchiaia, diventato una specie di mostro. E’ un racconto di Tomasi di Lampedusa. Si chiama “Ligea”.

Mi raccontava di quando tornava dai suoi viaggi all’Est, sempre carico di libri acquistati per mezzo soldo bucato. Alla frontiera italiana lo fermavano sempre, sul treno. Prima di tutto veniva dai paesi dove c’era il barbaro comunismo, e quindi era una potenziale spia russa. Lo interrogavano a fondo per delle ore: come mai era andato da quelle parti, che cosa facesse, che cosa fossero quei libri, ogni cosa. La polizia lo teneva d’occhio. Era una persona, senza nessuna piaggeria o esagerazione, di un’intelligenza, di una cultura e di un’umanità straordinarie. Parlava un fiorentino d’altri tempi passando poi, con la massima indifferenza, a parlare slovacco con la moglie (in casa si parlavano solo in slovacco, anche se la signora sapeva anche lei parlare in fiorentino). La signora Eva, quella del cesto calato dalla finestra. Da Bratislava passata a Vienna, da piccolissima, con la famiglia. L’Anschluss del 1938 (aveva qualche anno in più del marito). Le fughe, i nascondigli, il governo fascista di monsignor Tiso (il prelato cattolico nazista che tenne il governo fantoccio della Slovacchia invasa, poi fucilato nel 1947 e adesso in corso di “riabilitazione” da parte della chiesa, assieme ad altri luridi personaggi come i cardinali Mindszenty o Stepinac). La Vienna disperata del dopoguerra, dove era andata a scuola imparando il dialetto Viennese. Poi il ritorno nella Cecoslovacchia prima della “Primavera”. Era stato durante un “festival della gioventù” a Praga che aveva conosciuto suo marito.

E passarono gli anni. Due o tre sere al mese andavo dal mio amico e ci mettevamo lì in quella saletta dove dopo un po’ c’era un’aria da fare a fette col coltello. Dopo un po’ cominciò a regalarmi dei libri, o a prestarmeli perché li fotocopiassi. Tra noi glottòmani l’oggetto libro non conta niente; conta quello che c’è dentro. Per questo abbiamo regolarmente quintali di fotocopie, rilegate o meno. Non importa averci quell’introvabile grammatica storica del ceco antico del Gebauer (“Historičké mluvnice staročeského jazyka”, Praga, 1925), importa averci le sue parole. Ci scambiavamo libri ogni volta, e lo stesso accadeva col terzo glottòmane fiorentino, che poi era di Bari vecchia, un altro singolare personaggio a nome di Alfonso Màrgani, del quale forse avrò a parlare un’altra volta. Di Pier Francesco Poli ho due sole foto in cui siamo assieme; una è del giorno del mio matrimonio, al quale lo invitai (un matrimonio che è stato decisamente disgraziato, ma quella fu una giornata molto bella), e l’altra siamo insieme in via dei Cerchi. Chissà come, una sera avevo portato la macchina fotografica, la mia decrepita Asahi Pentax che ancora funziona. Ce l’eravamo fatta fare da un passante. Dovreste vedere che coppiettina che s’era. Lui in maniche di camicia, con gli occhialoni e due libri in mano (eravamo usciti, indovinate un po’, a fare delle fotocopie), io spettinato, barbaccia lunga, jeans sdruciti. Ma non importano le foto, non importano le immagini. Pier Francesco Poli, per me, è in tutti quei libri che mi ha regalato o che ho fotocopiato. E nelle firme che aveva messo al momento del loro acquisto, e dietro ognuna di quelle firme, come in ogni libro, ci deve essere una storia. “Praga, 21 ottobre 1965”. Come sarà stata Praga, il 21 ottobre 1965? “Berlino Est, 14 marzo 1967”. “Budapest, 8 luglio 1958”. Budapest, 1958. Due anni dopo il 1956.

Il 16 novembre 1997 è morto mio padre. Allora stavo, con la mia ex moglie, a Livorno. Penso che quel giorno, e per un bel po’, non sia morto soltanto mio padre; ma mi fermo qui. Queste sono cose soltanto mie. Smisi di voler vedere la gente. E’ stato in quel periodo che mi sono “buttato” su Internet. Smisi di telefonare anche a Pier Francesco Poli; l’ultima volta devo averlo visto nel settembre del ’97, ma le nostre visite si erano già da tempo fatte un po’ più rade. Nel maggio del ’98, un pomeriggio, mi prese la voglia di risentirlo, e volevo anche scusarmi per non essermi fatto più vivo. Sapeva che mio padre era morto, e da amico doveva avere immaginato quel che mi passava per la testa. Mi rispose la figlia.

Le chiesi allegro di passarmi il padre. Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un “Ma come…non lo sai?” No, non lo sapevo. Non lo sapevo che, sbarcando il lunario, e approfittando delle ondate di primi turisti degli ex paesi socialisti, s’era rimesso a fare la guida per le comitive di polacchi, di cechi e di slovacchi in visita turistica a Firenze. La mattina del 4 marzo 1998 era andato davanti alla Biblioteca Nazionale, in piazza dei Cavalleggeri, per ricevere un pullman di turisti cechi. Si erano presentati e poi, in attesa che l’autista parcheggiasse l’automezzo sul lungarno della Zecca Vecchia, era andato a un bar in corso dei Tintori a prendere un caffé. Non lo bevve mai. Crollò in terra davanti al bancone, fulminato da un infarto. Mi misi a piangere al telefono, con la figlia. Mi stava dicendo che la madre aveva preferito tornare a Bratislava, e che lei ora viveva da sola nella casa di via dei Cerchi. Mi disse anche che ci saremmo magari rivisti. Ma non lo abbiamo fatto.

Ecco, insomma, quel che mi sono ricordato due sere fa per tramite di un gatto e del suo cesto di roba da mangiare calatogli da una vecchietta di Friburgo, in Svizzera. I gatti sono bestie che ci hanno dentro quella cosa che io chiamo antimateria. Si muovono e vedi la perfezione dell’armonia. Saltano e non esiste più la legge di gravità. Sembrano guardarti, e invece fissano un punto imprecisato. Lo fissano, e se ne vanno per la loro traiettoria che a noialtri umani non sarà mai dato di conoscere. In questa loro traiettoria, a volte, portano voci dal passato, e volti, e parole, e infinitezze.

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