venerdì 18 maggio 2007

Luz

La prima storia dall'Elba di questo "neoblog" è anche la più recente. L'ho scritta poco prima della "Piola Elbana", o "Piola del Debito Cancellato" che dir si voglia; ne seguiranno molte altre, vecchie e nuove.

E così, fra pochi giorni si va all'Elba. A dire il vero, ci si va in pochini; ma tant'è. Però voglio raccontare una storia, per chi viene e per chi non viene. Non ha nessun significato; è solo una storia.

All'Elba c'è un paese che si chiama Capolìveri. E, sull'isola, il paese degli "anarchisti"; quello dei ribelli, della gente strana, di quelli di cui si diceva in giro: lascialo sta', è capoliverese. E dev'essere una cosa antica: il suo stesso nome sembra derivare dal latino Caput Liberum, capo libero. Sta arroccato su una collina, non lontano da Portolongone, ed è stato paese di minatori. Nel suo territorio c'erano le oramai morte miniere di Punta Calamita, quelle del famoso ferro dell'Elba. Esaurite sì, ma ancora oggi, a chi s'avvicini troppo in barca a quella costa, impazzisce la bussola.

Alla fine dell'Ottocento, a Capolìveri come in tutto il resto dell'isola, quando faceva notte era buio sul serio. Ma buio. Paesi interi, dove manco arrivava una stradaccia, andavano a letto con le galline e si svegliavano col gallo. Qualche lampione a gas nel capoluogo, Portoferraio; sennò, buio pesto. La terribile oscurità medievale. Bisognava barricarsi nelle case perché nell'oscurità agivano i ladri e gli assassini; di guardie ce n'erano poche di giorno, e di notte nemmeno mezza. Per questo, nei vecchi paesi, le case erano fortezze con scarse e piccole finestre; e poi, comunque, di notte si dormiva perche il giorno c'era da troncarsi la schiena in qualche modo, per vivere.

Il legame dell'Elba coi tedeschi, dicono, è nato dopo la II guerra mondiale. C'erano arrivati a fare una gitarella organizzata di massa, con armi al seguito, il 12 settembre 1943. E, a onor del vero, erano stati accolti benissimo e non avevano posto particolari problemi alla gente, a parte quelli di routine durante un'occupazione militare. Di "resistenza", all'Elba, manco l'ombra a parte un buffo episodio al Capo Poro, buffo come può essere durante un conflitto perché non mancò di spedire qualcuno nell'Ade; gli elbani continuarono a farsi la propria fame, anzi un po' meno perché qualcosa i tedeschi portarono. Ce l'avevano a morte, casomai, gli elbani, con gli inglesi che in sei giorni, dal 16 al 22 settembre, avevano inanellato due capolavori: prima il bombardamento che rase al suolo mezza Portoferraio, e poi il siluramento del piroscafo Sgarallino. Trecentotrenta morti che tornavano a casa dopo l'otto settembre. Un effetto collaterale.

Poi ci fu lo sbarco a Fonza, e lì fu guerra sul serio. A Fonza ci abitava soltanto la mia famiglia; ho il non voluto privilegio di avere avuto un intero sbarco alleato in casa. 17 giugno 1944. Magari, chi viene, ce lo porto; anche perché è uno di quei posti rimasti con una strada da scassare le sospensioni. I tedeschi furono fatti prigionieri. Qualcuno, però, finita la bufera cominciò a tornare. Quell'isola in mezzo al Mediterraneo gli doveva essere garbata. Nel 1954 il signor Gerhard Frei, ex ufficiale della Wehrmacht, si piazzò con la famiglia in una casa di contadini a Patresi per passare un'estate selvaggia, e scrisse sull'Elba un libro intitolato Erlebtes Elba, "Elba vissuta". Come fu, come non fu, i tedeschi cominciarono a arrivare a frotte. Ancora a metà degli anni '70, però, all'Elba, da aprile a novembre, si doveva lavarsi andando a prendere l'acqua alle fontane coi bidoni. Per fare una telefonata bisognava munirsi di gettoni e andare alle cabine in piazza del Comune. La luce elettrica, però, c'era. Di notte non era più così buio. Grazie a un tedesco. Uno arrivato ben prima dei suoi connazionali in divisa. Si chiamava Leonard Schenker.

Era arrivato, Leonard Schenker, all'Elba nel 1892. E ci era arrivato nell'unico modo possibile: sbarcando da una nave mercantile. Era un marinaio di qualche cavolo di posto sul Baltico, che poteva andare da Amburgo fino all'isola di Rügen; già abbastanza in là con gli anni, o perlomeno non più un giovanotto, aveva all'improvviso deciso di averneabbastanza di navi, si era presentato al comandante e gli aveva detto di non contare più su di lui. E così aveva mandato al diavolo ogni
cosa e se n'era rimasto in quell'isola. Ne doveva aver viste, fra isole e fra mari, anche se non era di sicuro un Corto Maltese; aveva scelto quella. Così. Chissà perché. E se n'era andato a stare a Capoliveri perché sapeva fare un po' di tutto e nei paesi, allora, gente del genere era necessaria.

Sulle navi mercantili di allora, la luce elettrica c'era già. Esistevano i generatori a petrolio; esistevano già le turbine. Al calar della notte, il marinaio Leonard Schenker era abituato a vedere tutto illuminato, all'interno della nave. A Capoliveri, invece, c'era il buio fitto. Fuori e dentro. Le candele, che ogni tanto davano fuoco a ogni cosa; ma bisognava economizzarle al massimo e quindi restavano accese solo per il tempo della cena. Poi, a letto. Fu così che a Leonard Schenker, marinaio del Baltico rimasto all'Elba, venne un'idea geniale. Bisognava portare la luce elettrica a Capoliveri. Lampioni. Lampade. Lampadine. Interruttori. Fili.

Sapeva fare ogni cosa, ma sulle navi era anche l'elettricista. E anche il macchinista, se serviva. E anche il cameriere. E anche ogni cosa, come tutti gli altri che aveva lasciato a rimbarcarsi. Sapeva fare ogni cosa, ma gli mancava tutto. Una mattina ne andò a parlare col sindaco, in un italiano stentato, lingua che sapeva un po' parlare assieme a altre quindici o venti per quel che gli servivano. Il sindaco gli rise in faccia. Si può immaginare facilmente quel che deve avergli detto: E dove la andiamo a prendere, la luce lèttrica? In culo al somaro? E chi la paga? Gesù morto? Leonard Schenker, però, doveva già aver capito bene i capoliveresi. E se n'andava in giro, in osteria, al mercato, a parlare di luce elettrica. E siccome, nella parlata mezza italiana e mezza tedesca, "luce" la pronunciava "luze", diventò Luz.

Lo pigliavano per i fondelli; e Luz qui, e Luz là, persino il prete. Ma dai, picchia e mena, qualcuno si doveva essere convinto. Il fatto è che Leonard Schenker, detto Luz, doveva essere nato in un paesino e conosceva i paesini. Gli bastò dire: Portoferraio no luze, Capoliveri sì luze. La parola magica. E i capoliveresi incominciarono a sognare orge di luce, lampade anche addosso, lampioni per le strade. Ma rimaneva un trascurabile problema: dove andarla a pigliare, la luce?
Problema che fu risolto grazie al buio.

Una notte di novembre, narrano le storie del portico di casa mia, d'un anno che secondo zio Ulisse era il 1893, secondo zia Bastiana il '94, secondo la signora Cottone vicina di casa, siciliana di Balestrate (Palermo) ma elbanizzata fin nelle barbe, il '92 e giù leticate di mezz'ora per stabilire magari che era il 1895, si mosse da Capoliveri una strana congrega d'òmini verso Portoferraio. Non era che non si notassero, anche perché avevano con sé un carro a bovi che ci sarebbe entrata dentro una casupola bona. Tra di loro, Luz. Il quale aveva saputo che a Portoferraio era arrivato un bel mercantile russo di sua maestà lo Zar, ben fornito d'un gran generatore elettrico a petrolio.

Con la scusa di dover scaricare provviste per il mercantile, poiché doveva restare all'attracco per un po', erano riusciti a passare a bordo. Le provviste ce le avevano davvero; solo che, mentre gli altri scaricavano, Luz e un altro che era stato istruito all'uso degli attrezzi, si dedicavano scrupolosamente a smontare il generatore principale. Il quale, s'immagini, non doveva propriamente essere leggerino. Per non far scoprire la cosa, l'esperto elettricista tedesco aveva collegato i terminali al generatore di emergenza, più piccolo ma sufficiente a far passare la notte; poi, di peso, i due avevano acchiappato il generatore smontato, lo avevano messo sul carro e se l'erano filata. Un colpo da manuale. Arrivati a Capoliveri quasi all'alba, lo avevano nascosto in un magazzino dietro a delle botti di vino, ben coperto per non fargli prendere umido, e avevano aspettato.

La mattina, qualcuno sulla nave s'era accorto che c'era qualche problemino. Il comandante, informato, era sceso nel locale generatori e aveva cominciato a bestemmiare in ucraino. Furono allertati i carabinieri, e fu raccontato del carro delle provviste; ma, nella notte, nessuno aveva visto che faccia avessero e nessuno li conosceva; così come nessuno sapeva, fuori da Capoliveri, della storia della luce. E i capoliveresi si guardavano bene da farne parola.

Il mercantile dovette restare all'Elba quattro mesi. Il tempo esatto per farsi arrivare un altro generatore. Dalla Germania. Nessuno aveva trovato nulla. I carabinieri ci avevano altro da fare che cercare un troschi di cui nessuno si sarebbe fatto nulla; si credeva che qualcuno lo avesse rubato per farne ferri vecchi, o per giocare uno strano tiro, o per chissà che cosa.

Nel frattempo, il generatore dietro alle botti veniva curato, lisciato, coperto, coccolato, tenuto a puntino. Qualcuno, su istruzione di Luz, alla chetichella era andato a Livorno a comprare del materiale, tornando con un pacco sigillato. Quand'ebbe tutto, Luz si mise al lavoro sotto gli occhi del sindaco che oramai era passato dalla sua parte della barricata. Il generatore fu tirato fuori e sistemato in un casotto in muratura che era stato costruito nella piazza del paese. Dal pacco sigillato furono tirati fuori cinque piatti col buco, fili elettrici intrecciati, rotoli di fil di ferro, cinque isolatori in ceramica, cinque lampadine a incandescenza e un interruttore con la manopola. Fu portato il petrolio per far andare il generatore, che si mise in moto con un rumore che sembrava il terremoto di Casamicciola; e andò in moto. I fili furono collegati. Fu girata la manopola. E Capoliveri si accese. Cinque lampade tutte insieme.

Se ne accorsero da Portolongone, che era al buio, di quello strano bagliore che veniva da oltre la Cala di Mola; e siccome continuava a baluginare, si pensò a un incendio. Di pompieri non ce n'erano; si chiamarono i carabinieri e questi riuscirono a determinare che la luminaria veniva da Capoliveri. Quando arrivarono, a notte fonda, c'era tutto un paese sveglio in piazza, a non fare nulla, a chiacchierare, a godersi la luce che aveva spezzato un buio di cinquemila anni. Nel mezzo, Leonard Schenker, marinaio tedesco, a lasciarsi illuminare.

Pure i carabinieri rimasero sbigottiti davanti a quello sfavillio; furono risvegliati dal casino infernale che faceva il generatore, e fu chiamato il sindaco ad aprirlo. Lo aprì, e si accorsero subito da dove veniva.

- "Signor sindaco, da dove viene questo ordigno?"

- "Non lo so, maresciallo. Lo abbiamo trovato."

- "Lo avete trovato? E dove?"

- "Al faro dell'Innamorata."

- "Lo sapete che questa è merce rubata?"

Il sindaco fece finta di cascare dalle nuvole e si mostrò assai costernato; "Merce rubata? E da dove?"

- "Da una nave. Sicuro che non ne sapete nulla?"

- "Sul mio onore, maresciallo. Non sapevamo neppure a cosa servisse. Lo abbiamo trovato e questo gentile signore straniero, che se ne intende, ci ha detto che ci si poteva fabbricare la luce."

- "E voi l'avete fabbricata."

- "Già ! Guardate com'è bella! "

E tutto il paese a fare "uuuuuuuhhhh", ma uno di quegli "uuuuuuuuhhhh" che sanno di felicità e di presa di culo al tempo stesso.

- "Eh sì, è proprio bella. Cosa dobbiamo fare?"

- "Non lo so, signor maresciallo…volete una fetta di pane? Un bicchiere di vino?"

E furono portati il pane e il vino. E siccome era quasi l'alba, anche qualche tazza di caffe'. E quando venne giorno, l'interruttore fu girato, la macchina fu spenta e alla luce artificiale si sostituì quella dell'inizio dei tempi. I carabinieri se ne andarono; solo che Luz non si vedeva più. Tutti pensarono che se ne fosse andato a dormire, l'autore della luce. Se lo meritava. Capoliveri: il primo paese dell'Elba ad avere la luce elettrica. Ci misero una lapide in piazza, lapide che c'è ancora; ma siccome il tempo è capriccioso ed è sempre al servizio di chi racconta storie in un portico e si azzuffa su una data, l'ultima cifra è stata raschiata via. Si legge soltanto: 24 novembre 189…

Tornò la sera e tornò il momento di dover riaccendere la luce elettrica in piazza. Luz non s'era più visto; doveva essere stanco. Stava in un bugigattolo in un vicolo vicino alla piazza; gli andarono a bussare. Nessuno rispose.

Lo trovarono morto su una seggiola, col capo chino su un tavolo di legno. L'aveva vista, la luce, per una sera sola. Poi il buio, così, all'improvviso, aveva deciso di presentargli il conto. Troppa luce. Se ne doveva essere avuto a male, il signore delle tenebre.

E' sepolto ancora lì. Nessuno, dal Baltico, se lo venne a cercare. Gli fecero i funerali a spese del paese e lo portarono al cimitero con una pietra. Gli sbagliarono il nome e ci misero sopra: Leonardo Scencker, onorato cittadino e lavoratore alemanno, con solo la data di morte perché nessuno sapeva quand'era nato. C'è voluto il console tedesco di Firenze, invitato per il centenario della luce a Capoliveri, per decreto fissato al 24 novembre 1994 visto che quella benedetta lapide
in piazza proprio non c'era più verso di leggerla. Si portò dietro, il signor console, un documento attestante che herr Leonard Schenker era nato a Travemünde il 19 agosto 1838 e che aveva fatto una vita un po' bizzarra. Ma non volle dire altro.

Ero ragazzino, e mia zia Bianca, che abitava a Portolongone (scusate, ma io proprio il nome Porto Azzurro lo detesto), ogni tanto ci chiedeva d'andare a trovarla. Per andare a Portolongone bisogna per forza passare davanti a Capoliveri. La strada è quella. Ci si passava con mio padre alla guida, la vecchia 850 special beige, pigiati come sardine. E ogni volta, ma dico ogni volta, mia zia Clara diceva:

"Capoliveri, quella del tedesco Luz che fece la luce e poi se ne mòrse."

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