Da tempo ho smesso d'indagare sui meccanismi della mente; sono come sono, e basta. Quindi non voglio collegare niente, non voglio sapere perché, stasera, leggendo per caso di patrie, nazioni, inni e compagnia bella, m'è tornata alla mente questa storia. La piccola storia ignobile d'un pensionato che, diciotto anni fa, infilai in una bara di zinco una mattina di marzo.
(Una piccola storia ignobile. Un pensionato. Ma non c'è da farci poesia, come in una vecchia canzone di Guccini che parlava di tutt'altro, anche se neppure questa vale due colonne su un giornale. È solo che ho l'insopprimibile istinto di ricordare tutti i "nessuno" che la vita m'ha messo di fronte; quelle persone che sono le sole verso le quali veramente senta comunanza e fratellanza autentica, libera da ogni retorica e da ogni bontà precostituita).
Tanti e tanti anni fa, facevo il volontario sulle autoambulanze in un'associazione che, fra i tanti servizi, aveva pure quello della rimozione dei cadaveri per morte "accidentale". Andavo spesso la mattina presto, quando non avevo lezione, perché c'era poca gente e mi piaceva starmene per i fatti miei, a leggere.
Il servizio di rimozione salme, per la sua natura, era usualmente gestito da dei dipendenti; i volontari venivano inviati solo quando ce n'era bisogno. La mattina del 24 marzo 1982, quando squillò la particolare campanella che annunciava quel tipo d'intervento (cinque colpi secchi), continuai tranquillo a leggere il mio libro, perché tanto sapevo che non sarei partito. E invece i dipendenti erano fuori per un altro servizio; il telefonista venne a chiamarmi e mi toccò andare.
Il carro salma era un decrepito furgone Fiat, qualcosa del '58 o del '59. Si stava in tre davanti, compreso l'autista; dietro, sistemate su delle guide scorrevoli, due casse di zinco con dentro un cuscino, un lenzuolo, una coperta e il telo di trasporto coi manici (che a Firenze si chiama "coltrino"). I Carabinieri avevano chiamato da una stradina di campagna sulle colline attorno al Galluzzo, e per arrivarci, fra il traffico, il furgone che faceva al massimo cinquanta all'ora e la salita ripidissima ci vollero quasi tre quarti d'ora.
Non so chi di voi è mai entrato nella casa di un suicida. Nessuno s'ammazza mai nell'ingresso o dietro la porta d'entrata. Si deve passare prima per la vita di tutti i giorni. Si deve passare per l'attaccapanni con il cappotto e il cappello, in buon ordine. Per il quadretto alla parete, con un'immagine di Venezia. Per la cucina, con il calendario di Frate Indovino, il frigorifero, il cartone del latte e la Settimana Enigmistica sul tavolo. E un cagnolino che ringhia disperato perché non vuol fare entrare nessuno in camera.
Bisogna passare attraverso gli oggetti, attraverso le cose che, fino a qualche ora prima, sono state guardate, toccate, usate da chi ha deciso d'interrompersi. A questo punto non so che dire; si socchiudono un po' gli occhi, e si ha paura.
Nella camera, un uomo anziano steso sul letto, in una valanga di sangue raggrumato. Ha preso il fucile da caccia, lo ha appoggiato sopra il comodino, si è puntata la canna alla nuca e s'è portato via tutta la testa. Schizzi di sangue e materia cerebrale ovunque; sul cassettone, sui muri, sul quadretto della Madonna, sulla foto ingiallita di due giovani sposi di chissà quanti cazzo d'anni prima. Il resto del corpo è intatto, con una gamba che pende fuori dal letto con ancora la ciabatta al piede. E il fucile era a cartucce; un pezzo di cervello si è come adagiato a una stecca della persiana, dalla quale entra il vento. Bisogna prendere tutto. Portare su la cassa di zinco, sollevarlo, adagiarvelo dentro già nel rigore della morte. Staccare il cervello dalla persiana con le mani, infilarlo in un sacchetto di plastica e metterlo con tutto il resto. Si è vivi. Si ha vent'anni. Ripassare per la cucina con il cagnolino che ringhia e guaisce, per l'ingresso con il quadretto di Venezia, per l'attaccapanni col cappotto ed il cappello, per le scale. Percorrere a ritroso. Uscire. Uscire per sempre. Prima, lo sguardo cade per caso sul tavolo della cucina; c'è una lettera, interrotta anche quella.
Viene naturale chiedersi il perché, ed anche se non lo chiedi c'è sempre chi tenta di dirtelo, di spiegartelo. Una vicina di casa racconta che due settimane prima gli era morta la moglie; quella con lui, nella foto schizzata di sangue e cervello. Racconta di duecentomila lire al mese di pensione, racconta di quando, due giorni prima, gli era arrivata l'ingiunzione di sfratto. Dove vai quando ti sfrattano a ottantadue anni?
Il ventenne ha appena infilato la cassa nel furgone, e si riposa un attimo appoggiato a un muro; gli capiterà tante altre volte di vedere morti sconciati, da undici ragazzi in gita tranciati in una galleria autostradale per colpa d'un autista assonnato e del "trasporto eccezionale" d'un maledetto tubo non segnalato sufficientemente dalla Polizia per arrivare a un padre, una madre, due bambine ed uno studente in una notte di maggio, in Via dei Georgofili, mentre tutto bruciava dentro e fuori.
Non ho mai amato fare filosofia da quattro soldi, e la morte mi fa paura. Non ho intenzione di trarre nessuna conclusione, perché tanto ogni cosa si conclude, prima o poi, da sé. Non voglio parlare di Dio e dell'esistenza, e scrivo con in mente dei concetti molto bassi, terra-terra, banali. Quell'uomo, come risultava dai documenti nella tasca dei pantaloni, aveva uno di quei nomi che difficilmente si scordano e che, in un'altra occasione, avrebbe fatto sorridere. Si chiamava Napolino.
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