sabato 26 maggio 2007

L'ho già visto


Rividi nella distruzione
la pietra scolpita da mani
di polveri antiche, la vita
storpiata, le immagini ferme;
mi colsero qui, nella notte
di maggio, le spalle un po' curve
mentre già, lontano, esplodeva
nel sogno il dolore, la fine.

E' da quella notte del 27 maggio 1993 che vado ripetendo una cosa, periodicamente, ogni qual volta mi torna alla mente oppure quando vedo un ovetto Kinder. Dico, sempre, che non importa se andrò all'inferno; l'ho già visto.

L'ho visto a partire da un letto in via di San Salvi, dove dormivo. Due ore prima avevo fatto una telefonata, o forse era un'ora e mezzo, o forse non l'ho mai fatta e me la sono sognata; sì, dormivo, ma di quei sonni strani di quell'anno. Erano sonnacci cani, puzzolenti d'alcool, sporcati d'illusioni, aggrovigliati alla follia. Si sentì uno scoppio tremendo.

Lo sentì anche il mio padrone di casa, pazzo intelligentissimo; ci ritrovammo in corridoio, in mutande, quasi scherzando. "Ci stanno bombardando", disse ridendo. "Ora arrivano gli elicotteri", gli risposi; tornai a letto. Squillò il telefono.

"Riccardo, corri, è un macello, un macello!"

Dall'altro capo del telefono, qualcuno dall'associazione del volontariato sanitario della quale faccio parte da oramai non so quant'anni, davvero da perdere il conto. Istintivamente e immediatamente ricollegai la cosa allo scoppio sentito pochi minuti prima.

Mi vestii alla bell'e meglio in mezzo minuto prendendo la divisa. Un minuto dopo stavo volando in sede con la mia vecchia Ford Escort bianca, quella che nemmeno due mesi dopo avrei decappottato andandoci a sbattere col tetto contro il pianale abbassato di un camion parcheggiato a lisca di pesce, rischiando di decappottare anche me stesso.

In sede c'erano quaranta persone, svegliate come me, lo scoppio, la telefonata. Tra loro, quattro medici che si erano messi a disposizione gratuitamente. Senza dire niente. Una squadra era già partita; furono fatte partire le altre autoambulanze. Io ero l'autista di una di esse. Fiat Ducato, sigla in codice Milano 4.

Da quel momento sono passati quattordici anni esatti. Ed ho ancora tutto negli occhi. La città bloccata dalla polizia, dai Vigili, dalla Protezione Civile. Il percorso obbligato da Lungarno della Zecca Vecchia e da Corso dei Tintori, già transennato. La gente che non capiva che diavolo stesse accadendo. E l'arrivo.

Piazza Signoria trasformata in un cimitero di vetri rotti, per terra ce n'era uno strato di dieci centimetri.

Le finestre di Palazzo Vecchio divelte.

La colonna di fumo che saliva dietro gli Uffizi.

L'ambulanza ferma. Si scende e si corre a piedi con la barella, i teli, i medicinali, l'attrezzatura di rianimazione.

Via Lambertesca.

Via dei Georgofili.

Non importa se andrò all'inferno. L'ho già visto.

Rividi nella distruzione
la pietra scolpita da mani

Le macerie.
I blocchi di pietra caduti.
Il fumo.
Le fotoelettriche.

L' "Antico Fattore" bruciato, con le impronte dell'insegna "Trattoria", che si era disciolta, ancora visibili sul muro.

La gente che continuava a scappare.

Le grida.

Un portone antichissimo di legno, che sarà pesato tre tonnellate, spazzato via. All'interno, una Mercedes scura sepolta dalle macerie. Spuntava solo il cofano posteriore, e la targa: FI K9…..

di polveri antiche, la vita
storpiata, le immagini ferme

I pompieri che scavavano.

E io, e noi lì, con degli elmetti protettivi rossi in testa.
Mi sentii ridicolo.
Non potei fare a meno di sentirmi ridicolo con l'inferno davanti agli occhi.
Chiudevo gli occhi ogni due secondi e li riaprivo con la speranza che fosse un incubo.

Spuntarono due piedi raggelanti, di un adulto.

Era ancora in pigiama.

Spuntò una bambina morta. Aveva un ovetto Kinder in mano.

E, poi, la sorellina di pochi mesi. Di pochi giorni. Si credette che fosse ancora viva. Un vigile del fuoco la prese, avvolta in una coperta, portandola a un'ambulanza.

Morì anche lei.

Come era già morta sua madre, che era stata la prima ad essere estratta dalle macerie della Torre dei Pulci.

Come morì un giovane studente del palazzo di fronte.
Viveva con la sua ragazza.
Era sveglio.
Stava studiando.

Sono quattordici anni che penso a quella ragazza.
Dove sarà adesso.
Che cosa farà.
Se si sarà di nuovo innamorata.
Oppure se il suo amore avrà per sempre ventidue anni.

mi colsero qui, nella notte
di maggio, le spalle un po' curve

Un fotografo della rivista "Epoca", mentre il vigile del fuoco portava via la neonata. Le spalle curve, la testa china.

Rimasi tutta la notte, tutta la mattina, tutto il giorno lì.

Mi toccò vedere gli arrivi dei potenti, dei politicanti, dei giornalisti. Di Carlazzeglio Ciampi, che all'epoca era presidente del consiglio, e che col suo codazzo di gorilla mi tirò una botta dietro che ci mancò poco che rotolassi per terra.

Durante quella giornata mi venne di fare una telefonata.
O forse non mi venne, non me ne ricordo bene.

Mi rispose una voce. O forse no. Raccontai. A qualcuno dovetti raccontarlo.
La voce era strana, fredda.
Eppure mi ricordo che, pochi giorni dopo, su un prato, a quella voce mostrai la foto di "Epoca".

mentre già, lontano, esplodeva
nel sogno il dolore, la fine.

Nemmeno un mese dopo sarebbe toccato a me, di esplodere.
Ed era, anche quello, uno scoppio che veniva dalla stessa notte.
Non fu inviata nessuna squadra di soccorso a raccogliere le macerie.

Passano gli anni.

Come passano gli anni.

Ogni anno arriva la notte fra il ventisei e il ventisette maggio.

Nessuno mi chieda, in quella notte, di fare qualcosa.

Nessuno mi metta mai più davanti un ovetto Kinder.





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