martedì 19 giugno 2007

Allah Snackbar (3a Parte)

3a e ultima parte: La manovalanza e le nuove leve dell’invasione ‘slàmica

L’invasione ‘slàmica non ha, almeno allo Ali Snack Bar, il volto barbossuto di Osama bin Laden, né quello assai più telegenico di Al-Zarqawi (era ancora vivo al momento della redazione originale del post, NDR). Ha, invece, il faccione paffuto di Fatih Terim. Nonostante le sue recenti disgrazie dovute all’eliminazione dai mondiali di Germania della nazionale turca (proprio da parte della Svizzera), l’ex allenatore della Fiorentina e del Milan è il simbolo più tangibile dell’oramai prossima ‘slamizzazione dell’Europa cristogiudàica. Mamma li turchi! E quale nuova valenza abbia questo secolar grido (al quale non sappiamo se si contrapponesse un analogo annesim, İtalyanlar!) lo si capisce bene dal fatto che l’invasione dell’Ali Snack Bar non tifa per il Thun, per il Basilea o per il Grasshoppers (del Friburgo non parlo neanche, dato che gioca più o meno in una serie corrispondente alla C2 italiana), ma, compatta, per il Galatasaray.




Nelle foto: Fatih Terim in una sua tipica espressione da invasore e una formazione invasiva del Galatasaray.

Ora, questo nome dovrebbe darci da pensare. Galatasaray è il nome di un quartiere di İstanbul; ma non molti, penso, sanno esattamente cosa vuol dire e da quali elementi linguistici sia formato. Ed è del tutto inutile, che so io, che un Fabrizio de André abbia prodotto album interi in genovese per farci vedere che dovremmo essere tutti quanti sulla stessa barca del Mediterraneo, che fra tutti i paesi che vi si affacciano ci sono stati scambi e interazioni di ogni genere (e che tali scambi si sono riflettuti precisamente in tutte le lingue, seppur di origine diversissima, che sono parlate nei paesi mediterranei), che la "religione” è un’emerita puttanata tirata sempre più in ballo in un’epoca dove le puttanate religiose sono assurte a dogmi pressoché intangibili. E non a caso ho nominato De André: il nome Galatasaray è infatti turco-genovese. Galata è il genovese calata, inteso come serie di palazzi e installazioni che si affacciano su una parte del porto (dal fatto che vi si “calavano” le merci sbarcate dalle navi); così la colonia genovese di Costantinopoli aveva chiamato il quartiere dove risiedeva. Ora, chiunque abbia mai messo piede in una città di mare italiana sa che il termine calata è comunissimo, e non solo a Genova; a Livorno c’è la “Calata Mazzini”, a Portoferraio c’è la “Calata Italia” e così via. Il Saray, invece, in turco vuol dire “palazzo, fortezza”; è la parola che è approdata in italiano come serraglio, istituzione tipicamente ottomana (il “caravanserraglio”, insomma), ma la si ritrova anche nel nome di Sarajevo, slavizzato con il suffisso dei cosiddetti aggettivi possessivi e messo al genere neutro. Una sera mi sono messo a spiegare in francese a due avventori-invasori dello Snack Bar l’origine del nome Galatasaray, convinto di fare il ganzino, come si dice dalle mie parti. Il fatto è però che i due (un muratore e uno stradino) lo sapevano benissimo. Uno è arrivato a snocciolarmi sette o otto parole di origine italiana in turco (banyo, franko –pronunciato però fıranko-, fıyasko etmek, eccetera). E m’è toccato starmene zitto, bermi il thè offerto da Ali e incassare la salutare lezioncina.



La Calata Italia (in turco: İtalya Galatası) di Portoferraio, Isola d'Elba.

Dicevamo? Ah sì, il Galatasaray. Nemico giurato del Fenerbahçe. Il bello gli è che, degli invasori-avventori dell’Ali Snack Bar, si e no un paio provengono da İstanbul o dintorni. Per il resto c’è tutta la Turchia, compreso un giovanotto di Kars che si è stupito assai che della sua sperduta cittadina si sia parlato in un famoso romanzo che sta furoreggiando anche in Europa. Ali e la sua famiglia sono originari invece di un villaggio nei dintorni di Antalya la cui foto campeggia accanto al frigobar con la birra Efes e le bibite Uludağ. Non me ne ricordo mai il nome, anche se finisce in –köy; quando ho detto a Ali “oh com’è bello il tuo paese”, mi ha risposto tranquillissimo che non esiste più, dato che è stato raso al suolo dal quarantottesimo terremoto in 200 anni eccetera. Così, sorridendo, in francese m’ha detto che lo avrebbero ricostruito e che prima o poi sarebbe stato nuovamente distrutto.



Una veduta della città di Kars, di cui si parla in un famoso romanzo contemporaneo.

Dunque, parlavamo del Galatasaray. La Juventus turca, insomma (ancora calciopoli era là da venire, NDR). Le altre squadre non contano; e se il Galatasaray è la squadra dell’invasione ‘slàmica, gli juventini siano finalmente coscienti di recare alta la bandiera di Giovanni Sobieski. Perdiana. Altro che Zbigniew Boniek (genitivo: Zbigniewa Bońka).

Quando alla tivvù c’è la partita del Galatasaray tutto si ferma. La cospirazione islamica è operante. Il marciapiede della strada è off-limits per gli occidentali, tranne i pochi che, come me e l'oramai celebre jeune étudiante, hanno ottenuto lo speciale lasciapassare. Gli altri pochi occidentali che hanno accesso allo Snack Bar tifano Galatasaray, come un vecchio friburghese ubriaco fin dalle otto di mattina, con il quale una volta ho tentato di scambiare due parole in francese. Mi ha risposto in una lingua non meglio precisata. Sono allora passato al tedesco, e mi ha risposto nella stessa lingua non meglio precisata. Alla fine, disperato, gli ho sparato le famose dieci parole di turco che conosco, tutte assieme: teşekkür ederim, güle güle, ey türk gençliği (inizio di un famoso discorso di Atatürk), günaydin, kahrolsun Yunanistan! Mi ha fatto un sorrisone sdentato, annuendo con la testa, e si è rimesso a bere qualcosa su cui non intendo indagare.



Mustafa Kemal, detto Atatürk ("padre dei turchi") (1881-1938)

Insomma, per farla breve, appare evidente l’oramai avvenuta islamizzazione di Friburgo, se anche un autentico briacone svizzero capisce meglio il turco del francese o dello schwyzertüütsch (che, peraltro, è da alcuni autorevoli linguisti considerato un puro dialetto anatolico con qualche venatura curda). Ma tutto ciò è niente in confronto all’azione delle nuove leve dell’invasione. Allo Snack Bar ne è presente una assolutamente paradigmatica: nientemeno che il figlio minore di Ali.

Ha quindici anni. Un ragazzo paffutello, di nome Osman (cioè “Ottomano”, eh, dico io). La sua montura tipica, anche d’inverno, consiste in un paio di jeans e nella maglietta del Galatasaray con il numero 10 (sopra c’è il nome del titolare). E’ nato a Piiripurkki, la Confederazione Elvetica gli ha recentemente rifiutato la cittadinanza per la settecentesima volta con tanto di referendum popolare, in Turchia avrà messo piede tre volte in tutto e parla perfettamente il francese, il tedesco, lo schwyzertüütsch e il turco. E’ nell’età in cui un essere umano di sesso maschile ha in mente una sola cosa: il giuoco del calcio. La scuola? Un dovere mattutino, anche se Ali tiene a dirmi sempre che è bravissimo. Le ragazze? C’è tempo. Gli amici? Sì, basta che siano appassionati di calcio. E qui l’invasione e lo scontro di civiltà si fanno cose serie, o miei scarsi lettori.

La lotta di Osman contro la civiltà occidentale si esplica però in modi sorprendenti.

Una sera, ad esempio, ci stavo ragionando (in francese) di calcio, eh. Voleva sapere ogni cosa: per quale squadra facevo il tifo, la storia della relativa squadra, i giocatori più famosi. Il giorno dopo mi ha snocciolato la formazione della Fiorentina che vinse il primo scudetto nel 1956. Nell’ordine esatto dei giocatori: Sarti, Magnini, Cervato eccetera. E’ seguito un resoconto dettagliato, da parte sua, della carriera di Giancarlo Antognoni, compreso l’anno in cui, a fine carriera, giocò nel Losanna. Come ciliegina mi ha detto anche la formazione del Livorno che ha ottenuto la promozione in serie A nel 2004. Io stavo lì, con una birra Efes in mano, a farmi inesorabilmente invadere.

Qualche sera dopo, anche un traditore della civiltà accidentale occidentale come me ha però avuto un rigurgito di fierezza giudaicocristiàna. Ho deciso di sfidare quel pericolosissimo scontratore di civiltà su un terreno sul quale, alla sua età, ero imbattibile: le capitali degli stati del mondo. “Lo faccio a pezzetti, quel piccolo invasore”, mi sono detto entrando con passo deciso nello Snack Bar e con aria da OK Corral. Era lì. Con la sua maglietta del Galatasaray. La tivvù trasmetteva un film turco ambientato nel ‘500, in cui una bionda con addosso un vestito rosa shocking veniva rapita e presa a ceffoni da un bruto che sembrava Conan il Barbaro, con tanto di cinturona e fibbiona di un metro. Ali preparava kebab. A un tavolo, tre tizi discutevano in turco, certamente degli ultimi articoli di Magdi Allam, con parole inequivocabili: “Fenerbahçe, Bayern München, Paris St. Germain, Barselona Realmadrìd”. La sfida è iniziata.

“Capitale del Sikkim”?
“Gangtok”

Sudorini freddi. Tocca a lui.

“Capitale della Malaysia?”
Ci penso. Sono arrugginito.
“Kuala Lumpur”.

Olé. Tiè, piccolo invasore. Tocca a me.

“Capitale del Suriname?”
“Paramaribo”.
Così, senza neanche pensarci un momento. Ora tocca a lui.

“Capitale dello Swaziland?”
Mannaggia. Come cazzo si chiama?
Ci penso.
Nulla da fare. Non me la ricordo.
Lui sta lì e ridacchia.
Getto la spugna.

Prorompe, alzandosi in piedi: “Mbabane! Mbabane!”



E, una sera qualsiasi, si ha presente finalmente la verità. L’invasione islamica ha vinto. Arrendiamoci. L’invasione passa addirittura da Mbabane: non c’è più niente da fare. Allah Snackbar!

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