Un'altra storia dall'isola d'Elba. Mortigliano è nella fotografia. Una tra le tante cose sentite raccontare quando ero bambino o ragazzino. Una storia semplicissima, come ne saranno accadute a migliaia in ogni posto di mare. E' lunga e la lascerò almeno un paio di giorni senza inserire nuovi post. Chi la vorrà leggere si prenda una mezz'ora, un bicchiere di qualcosa e ogni tanto chiuda gli occhi ed apra l'immaginazione.
Viene dalla mailing list "Fabrizio" e anche dal newsgroup italia.firenze.discussioni (IFD), dov'è stata postata il 18 novembre 2004. Ma la sua primissima redazione è un tema in classe di quand'ero in quinta elementare.
Chi, all'Isola d'Elba, stanco delle spiagge affollate, della calca e degli ombrelloni, s'avventuri a cercare anche in pieno agosto qualche angolo più tranquillo, se non proprio vuoto, deve avere buone gambe.
Bisogna lasciare la macchina o la moto, e scendere giù per dei sentieri sovente ripidi; è faticosa la discesa ed ancor più faticosa la salita, specie quando il sole è a picco. Si cammina e si suda, si suda e si cammina; ma, una volta arrivati, si capisce che ne è valsa davvero la pena. Così quando si scende a due spiagge che dalla provinciale panoramica verso Pomonte e Chiessi, dopo Fetovaia, non si vedono e non sono segnalate da nessun cartello, anche per i loro nomi decisamente macabri, e che a qualcuno devono pur mettere un po' di paura: Le Tombe e Mortigliano.
Una accanto all'altra, separate solo da uno spuntone di roccia; una volta, alle Tombe, sono riuscito a starmene completamente da solo un dodici d'agosto. Ma è successo molti anni fa, quando ancora pochi avevano la barca. Molti anni fa; e questa è una storia ancora più lontana.
Mortigliano e Le Tombe. Che razza di nomi, probabilmente derivati da qualche antica sciagura di mare; almeno quello delle Tombe sembra risalire ai tempi della razzia saracena di Dragutin (che poi era il famoso Pirata Barbarossa, un serbo fattosi turco), nel 1553, quando tutti gli abitanti di Pianosa vennero uccisi o deportati, ed i cadaveri approdavano alle coste della vicina Elba; e provate ad immaginarvi quei posti ancora poc'oltre settant'anni fa. Perché questa, pur passata tra le maglie di qualche vecchia che ancora se la racconta e la racconta quando avevo cinque o sei anni, è una storia vera, e con una data precisa: il 13 dicembre 1929. La notte di Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.
La strada che va da Marina di Campo a Marciana, passando per Fetovaia, Pomonte e Chiessi, è stata costruita a strapiombo sul mare, a forza di dinamite, dal 1960 al 1964. Prima non c'era che un sentiero, da farsi coi muli; oppure c'era il mare. Esistono, su dei bei calendari che si vendono nei chioschi dell'Elba ogni anno, delle foto dove si vedono dei contadini che vanno al mercato a vendere la loro roba, da quei posti, con l'asino infagottato fino all'inverosimile; ne tornavano con
pochi soldi e con le provviste che dovevano bastare per chissà quanto tempo. Solo uomini. Le donne restavano a casa. Ancora negli anni settanta, quando la strada c'era già, mi ricordo d'aver conosciuto delle vecchie che non s'erano mai mosse dal paese; vi erano nate, e vi sarebbero morte. A Chiessi, una delle attrattive del luogo sono due vecchissime sorelle la cui missione, da sempre, è quella di difendere la fontana dagli intrusi che vengono a prender l'acqua con le taniche, perché è acqua buona che scende dal monte; e la difendono con le unghie e con i denti. A parolacce e graffi. Qualche volta c'è scappata persino una sassata, son due da starci attenti. Perché, nella loro testa che batte la campagna, probabilmente si ricordano di quando, a Chiessi, non c'era che quella fontana, che doveva bastare per tutti quanti. Rubare l'acqua, era come rubare la vita.
E a Chiessi, nell'anno 1929, viveva un uomo il cui nome sembra essere stato Gaudenzio, o Godenzo (anche nel Mugello, San Godenzo vuol dire San Gaudenzio). Non era dell'Elba; veniva dalla Garfagnana, una delle terre toscane più povere e terribili, ed era un esperto muratore. Qui comincia la nostra storia, e quella dei suoi figli.
2.
Perché quel Gaudenzio fosse arrivato dalla Garfagnana all'Elba, è presto detto: essendo un muratore, lo avevano chiamato per costruire. Un faro. Il faro di Punta Polveraia, che è l'estremità della cala di Patresi, subito dopo Chiessi.
Sono acque pericolose, piene di scogli affioranti, e battute da venti che cambiano all'improvviso, e violentemente. Sono acque che, di morti, ne hanno fatti tanti; e li fanno ancora adesso, come un turista francese che mi capitò d'andare a tirar fuori dall'acqua, gonfio e annegato, nell'estate del 1981, con una vecchia ambulanza sulla quale prestavo servizio. E mi ci toccò fare, assieme a lui, anche il viaggio al cimitero. L'autista guidava, l'altro volontario stava seduto accanto a lui ed io, visto che ero il più giovane, dietro, seduto accanto al cadavere sulla lettiga, coperto da un lenzuolo. Ad ogni curva, la salma si rigirava, e dovevo tenerla per evitare che mi cascasse addosso.
Un faro ci voleva, per forza. Piccolo piccolo.
Ma che facesse un po' di luce su quel mare carogna.
Era andata a finire che Gaudenzio, finito di costruire il faro, era rimasto all'Elba. Per il motivo più antico e naturale di questo mondo: aveva conosciuto una ragazza di Chiessi, l'aveva corteggiata come si faceva a quei tempi, ci si era fidanzato e l'aveva sposata. Miseria per miseria, aveva scelto quella dell'isola; ché, tanto, ci si faceva la fame come in Garfagnana, ma perlomeno c'erano un po' di mare e un po' di vigne.
Questo doveva succedere verso il 1890.
Ma Gaudenzio non era tagliato per fare il marinaio o il pescatore; era un montanaro, e un montanaro era restato. Poco dopo sposato, con mille sacrifici aveva acquistato un mulino, che era l'unico della zona; ed era arrivato un po' di benessere, per quanto benessere si potesse avere laggiù, a quell'epoca, per lui, per la moglie e per i figli che erano venuti al mondo uno dietro l'altro. Nel 1929 erano arrivati a nove; quattro maschi e cinque femmine.
I due maggiori tra i maschi si chiamano uno Lorenzo e l'altro Rinaldo; trent'anni il primo e ventiquattro il secondo. Essendo venuti al mondo lì, son diventati pescatori anche se, come è ovvio, sanno fare di tutto: macinare il grano e fare il pane, coltivare la vigna, costruire i muri a secco, spaccare la legna. Il 13 dicembre 1929 è un giorno speciale per tutta la famiglia: Gaudenzio, che non s'è certo scordato di come si fa il muratore, ha costruito infatti un nuovo magazzino per la farina. E' un giorno di festa anche per il paese: con il magazzino, infatti, si potranno accumulare le provviste di farina senza dovere per forza andarla a comprare a Campo, con tutti i disagi del viaggio, specialmente d'inverno. Per l'apertura del magazzino viene scelto proprio il giorno di Santa Lucia; il parroco, don Leto, un còrso arrivato lì non si sa quant'anni prima, tanto tempo da aver dimenticato il dialetto di Propriano dov'era nato, dopo aver detto messa alla Santa, avrebbe dovuto battezzare il magazzino.
Proprio così si faceva: il prete arrivava con l'ostensorio, benediceva la costruzione e l'aspergeva con l'acqua santa. Un battesimo vero e proprio, come si faceva del resto con le barche nuove.
Il giorno prima sembra quasi tornata la primavera.
Un caldo fuori stagione, una giornata bellissima da stare in maniche di camicia, un mare stranamente liscio come l'olio. Tutto quel che ci vuole per pigliare il gozzo e mettersi a pescare. Un po' di pesce fa sempre comodo. La vita è sempre dura, grama, ed ogni piccola cosa va conquistata a fatica, giorno dopo giorno. E poi, magari, si potrà servire un po' di pesce al rinfresco dopo il battesimo del magazzino.
Ci sarà tutto il paese, la festa è di tutti quanti.
I due fratelli, dopo cena, sortono in fretta di casa con pochi arnesi per la pesca. Sono due marc'antoni; il primo è già sposato e ha due figli piccoli, il secondo è appena tornato dal servizio militare. Che durava tre anni. Sortono di casa probabilmente meravigliandosi del caldo che fa, in quel dodici dicembre; alle dieci la sera, quando si va di solito in mare per la pesca, in quella stagione si dovrebbe bubbolare dal freddo e dall'umido, e coprirsi perbene coi maglioni e colle cerate. E invece sembra di stare a maggio.
3.
A questo punto della storia, chi legge deve immaginarsi un gruppo di donne anziane che la racconta, con un vecchio che fa l'eterna figura del guastafeste. E' lui che corregge, che dà il rimbecco alla narratrice principale (le altre aggiungono solo dei particolari), che s'arrabbia se si divaga troppo. Probabilmente è quel che farebbe anche me, in questo momento; ma nel raccontare storie, in quella cultura orale che mi piace spesso pensar di sentirmi sempre più uno degli ultimi ad aver conosciuto di persona, questo è il momento in cui ci si avvia alla catastrofe. E la catastrofe ha bisogno di segnali che ne preannuncino il sopravvenire.
I due fratelli, Lorenzo e Rinaldo, mettono in mare la barca e s'avviano al largo con rapidi colpi di remo; e la Nunzia parla di strani lampi verso la Corsica, e la Bianca racconta di strani rumori che arrivano dal buio; e se c'è Mariabarìle, che non è il soprannome d'una donnona ma si chiama proprio così, Maria di nome e Barile di cognome, a un certo punto compare invariabilmente la Madonna.
Perdonatele quelle donne, ché son tutte morte e sepolte; del resto ci pensava Ulisse, che invece è ancora vivo, a mettersi le mani nei capelli e a dire le cose come stavano sul serio. Era cambiato il vento, all'improvviso. Solo questo. Come succede spesso in mare aperto.
Aveva messo ponente, e una ponentata, da quelle parti, è capace di pigliare un peschereccio bello pesante e di sfracellarlo sugli scogli; figuriamoci un gozzo a remi. Da lontano si sente probabilmente come un sibilo, ma i due fratelli non ci fanno caso; remano come forsennati e, arrivati verso Campolofeno, dove l'acqua è profonda, cominciano a pescare. Ed è una cosa mai vista. Pesci su pesci. E su pesci ancora, di tutti i tipi. Sembra che il mare voglia partecipare alla festa per il magazzino, dando da mangiare a tutta Chiessi, a Pomonte, a Patresi e al Colle d'Orano.
Ulisse interrompe ancora la narratrice: "Ma te lo scordi sempre di di' der detto di Santa Lucia!"; perché, dovete sapere, che all'Elba non si deve mai andare a pescare in quella notte. Santa Lucia è la santa cieca, che toglie la luce del giorno per dar quella dell'eterna beatitudine; e, nella sua notte, il mare da un momento all'altro può farsi inquieto ed agitarsi fino a diventare un nemico invincibile.
Se n'accorge Palmiro Costa, pure di Chiessi, che accortosi del repentino cambiamento del vento ha preso la sua barca e s'è gettato verso i due sciagurati fratelli che, nel frattempo, sono abbagliati dalla pesca abbondante e non si curano delle onde che si vanno accrescendo. Il vecchio Palmiro arriva vicino, e urla: "Venite via, ché c'è maraccio! Tornate a casa di corsa! Fa burrasca!"
Lorenzo e Rinaldo si guardano un po' incerti. Si sono resi conto che il mare si sta alzando, ma non vorrebbero lasciare tanta grazia di Dio. Ma è troppo tardi. Palmiro ce la fa a allontanarsi appena in tempo; il mare è diventato livido, gonfio e prende minaccioso ad incalzare. Le onde sono sempre più forti e scuotono con violenza il piccolo gozzo che sembra un fuscello sbattuto qua e là, senza più governo. I due fratelli sono sgomenti, ma non perdono la speranza: remano con rabbia, arrivano già a metà percorso e presto saranno a casa. Ma non hanno fatto i conti con le secche; e le secche sono proprio davanti a Mortigliano. Fra Mortigliano e le Tombe. Sono quelle secche, le loro tombe.
La povera barca viene rovesciata dalle ondate paurose che si infrangono sulle secche; ma ancora Lorenzo e Rinaldo, scaraventati in mare, non demordono e lottano come possono. Cercano di raggiungere la spiaggia a nuoto, non è lontana; con un mare appena un po' meno tremendo ce l'avrebbero fatta in cinque minuti. Ma non c'è niente da fare. Un'ondata afferra prima uno, e poi l'altro. Sono sbattuti con forza, chissà quante volte, contro gli scogli appuntiti e taglienti come rasoi appena affilati.
Sconciati da una notte di tempesta e irriconoscibili persino ai fratelli, alle sorelle e al padre, così li trovano la mattina dopo. E uno degli altri due fratelli maschi, Francesco, che se ne accorge e va a avvertire il padre e il parroco, che quel giorno avrebbe dovuto benedire il magazzino appena finito di costruire. Il giorno di festa si volta in giorno di lutto. La madre, Beppina, si chiude in casa nel suo dolore che mi piace d'immaginare composto quando duro. In realtà, non ne so niente. Qui sono io, la vecchia che racconta. Sono io il narratore. Vado a ruota libera, oramai.
E vedo, anzi voglio vedere, una processione che attraversa una ripida e aspra montagna che ben conosco, passando per la via dell'Omo che, a un certo punto, si congiunge con quella della Madonna del Monte. Hanno portato due lettighe fatte d'assi di legno e li hanno coperti con dei lenzuoli per riportarli a casa. Non suona nessuna campana, perché la campana a morto rintocca al momento del funerale. La giovane moglie di Lorenzo è chiusa in casa coi bambini, ai quali è stata nascosta la verità; il mare è tornato beffardamente calmo. Un olio. Fa di nuovo quasi caldo.
Così andava, in quei poveri posti capaci solo di generare povere storie. Ora è cambiato tutto; a Chiessi, le antiche case dei pescatori sono state trasformate in bellissime casette per le vacanze. E' un posto incantevole; ma a buttarsi in quel mare bisogna stare sempre attenti.
Esiste ancora il magazzino costruito da Gaudenzio, quel magazzino che non fu mai battezzato in quel tragico e lontanissimo giorno. E' vicino al ponte di legno che attraversa un fosso che scende giù dal monte Giove.
Esiste ancora una lapide, a Marciana, che Gaudenzio pagò e fece scolpire anni dopo per ricordare quella notte di Santa Lucia. Ma è sbiadita dal tempo, oramai. Chissà per quanto ancora vi si leggeranno i nomi, e quella vicenda raccontata nel pomposo stile dettato, chissà, da un maestro di scuola o da un prete. Arriverà il giorno in cui, di questa storia, non si ricorderà più nessuno; quelli che l'hanno vista sono morti, quelli cui l'hanno raccontata sono morti e quelli cui è arrivata per le strade del tempo, moriranno senza averla potuta mai raccontare.
1 commento:
Grazie per questa storia. Mi è assai cara. Dopotutto son cresciuto a Colle D'Orano. I nomi "Mortigliano" e "le tombe" son sinonimi di infanzia e di vita. E manco a dirlo, sono nato la notte di Santa Lucia...
Ciao
Francesco
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