domenica 17 giugno 2007

Allah Snackbar (2a Parte)

2a parte: Nel tempio dell'invasione

Esternamente non avrebbe niente che potesse far pensare ad una tal sentina di perigli innominabili: una porta a vetri, una vetrina con su scritto Snack Bar Ali con le immagini standardizzate del döner kebab, del börek, dei falafel di una catena con sede (mi dicono) in Germania.



Nella foto: La razione minima di falafel per Riccardo Venturi (courtesy of magnocomeuntricéfalo.com)

Ai due lati, il centro culturale Anadolu (la cui attività culturale preferita è la visione continua di partite di calcio, ma sulla cui porta campeggia un tazebao che chiede l'ingresso della Turchia nella UU–Unione Uropèa) e la panetteria turca. Ma già da questo si può osservare facilmente come l'islam abbia invaso il marciapiede destro della strada, dove soltanto il Bar Benfica, portoghese, mantiene eroicamente un avamposto della civiltà occidentale dalle radici giudaico-cristiane, preparandosi sempre a novelle Lepanto quando si gioca Benfica-Galatasaray.



Andrea Vicentino: La battaglia di Lepanto. Venezia, Palazzo Ducale.

Nella sua battaglia può senz’altro contare sulla via parallela, baluardo di cristianità con la churrascaria portoghese O Carvão("Il carbone") e con il negozio di alimentari italiani della famiglia Di Liddo (all’interno del quale campeggia un ritratto, ebbene sì, di Silvio Berlusconi).

Ma è soltanto dopo essere penetrati furtivamente all’interno che si capisce bene la vera natura di quel sedicente snack bar. Ho ottenuto una specie di amichevole lasciapassare per entrarvi senza dare nell’occhio, sciorinando le dieci parole di turco che conosco e contando sul mio aspetto tipicamente mediorientale; il proprietario, un ometto gentilissimo di una cinquantina d’anni e passa, che vive al piano rialzato assieme a tutta la sua numerosa famiglia, ha deciso di rendermi un suo prezioso alleato nell’invasione dell’occidente. Ebbene sì, sono passato dall’altra parte. Sono un (peraltro felicissimo) traditore della nostra civiltà, oh yeah.



Nella foto: La jeune étudiante dont je suis tombé amoureux comme un fou e una sua amica della Val di Blenio (Canton Ticino) fotografate all'interno dello Ali Snack Bar.

L’interno del bar consta di qualche tavolo, di alcuni orripilanti murales bucolici che un bimbetto di terza elementare avrebbe sicuramente meglio dipinto coi pastelli a cera, di uno scaffale dove si trovano in vendita prodotti conservieri turchi (dolmas, peperoncini sott’olio, biscotti, pomodori secchi, il thè e altre cose), di un frigobar con la birra Efes ("Efeso"), le stucchevoli bibite gassate Uludağ e l’immancabile Gazı (che sarebbe un “boh” dal sapore di yogurt salato, da bere gelato), di un impianto stereo risalente all’epoca d’oro della discomiùsic e della tivvù. E quella è una cosa seria. Ma seria sul serio. Però ne riparleremo più in là.



C’è il bancone, al quale si alternano Ali, la moglie e qualche figlio o figlia (uno dei figli, credo il maggiore, è anche il fornaio dell’attigua panetteria); nel bancone fanno bella mostra di sé altri prodotti più o meno freschi. Il pane, però, è sempre fresco per forza di cose, dato che deve fare un percorso di circa tre metri dal forno. Si vendono anche sigarette (con il tipico Automat svizzero) e c’è la bacheca dei giornali: La Liberté, quotidiano friburghese in lingua francese, la sua copia conforme in tedesco Freiburger Nachrichten e lo Hürriyet in turco. Io leggo sempre e solo quello. Oddio, leggere è una parola grossa, dato che riesco a capire o a intuire una parola su trenta, aiutandomi magari con le foto. Però la pseudolettura di un giornale turco è un’esperienza che va fatta. Innanzitutto si nota la quantità abissale di pubblicità di ogni tipo, affidata perlopiù a graziose signorine seminude e rigorosamente bionde. Le pagine con le notizie sono alternate a paginoni di pubblicità, mentre i titoli sono a caratteri cubitali; le uniche pagine dove non si osa inframezzare réclame sono quelle sportive, cioè calcistiche; e, in questo, l’invasore islamico è perfettamente in sintonia con il baluardo cristiano portoghese. Calcio, calcio e ancora calcio. Alle pareti del bar è attaccato con lo scotch il calendario del campionato turco; e se mi decidessi a imparare un po’ quella (bella) lingua, scoprirei probabilmente che il 96% delle discussioni tra gli avventori sono a base di football. E il restante 4%? E’ ovviamente quello che conta. Il calcio serve a coprire quel 4% dove si ragiona di Al-Qaeda, del prossimo attentato (probabilmente all’allenatore della nazionale elvetica, Kobi Kuhn, dopo quel che è successo a İstanbul il 16 novembre 2005…), di strategie di progressiva conquista.

Dicevamo che io e la jeune étudiante siamo tra i pochi occidentali traditori cui è permesso varcare la soglia del bar. Il pretesto è, ovviamente, quello di mangiare qualcosa (sbafando fino all’ultima goccia anche le salsine), di bere un caffè, o meglio un thè turco, che se uno ha da passar la notte a lavorare è assai più efficace del caffè; pretesto suffragato dal fatto che Ali, con grande complicità, ci offre sempre un paio di baklava a gratis, non ci fa pagare il caffè o il thè se abbiamo mangiato, e comunque ha sempre un pensiero gentile. Tranne quando c’è anche la moglie. Quando c’è lei non osa, e bisogna pagare tutto fino all’ultimo centesimo. La signora deve mandare avanti una famiglia numerosa, e non c’è verso di sgarrare; ma, guardandoci, Ali allarga sempre le braccia con un gesto eloquente, quasi a chiederci scusa alzando gli occhi al cielo. Va da sé che ciò conferma le voci sempre più frequenti di un’attiva partecipazione delle donne all’invasione.

Gli avventori-tipo sono quasi tutti giovani turchi di sesso maschile di età compresa fra i 18 e i 40 anni. Anche perché c’è la tivvù. La tivvù è imprescindibile. Rimane accesa 24 ore su 24. Sintonizzata con la parabola su una serie infinita di canali turchi che trasmettono calcio, calcio, calcio e videoclip di canzoni turche.

E qui mi sia concesso di aprire un’altra parentesi relativa proprio ai videoclip turchi, un’altra esperienza di vita che ritengo altamente formativa anche e soprattutto dal punto di vista della prevenzione dello scontro di civiltà, mettendo in luce gli aspetti socioetnologici di una società islamica integralista e dedita alla preventivata distruzione del mondo occidentale.

Il videoclip-tipo di una canzone turca si compone di un uomo coi baffi sui 40/45 anni in giacca e cravatta. La giacca non è necessaria, ma la cravatta è indispensabile. Tale uomo deve essere abbandonato dalla moglie o dalla fidanzata, la quale è prosperosa (le taglie 42 non vengono apprezzate in certi luoghi assai civili), possibilmente bionda o tinta di biondo e indossa abiti svolazzanti che ne mettono in risalto le curve tutte al loro posto. L’uomo coi baffi e la cravatta canta una canzone in modo assai accorato, con ripetuti flashback su quando la coppia era felice (situazione tipo: lui e lei si abbracciano e si baciano castamente camminando o correndo a piedi nudi sulla riva del mare). Di nuovo carrellata sulla discesa agli inferi del pover’uomo: lo si vede ad ubriacarsi in qualche locale malfamato, dove molesta donne di dubbia moralità venendo poi scatasciato a manate, preso a calci nel culo e infine sbattuto fuori con piroetta sul selciato. In alcuni video particolarmente crudeli gli viene fatta subire la suprema onta del taglio della cravatta.

Altro flashback: l’ex moglie, ex fidanzata o ex amante è adesso a bordo di una lussuosa automobile assieme a un tizio dall’aria squalesca, più anziano ma sempre coi baffi e in giacca e cravatta. Ritorno al baffuto abbandonato, che canta a squarciagola tek, tek; ma non sta meditando di affogare il suo dolore nel commercio del legname. Tek, tek vuol dire solo, solo in turco. Il videoclip e la canzone si concludono su un ponte, con il tizio che guarda sconsolato. Mediterà di porre fine alle sue sofferenze gettandosi nel vuoto e spiaccicandosi sull'asfalto? Non lo sapremo mai. Ma sarei capace di guardare videoclip di canzoni turche per ore e ore.



Mahzuni Şerif, cantante turco coi baffi e la cravatta.


(2 - continua)

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