martedì 12 giugno 2007

Portolongone


Non c'è molto bisogno di introdurre quanto segue. E' una cosa recente, scritta il 2 aprile 2007.

Avevo sì e no dodici anni quando, una volta, mi capitò sull'Aethalia, il vecchio traghetto della Navigazione Toscana che faceva servizio tra Piombino e Portoferraio, di assistere a una cosa. C'era un vecchio, appoggiato alla ringhiera della nave, prima ancora che salpasse dall'Elba verso il continente; attorno a lui della gente in divisa che lo salutava, che lo abbracciava, che gli diceva di scrivere. Ci sono dei particolari che non si dimenticano mai; mi colpì subito il fatto che teneva, nell'appoggiarsi, le spalle rivolte al porto. Il ponte era pieno di gente che tornava a casa dalle vacanze, e che cercava di dare un ultima occhiata all'isola che presto si sarebbe allontanata; quel vecchio no.

Curioso come tutti i ragazzini, specie quelli sfuggiti per un momento al controllo dei genitori, mi misi un po' a ascoltare quel che si dicevano. "Finalmente te l'hanno data", diceva uno di quelli in divisa; "ma quanto ci sei rimasto?" "Trentadue anni." "E dove vai ora?" "A Roma. Vado a Roma." Poi stette zitto. Ancora degli abbracci; poi gli uomini in divisa si allontanarono e scesero dalla nave. Erano guardie carcerarie; avendoci uno zio che faceva il medesimo lavoro, la conoscevo bene quell'uniforme. E quello era un ergastolano. "Te l'hanno data" voleva dire la grazia. Tornai dentro per raccontare la cosa a mio padre e a mia madre; ogni tanto tornavo fuori, sul ponte, e era sempre lì. Appoggiato, senza fare nulla, e con le spalle rivolte all'isola. Andava a Roma.

Mi è ritornata a mente qualche giorno fa, questa storia sepolta da qualche parte dentro me stesso. Curiosamente, dev'essere accaduta proprio trentadue anni fa; trentadue come gli anni che quell'uomo aveva passati in galera. A Portolongone. Mi è ritornata a mente perché ho avuto a che fare con una cosa scritta da non dirò chi, dove, proprio all'inizio, si nomina Portolongone, ed anche il fatto che, nell'immediato dopoguerra, al paese che così si chiamava fu cambiato il nome. Da Portolongone si chiamò Porto Azzurro, che è un nome cretino. Si disse che il vecchio nome suscitava associazioni sinistre, particolarmente per i turisti che cominciavano a affluire; ma la galera rimase. C'è ancora. Galere e isole. Isole e galere. Tutta una sequela di isole penitenziarie. Pianosa, Gorgona, Capraia, Asinara. Il più delle volte isole piccole, dove basta il nome a evocare la galera, e solo quella, e anche ora che in alcune l'hanno levata.

A Portolongone, perché gli elbani vecchi continuano ancora a chiamarlo così, il loro paese, non c'è verso di sfuggire. La galera è nel punto più alto del paese, su una collina che lo domina. Una fortezza spagnola del '600, la fortezza Alarcón, riadattata a ergastolo. Il paese è bellino, c'è il mercatino, ci sono i vicoletti pittoreschi, c'è la passeggiata a mare, c'è una spiaggetta, ci hanno fatto un paio d'anni fa la diretta delle "Velone" con Teo Mammucari. All'ombra della galera che sta lassù. All'ombra di chi ci sta dentro.

Mi ricordo di aver letto, anni fa, una riflessione di Adriano Sofri quando stava dentro in carcere a Pisa. Era una riflessione singolare: Sofri si era fatto una domanda semplicissima. "Sono a Pisa?", si era chiesto; da qui tutta una serie di considerazioni. Era in un luogo sistemato fisicamente dentro la città di Pisa, il carcere Don Bosco (e chissà come l'avrebbe presa quel sant'uomo, se avesse immaginato che il suo nome sarebbe stato utilizzato per una galera), quindi "era a Pisa"; ma, nel contempo, era in un mondo diverso, slegato dall'ubicazione. In un mondo a parte che è a Pisa, a Portolongone, a Viterbo, a Sollicciano, a Voghera e in non so quant'altri posti. Una rete di mondi a parte che dell'essere da qualche parte hanno solo l'apparenza, e che partecipano piuttosto del non essere. Luoghi dove si rinchiude, dove si elimina. Una rete che si vuole ampliata; "mancano posti in galera!". Se ne parla come fosse una mancanza, come quella di letti d'ospedale, come quella di posti di lavoro. Una struttura basilare che provoca appelli alla proliferazione, che fonda un'intera industria edilizia specializzata, che stabilisce un indotto.

Mi accingo a mandare in giro questa cosa per i miei soliti due o tre poveri canali telematici, un newsgroup, un paio di mailing list. Esponendola comunque ai possibili ed altrettanto soliti mentecatti, anonimi o meno, che magari avranno da dire la loro, che magari avranno da far professione di sublimi ironie, che magari avranno da spalmare a piene mani quel loro buon senso da formichine di questi anni di stronzio. La espongo agli occhi del demente che esulta perché hanno arrestato il "terrorista", ma fin qui non c'è nulla di strano, e nulla di cui preoccuparsi. Sono cose normali. A costoro non posso che riservare indifferenza, avendo esaurito anche il disprezzo. Ma la espongo anche ai dubbiosi, a quelli che condividono interamente a metà, a quelli che diranno che "purtroppo non c'è alternativa", a quelli che vorrei vedere che diresti se t'ammazzassero il babbo ti stuprassero la fidanzata ti inculassero il bambino ti rubassero la pensione ti rigassero la Grande Punto.

Perché, effettivamente, la galera è una struttura di base nella società che ha come dio intoccabile il lavoro. Lavoro e galera sono fratelli gemelli. In galera si "redime col lavoro" (ed è noto che "essere ammessi al lavoro" è un privilegio e finanche un premio), fuori invece si lavora con la galera. Non starò qui a fare la consueta pappardella linguistico-terminologica. Che nella parola "ergastolo" c'è la radice "erg-" del lavoro lo vede anche chi non sa l'etimologia. Essere contro la galera è come essere contro il lavoro: non si può. E' una cosa che qualifica automaticamente o come individuo pronto per la galera, o come individuo che c'è stato (o che c'è). Si attaccano i pilastri. Tutto questo mentre nella galera/lavoro ci viviamo quotidianamente, e tutti quanti. Nella galera di un sistema e dei suoi schemi che crediamo essere del tutto ineluttabili e "logici" (non sono una mente matematica, ma mi piacerebbe davvero sapere se qualche matematico ha mai parlato dell'illogica della logica; mi ricordo però a livello del tutto nozionistico di certo teorema di Burali-Forti, il cui enunciato dovrebbe essere: se è, non è; se non è, è).

Sfuggire alle galere dovrebbe essere un dovere. Evadere dovrebbe essere una condizione semplicemente naturale. Non porsi automaticamente, perché "buonsenso" vuole, dalla parte di chi bracca e rinchiude. Poi, magari, gli stessi che applaudono a sbirri, carcerieri e giudici (magari "resistenti") si sdiliquiscono col De André "poeta" che canta d'andare in direzione ostinata e contraria. Quando poi si trovano di fronte a qualcuno che ci va sul serio, invocano l'intervento dell'ordine costituito, e si ritrovano ad accompagnare Bocca di Rosa alla stazione, in alta uniforme.

Ripenso a quel vecchio sul traghetto. A salutarlo e ad abbracciarlo, a dirgli di scrivere, c'erano i suoi carcerieri. Tutto l'universo-galera. Ma alla galera lui voltava le spalle. Non salutava l'isola. Non le rivolgeva un ultimo sguardo. Guardava dall'altra parte. Andava a Roma. Ma Portolongone è dovunque. Portolongone è, sovente, dentro noi stessi; dovere evadervi. Sempre. Non è facile.

Dietro alle spalle, Portolongone. E, forse, anche un pescatore.