O meglio, è morta tanta gente. Il personaggio famoso e decine, centinaia di perfetti sconosciuti. Come si suol dire, ripòsino tutti in pace; oppure ripòsino come più loro aggrada. Libertà anche nell'eterna quiete.
Non conoscendo bene la situazione degli altri paesi, mi limito a detestare una delle caratteristiche che trovo più odiose del giornalismo nostrano: quella di autocelebrarsi. La detesto perché non ne esiste nessun motivo plausibile. Non è questione di scrivere più o meno bene; è questione di quel che si dice. E' questione di come si agisce.
In questo, Enzo Biagi è stato un giornalista di regime né più e né meno degli altri suoi colleghi. Sicuramente più dotato di altri, ma con la stessa propensione di tutto il giornalismo italiano ad avere comunque un padrone (spesso variabile, ma comunque un padrone), e con la stessa capacità di non dire assolutamente nulla dando l'impressione di dire tante cose. Oh, anche questa sarà un'arte; se la avessi avuta, magari avrei fatto il giornalista anch'io.
Al pari dei suoi colleghi, la carriera di Enzo Biagi si è svolta interamente all'interno della tv e della stampa di regime. Giocoforza hanno tutti quanti, fra di sé, una "grossa stima reciproca" al di là delle "posizioni" che propugnano: chi va col padrone di destra, chi va con la Confidustria, chi va con la "sinistra", chi va con Berlusconi e chi con gli Agnelli. Con qualche incidente di percorso, va da sé. Si fanno, a volte, la guerra in nome dei loro padroni. Il fascista fondatore del "Giornale", Montanelli, quello che invitava a votare DC turandosi il naso, alla fine della vita sterzava a "sinistra" per dissidi col vecchio padroncino.
Biagi, invece, comincia la carriera con un licenziamento dal "Resto del Carlino" di Bologna, accusato di essere un "comunista sovversivo" perché aveva firmato il manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica. Dopo varie vicissitudini, nel 1971 del "Resto del Carlino" diventa direttore. Il "comunista sovversivo", nel 1975, dà una grossa mano all'amico Montanelli nella fondazione del "Giornale". Insomma, una perfetta carriera.
Poi, al momento della loro umana dipartita, ecco i coccodrilli, ecco le lodi sperticate, ecco quel che facevano in gioventù. Chi era fascista e chi era partigiano. Chi andava volontario in Abissinia e chi in "Giustizia e Libertà". La gioventù avventurosa, o almeno una parte di essa, fa necessariamente parte dell'iconografia del giornalista di regime italiano. Non mi è mai riuscito capire come mai nessuno di questi grandi giornalisti sia morto in combattimento, in Abissinia o nella guerra partigiana. Tutti belli vivi.
Nei coccodrilli post-mortem, tutti sono "maestri" e tutti "coraggiosi". Sulla loro maestria nel destreggiarsi nell'informazione di regime, non c'è francamente nessun dubbio. A volte riescono perfino a trasformarsi in buffi martiri per essere rimasti cinque anni senza comparire in video grazie a una leticata con il politicante di turno; il quale politicante, va da sé, poi "chiede scusa" e oggi porta il suo bravo mattoncino ai cordogli nazionali.
Sul "coraggio" di costoro, invece ci avrei qualcosina da dire; ma si sa come va da queste parti. Il coraggio, in Italia, corrisponde sempre ad avere il giusto protettore facendo però credere di non averne nessuno, e di essere "indipendente". Mi si perdoni se, al posto del cordoglio, io ci ho una sghignazzata; è uno dei vantaggi dell'essere un signor nessuno, e me ne approfitto biecamente.
Così come la ho nel vedere tanti bravi amici, signori nessuno come me, accodarsi ai rimpianti, alle lodi, alle "grandi perdite" e a quant'altro. Avete perso, ladies and gentlemen, un pennaiolo che, certamente, la penna la sapeva usare con proprietà e bello stile. Mo' tenetevi i pennaioli analfabeti, ma la sostanza cambia poco o punto.
Non è morto proprio nessuno, oggi. E' morto, serenamente e munito di tutti i conforti, un vecchietto di ottantasett'anni; gli andrebbe tributato al massimo un buon viaggio. Ma non è morta l'informazione, quella vera; quella è già morta da un pezzetto, oppure se ne sta nascosta in luoghi che non avranno mai nessun cordoglio e nessun coccodrillo.
1 commento:
La memoria selettiva di Enzo Biagi
di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
(da Carmilla Online)
Nell'intervista concessa a Luciano Nigro in occasione dei
festeggiamenti per il suo ottantasettesimo compleanno nella natia
Pianaccio di Lizzano in Belvedere e pubblicata il 9 agosto scorso
sull¹edizione bolognese di Repubblica, Enzo Biagi racconta che
«Giorgio Pini, cognato di un mio zio che si chiamava come me, incontrò
Mussolini alla vigilia del gran consiglio che lo destituì», cioè poco
prima del 24 luglio 1943. Nigro chiosa: «Lei in quei giorni scelse i
partigiani». Biagi non fa una piega: «E mi trovai con gente
di ogni classe». Non è certo la prima volta che l'illustre giornalista
glissa sui particolari, e crediamo sia giusto informare i lettori che
non fu affatto «in quei giorni» che «scelse i partigiani», poiché qui
le date contano e l¹omissione non è innocente.
In virtù della parentela con il cugino Bruno Biagi potente ras
fascista, deputato dal ¹34, presidente della Commissione industria
della Camera dei fasci e dell¹Istituto nazionale fascista della
previdenza sociale, poi sottosegretario alle Corporazioni , Enzo
Marco (così firmava all'inizio i suoi articoli) scriveva già
diciassettenne sull "Avvenire d'Italia" e su L'Assalto, «organo della
federazione dei fasci di combattimento di Bologna», e in seguito su Il
Resto del Carlino, dove divenne professionista nel giugno del '42,
quotidiano che per razzismo e fanatismo non era da meno e che fu
diretto a partire dal 16 settembre del ì43 proprio da Giorgio Pini.
Partecipò anche a "Primato", la rivista di Giuseppe Bottai, il
ministro delle leggi razziali, che «ha sempre stimato» e nei confronti
del quale ha pubblicamente confessato il proprio «dovere di
gratitudine» (Enzo Biagi, Ma che tempi, Rizzoli, Milano 1998, p. 43),
una di quelle «camicie nere ma teste libere» di cui serba affascinato
ricordo (Id., Scusate, dimenticavo, BUR, Milano 1997, p. 12).
L'Assalto «giornale della federazione fascista, dove poi ognuno
scriveva quello che voleva» (Id., Ero partito da Bologna piangendo, in
Bologna incontri, XIII, 5, maggio 1982, p. 6) si distinse sin dal
luglio del ì38 per la violenza della campagna antisemita, condotta
settimanalmente sulla pelle degli ebrei bolognesi e non solo per
esempio invocò con urgenza profetica un'«opera di purificazione
indispensabile specialmente nelle maggiori città dell'Italia
settentrionale e centrale (Roma, dove ci sono ancora troppi ebrei,
compresa)» (23 agosto 1941) e dal giugno del ¹40 per il «tono
forsennatamente fascista e bellicoso» (Nazario Sauro Onofri, I
giornali bolognesi nel ventennio fascista, Moderna, Bologna
1972, p. 159). Sul periodico Biagi si occupava di critica
cinematografica e quando venne il suo turno di fornire un diretto
contributo al razzismo nazifascista elogiò "Süss, l'ebreo", film la
cui visione Himmler impose alla Wehrmacht e alle SS in partenza per le
campagne di sterminio in Europa Orientale: «un cinema di propaganda.
Ma una propaganda che non esclude l'arte che è posta al servizio
dell¹idea», scriveva in implicita polemica con il cinema italiano, che
non trovava altrettanto valido. E continuava:
Süss, l'ebreo «ricorda certe vecchie efficaci e morali produzioni
imperniate sul contrasto tra il buono e il cattivo [!], trascina il
pubblico all'entusiasmo», l'«ebreo Süss è posto a indicare una
mentalità, un sistema e una morale: va oltre il limite del
particolare, per assumere il valore di simbolo, per esprimere le
caratteristiche inconfutabili di una totalità. Poiché l'opera è umana
e razionale incontra l'approvazione: e raggiunge lo scopo: molta gente
apprende che cosa è l'ebraismo, e ne capisce i moventi
della battaglia che lo combatte» (4 ottobre 1941).
Dopo l'8 settembre, i giornali bolognesi passarono sotto il controllo
nazista e proseguirono la lotta, compresa quella di sterminio contro
le «caratteristiche inconfutabili di una totalità». Furono, quelli,
giorni e mesi decisivi, come sanno gli storici. Biagi rimase al
servizio della causa repubblichina fino alla tarda primavera del '44,
continuando a svolgere compiti redazionali e a compilare
le sue scialbe schedine cinematografiche, cellule staminali delle
opere a venire. L'ultimo articolo apparve il 17 giugno su "Settimana:
Illustrato" del «Resto del Carlino», insieme all'intervento, assai più
autorevole, di un suo giovane collega, Giovanni Spadolini, che
sfoderava una devastante critica del liberalismo, prima di inabissarsi
nel refettorio di qualche convento in attesa di risorgere après le
déluge liberaldemocratico in altra Repubblica.
La caduta di Roma e lo sbarco in Normandia avevano illuminato
definitivamente il futuro, e quando giunse, non più aggirabile, la
chiamata alle armi nell'esercito di Salò "Enzo Marco" preferì la
montagna, come altri giornalisti, «la categoria che, più di ogni
altra, era stata curata, selezionata, vezzeggiata dal regime, oltre
che strapagata». Tornò a Bologna dieci mesi dopo, con indosso una
divisa dell'esercito statunitense: sempre à la page, il Biagi. Se
riscattò con la sua tardiva conversione quegli «anni di servilismo e
di abiezione professionale e morale» (Onofri, op. cit., p. 264), non è
dato sapere con certezza. Forse. Ciò che invece è sicuro è che
fu complice attivo e non accidentale delle nefandezze del fascismo:
poteva scegliere e lo fece. Non era il solo? non è un alibi, come
ammonisce Hannah Arendt. Era giovane? Non abbastanza: aveva l'età di
Piero Gobetti quando fu bastonato a morte e delle decine di migliaia
di connazionali che il regime mandò a uccidere e morire mentre lui si
assicurava i dividendi di spettanza.
E se l'Asse avesse vinto la guerra, che gli sarebbe successo? Be',
questo è facile: Auschwitz o no, avrebbe percorso la sua brillante
carriera, come poi ha fatto. All'ombra del potere in fiore.
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