mercoledì 8 maggio 2013
La porta aperta sul cortile
Dicono che i sogni non
muoiono mai; sicuramente. Però, a volte, si ammalano; e anche di
malattie molto gravi. Ci son dei sogni che, un dato giorno o in una
data circostanza, cominciano a perdere colpi; dapprima un colpo di
tosse, poi altri acciacchi, e alla fine arriva la diagnosi. Magari
non muoiono perché se morisse anche il minimo sogno, morirebbe il
mondo; ma rimangono indietro, salutano dicendo d'andare avanti come
il fuggiasco che chiede ai compagni d'essere abbandonato al suo
destino affinché gli altri non siano catturati, arrivano a essere
semidimenticati. Pensate che stia facendo filosofia da tre soldi?
Pensateci bene, perché invece è la vita di tutti. Nessuno escluso.
In qualsiasi epoca, in qualsiasi parte del mondo, sotto qualsiasi
costellazione.
Bisognerebbe allora
essere capaci di vedere quali sogni si ammalano, quali vengono
lasciati indietro; ma non è qualcosa che può essere fatta
all'istante, sul momento. Occorre che passi almeno, diciamo, una metà
della vita e che tutto sia stato, se non chiarito, almeno spiegato
nelle sue linee principali. Occorre che il cammino non semplice della
vita abbia riservato una notevole dose di cadute e di sollevamenti,
di ricadute e di risollevamenti. Occorrerebbe, anche, una cosa
elementare e difficilissima al tempo stesso: non smettere di crederci
mai, nei sogni. Perseguirli. Qualsiasi nome e forma abbiano. I sogni
che si ammalano sono, in gran parte, contagiosi; alla fine infettano
gli altri sogni, i fuggiaschi che cercavano la libertà, e tutto si
tramuta in sconfitta, prigionia, morte.
Quali sono, dunque, i
sogni che soccombono alla malattia? Sono quelli che decidi tu. Sei
tu, caro il mio oneiropoietés, che decidi chi si debba fermare e chi
debba andare avanti; e, quasi sempre, i sogni che lasci indietro sono
quelli che non erano riusciti davvero a penetrare dentro te stesso,
che non avevano scavato la breccia, che non ottemperavano alla
condizione necessaria del vero sogno, vale a dire la perfetta,
meravigliosa, ferrea indifferenza alla loro realizzabilità. Chi
parla di “realizzare i sogni” non sa e non ha mai saputo,
probabilmente, che cosa sia veramente un sogno. Si sarà forse
risparmiato parecchie illusioni, alcune delle quali dolorose, ma si è
perso lo svegliarsi e veder entrare nella propria stanza, come diceva
Juan Rodolfo Wilcock, ogni mattina un mondo nuovo.
E' questo il motivo per
cui non mi piace né chi dice di non avere più sogni, né chi si è
ripiegato, accartocciato sui sogni morti di un passato più o meno
lontano. Per questo non mi piace né chi fa corrispondere i sogni a
quelli di una vita “normale”, alla tranquillità e alla
realizzazione borghese, alla propria piccola vita in cui altro non
resta che rimpiangere qualche passato, mitico o di verdura che sia,
oppure proiettarsi artificialmente in qualche luogo, o epoca, ideale.
Per questo non mi piace chi spende il proprio tempo a collezionare
declinazioni, proprie o altrui, di occasioni perse, senza rendersi
conto di stare sprecandolo inesorabilmente a perdere l'occasione di
mettersi a vivere. Qualsiasi cosa accada e dovunque ti trovi a
mettere i tuoi giorni in fila, uno dietro l'altro.
Io so, e lo dico senza
nessuna vuota presunzione, di risultare estraneo a molti. Non è
un'estraneità ricercata, o figlia di qualche vuoto snobismo. Non è
un'estraneità di modi di pensare, perché tutto sommato ho parecchie
cose e vedute in comune con altri, e la cosa mi dà tutt'altro che
fastidio. Non è un'estraneità derivata da invidie, da rimpianti o
da “fallimenti”; per quanto riguarda quest'ultimo termine, anzi,
mi sono sempre pregiato di lasciarlo nel suo esclusivo ambito
commerciale, dal quale un po' troppo spesso viene fatto uscire per
marchiare degli esseri umani, oppure per marchiarsi da soli
esercitando l'inutile arte di un confronto la cui applicazione è
comunque e sempre segnata dal mercantilismo. E non è neppure, in
ultimo, un'estraneità di cui mi beo, o nella quale mi crogiolo come
un maiale nel trogolo.
E' un'estraneità che
promana nel mio non cessare, mai, di sognare. Oltrepassando il finto
muro della realizzazione e trovando nel sogno sia la mia ricchezza
inesauribile, sia l'unico e autentico strumento per interpretare e
capire la realtà. La realtà interpretata attraverso la realtà è
una desolazione continua, e non credo che nulla possa nascere dalla
desolazione. E' un sognare che è molto, molto diverso dallo
“sperare”; mi rifiuto di paragonare il sogno al Superenalotto, o
a un padrone qualsiasi che ti offre una schiavitù sottopagata. E', infine, un'estraneità che promana dal
non sentirmi più ad un agio artificiale con persone incatenate ai
loro punti cardinali; non mi è estraneo soltanto chi ha sovvertito
le direzioni. Non mi è estraneo chi è diventato fiume passando per
siccità e alluvioni, per cascate e rapide, per tratti d'acqua
limpida ed altri d'acqua putrida e inquinata, per deserti e città
affollate, per foreste vergini e bidonvilles, sognando però sempre
d'essere il Rio delle Amazzoni prima d'arrivare all'oceano; mi è
estraneo chi, nella sua normalità e sicurezza, ha scelto d'essere un
Liri-Garigliano qualunque. E con questo procedo; scritto l'otto
maggio duemilatredici, con la porta aperta sul cortile.