venerdì 17 maggio 2013
Mio caro padrone
In questi ultimi tempi, le morti per lavoro si vanno prepotentemente diversificando in Italia. Certo, quelle preferite -vale a dire le morti bianche da un lato (non ho mai capito bene perché volare da un'impalcatura, essere schiacciato da una pressa o esser presi in pieno dalla Jolly Nero debba essere bianca, come morte, ma non importa) e i suicidi dall'altro- occupano sempre la pole position, anche perché permettono, sovente, di esercitare il consueto rituale fatto di "eroi", di applausi alle bare tricolorate, di lacrime in diretta e di storie commoventi; ma cominciano a succederne di discretamente differenti, ora.
Ora, dico che il terreno è, qui, per natura minato. Ieri mattina, ad esempio, il dipendente di una ditta di qualche infisso, o struttura, o supporto di nonsoccosa, a suo dire vessato dal padrone e da costui licenziato in tronco (che è un fatto), ha compiuto una diversificazione sulla quale c'è ben poco da scherzare o da tenere toni lievi. Alle sette di ieri mattina è entrato nel bar di un paese lombardo (di quelli in -ate ) dove sapeva che il padrone e suo figlio andavano sempre a fare colazione, e li ha abbattuti a revolverate.
Il ricorso alla famosa canzone di Paolo Pietrangeli può sembrare quasi banale, o d'obbligo; in realtà, la cosa non è tanto semplice e né tantomeno automatica. Il "padrone sparato" di Pietrangeli odora (o puzza) di Agnelli-Pirelli-Marzotto, sa di padronato altoborghese contrapposto alla classe operaia e, inoltre, gli "spari" proposti nella sarcastica canzone fanno un deciso rumore di tutta una serie di antiquate cose come la "rivoluzione", o l' "abbattimento del capitalismo". Gli spari di oggi, quello del paese lombardo, hanno colpito due immigrati calabresi con qualche sparuto dipendente, tirati da un immigrato foggiano. Non c'è niente, in essi, che possa essere riportato seppur lontanamente a una qualsiasi forma di coscienza di classe; per quel che mi risulta, sia le vittime che lo sparatore potevano benissimo aspirare -come decine di migliaia di lavoratori attuali- ad una vituccia "dignitosa" di stampo piccoloborghese, votare a destra, inveire contro gli "immigrati che rubano il lavoro" e cose del genere. E', quindi, una semplice, elementare storia di rabbia: prendendo per buono ciò che ha detto lo sparatore, si tratta di una persona maltrattata sul lavoro e poi licenziata che ha reagito in maniera violenta per qualcosa che le è capitato personalmente, direttamente.
Si potrebbe allora parlare delle forme che sta assumendo, e potrebbe ancora assumere, questa rabbia frammentata e, generalmente, priva di coscienza. Una forma assai diversa, ad esempio, la sta assumendo la lotta dei lavoratori della logistica (in buona parte, tra le altre cose, formata da manodopera immigrata); trovo strano che se ne parli così poco, anche considerata la capitale importanza del settore (vale a dire la movimentazione dei componenti e delle merci). Con l'episodio di oggi si può soltanto parlare di uno scricchiolio, dell'ennesima crepa nei meccanismi del pietismo e del "tragedismo".
Si può pensare, certo, a che cosa possa essere effettivamente successo perché una persona abbia covato talmente tanta rabbia verso chi gli dava lavoro, e talmente tanto rancore per i loro comportamenti, da fargli armare la mano e varcare la soglia di quel bar per uccidere. Non è, peraltro, la prima volta; qualcuno si ricorderà, ad esempio, del dirigenticidio di Massarosa del 23 luglio 2010. Si potrebbe parlare di che cosa, nell'economia "reale" delle piccole imprese, sia veramente il rapporto tra il "padrone" e il "dipendente"; in questo, l'episodio di oggi somiglia molto di più ad una strage familiare (e non solo perché sono stati coinvolti un padre e un figlio) che a un'azione rivolta contro dei "padroni". Resta soltanto il fatto che l'omicida e le sue vittime hanno trovato il loro destino a causa di un lavoro, di un reddito, e delle condizioni che si vengono a creare laddove vi sia un'impresa che assume dei salariati o dei collaboratori, seppur minuscola.
E, ancora una volta, appare sempre più sottile, o inventato, il confine tra l'autodistruzione che si vende bene, e la distruzione che crea paura. Tra l'autodistruzione che produce indifferente e falso pathos, e la distruzione cui si dedica l'Autorità. Tra le bare che escono dalla chiesa con quell'orrenda consuetudine degli applausi, e una persona che invece esce da una caserma dei carabinieri in manette e viene infilata a forza su una vettura che lo porterà a tutta una vita in galera. Tra la folla che grida "eroi!" a dei morti, e quella che invoca la morte per un vivo. Tutto questo, però, mi ricorda le immagini dell'Alluvione di Firenze, quando l'Arno, poco prima di straripare, premeva sulle spallette che cominciavano a far zampillare, ad una pressione inimmaginabile, acqua dai pertugi.