domenica 23 giugno 2013
Bella corsa
E' una di quelle cosa che
non ti puoi ricordare come t'è presa, e non dico a ventitré anni di
distanza; nemmeno ventitré minuti dopo me ne sarei ricordato. Una
cosa che si fa e basta; poi, magari, nel tempo che segue ci si fanno
sopra tutte le ipotesi possibili, quando accade di ripensarci. Una
volta si tira in ballo la suggestione del posto; un'altra una certa
propensione al gesto insolito; un'altra ancora il caldo tremendo che
dà alla testa. Tutte cose possibilissime, sicuramente. Il posto era
lo stadio di Delfi, in Grecia; era l'estate del '90. Ci capitai in
una giornata a dir poco infernale, una mattina di luglio che saranno
stati senz'altro più di quaranta gradi. Con una Ritmo scassata, con
la quale avevo attraversato tutta la Jugoslavia sbucando a Salonicco
dopo essermi fatta una precisa idea che in quei posti, a breve,
sarebbe successo qualcosa di brutto; non ci voleva purtroppo molto
per capirlo. Avevo ventisett'anni, e mi ricordo della brutta città
di Trebinje dalla quale, l'anno dopo, avrebbero preso Dubrovnik come
a sassate nel mare da una scogliera; solo che i sassi erano bombe.
Mentre ero fermo a un incrocio per domandare chissà cosa in chissà
quale lingua, venne incontro un soldato tanto giovane quanto
incredibilmente alto; veniva dalla lontana Vojvodina. Dette
l'indicazione e poi chiese se avevo qualche sigaretta; gli lasciai un
pacchetto intero di Marlboro jugoslave che avevo comprato a un
chiosco per la strada. Meglio non fumarle nemmeno, le Marlboro
jugoslave; da quel che capivo nelle scritte sul pacchetto erano
fabbricate su licenza con tabacco locale, e di Marlboro avevano solo
il nome e il pacchetto. Ne avevo presa in bocca una e mi aveva quasi
strangolato.
E ne avrei chissà quante
da dire su quel viaggio. Quando si lasciava la costa dalmata,
s'entrava in un altro mondo e non sono parole da “Lonely Planet”
o roba del genere. Siccome s'era deciso d'andare in Grecia via terra,
bisognava traversare tutto il Montenegro interno e il Kosovo: dopo un
po' di quelle strade, Dubrovnik sembrava davvero l'ultimo avamposto
della civiltà. Montagne spaventose, gole di cui non si vedeva il
fondo, e boschi impenetrabili; partiti da Dubrovnik in un'estate
rovente, s'era arrivati in cima a scollinare, dopo ore e ore di
macchina, in pieno inverno. Con una nebbia fitta, il riscaldamento
acceso e gli asciugamani da mare buttati addosso a fare da coperte.
Ad un certo punto, dalla nebbia, apparve un vecchio contadino con una
zappa sulla spalla, che saliva a piedi a passi lentissimi; anche lui
sarà stato alto, minimo, due metri. Lo avevo letto da qualche parte
che il popolo dalla statura più elevata in Europa non erano affatto
i norvegesi o gli svedesi, come si crede, ma i montenegrini. Passati
in Kosovo con un tempo di nuovo afoso, ma puzzolente e nuvoloso, era
cominciata la sfilata di strani fuochi accesi nei campi e di cani
morti, un po' dovunque; e di scritte sui muri che, traducendole alla
bell'e meglio, dicevano cose tipo: Vi vinceremo con il cazzo. La
Macedonia, poi, con la città di Titov Veles e le sue baracche di
legno con scritto “Advokat”; dovevano essere, credo, quelli che a
Napoli si chiamano “avvocaticchi”, quelli che patrocinavano in
cause da due soldi. Poi, al confine tra la Jugoslavia e la Grecia, a
Gevgelija, uno spettrale casinò. S'entrò in Grecia come uscendo da
un incubo; ma, a distanza di anni, è quell'incubo che ho ancora,
incancellabile, in testa. Assieme ai bambini di Priština attaccati
alla macchina a chiedere di tutto. Assieme alle fontanelle di Skopje
che buttavano rocchi d'acqua mai visti. Assieme a tutto un paese che
viveva le sue ultime ore, probabilmente sapendolo alla perfezione.
Quel che ho in testa è un mondo morto.
E così, l'Ellade. Con
tutti gli Erodoti, Ulissi, Platoni e Eschili che avevo in testa, mi
venne da chiamarla subito così; e, del resto, Ellade si dice anche
in greco, sebbene sia una parola ritirata fuori soltanto dopo
l'indipendenza del 1821, quando si trattò di dare un nome a quel
paese uscito fuori da secoli di turcocrazia. Ancora durante la
guerra, l'eroe Athanasios Diakos, prima di essere impalato e messo
allo spiedo da Omer Bryonis, per dirgli che era nato greco e sarebbe
morto greco aveva usato la parola “grekos”, e non “ellinas”
che ancora non esisteva; o meglio, esisteva ma significava qualcosa
come “gigante”, o “orco”. Gli “elleni” erano diventati
esseri della mitologia popolare, venuti da un passato lontanissimo.
Dopo qualche giorno tra Salonicco e la penisola Calcidica, quella
dalle tre “dita”, si capitò a Delfi. Era la fine di luglio, e
dopo la parentesi invernale in Montenegro l'estate era tornata a
picchiare sodo. Ero magro. Per quell'estate mi ero anche tagliato la
barba e portavo un paio di occhiali scuri con le lenti graduate. Se
ci ripenso, mi rivedo straordinariamente brutto; non che sia mai
stato una gran bellezza, ma l'apice dello schifo dev'essere stato
proprio in quel periodo.
La Grecia era un
bombardamento; era la prima volta che ci mettevo piede, e tutte le
scemenze classiche di licei, letture, esametri e filosofie mi avevano
ben presto sopraffatto anche mentre ero a sciagattarmelo in un mare
spettacolare. Si dormiva in camere ammobiliate che non costavano
nulla, come in Jugoslavia; il greco moderno lo parlottavo a cazzo di
cane, perché quando si mette piede in un paese dopo anni di
libriccini con le frasi da tradurre, ci si accorge subito della
differenza che passa tra una lingua e il suo simulacro descritto
nelle grammatiche dei professori. Si rivalutano addirittura i
manualetti di conversazione con le frasi fatte, che ti tirano fuori
dai guai: tipo “èchete domatia?”, avete stanze? Oppure “pòsso
kostìsi?”, quanto costa? S'impara alla svelta, quando si fora, che
in Grecia il gommaio si chiama “vulkanizèr”, e anche che il
Parnaso non è letteratura, in quel momento, ma un'orrenda serie di
tornanti pericolosissimi. Per non parlare dei camionisti greci,
criminali a piede libero; o del canale di Corinto che uno pensa a
Corinto e s'immagina chissà cosa, e si ritrova davanti un taglio
pieno d'acqua di mare in mezzo a una zona industriale brutta anche
per lo standard delle zone industriali. E sono cose che fanno bene, o
perlomeno ne fecero parecchio a me. M'andò via dal capo, e di
brutto, tutta la melma che ci avevo dentro. Scomparvero le aurore
dalla rosee dita e le coronate di viole, divine e dolceridenti Saffo;
e mi apparve un paese chiamato Grecia. Con la sua gente che a volte
diceva parole sperse nella notte dei tempi, come “logos”, e a
volte usava parole italiane, slave e turche. Mi apparve il cameriere
che faceva battute da caserma portandomi in tavola una specie di
pupazzetto col cazzo ritto. Mi apparve la casa di Leonard Cohen,
vuota, a Idra, mentre un asino se ne stava là placido a non far
niente sotto il sole; il tutto mentre vivevo, da giorni e giorni,
un'ora indietro. Mi ero scordato del fuso orario e non avevo rimesso
l'orologio; me ne accorsi dopo due settimane perdendo un traghetto.
Non posso quindi dire con esattezza che ora fosse a Delfi, le
undici, mezzogiorno o chissà.
Prima, però, c'era stata
un'incursione dell'Ellade. A Micene, segnalata da vecchi cartelli
scrostati in greco antico, “Mykenai”. Passando sotto la Porta dei
Leoni, che in quel caso non si usa affatto il termine comune per
“porta” (che è “porta”, come in italiano), ma l'antico
“pyle”. C'era una marea di turisti e si sentiva parlare solo
italiano e tedesco; eppure, passando sotto quella porta e entrando
dentro nel sito archeologico dopo avere attraversato il solito paese
sgarrupato e polveroso, qualcosa la sentii. Si manifestò poco dopo
dentro la tomba di Agamennone, dove cominciai a sentire dei rimbombi
che non mi spiegavo e che, in seguito, mi sono rifiutato di spiegare
lasciandoli così come sono, nella mia memoria. Ci sono dei posti che
fanno di queste cose, e uscii fuori di lì tenendomi rigorosamente
per me tutta una pappardella sulla Lineare B che avevo in mente di
infliggere a chi stava con me; bisognerebbe bruciare tutti i licei
classici, e maledetto quel venti di settembre del '77 quando ci misi
piede, in quella fogna di scuola. Micene, però. Micene dove il passato remoto mi aveva emesso i suoi suoni, anche se magari era un bambino di Abbiategrasso che pestava i piedi perché voleva il gelato, facendo eco in quel posto dove Agamennone erano le pietre e la terra che s'innalzavano nella penombra rarefatta. Al ritorno,
provai per il paese sgangherato e polveroso un moto di istintiva
simpatia; dovevano mangiarsi la loro polvere e i loro souvlakia, e
lavorare, e vivere, e finire in galera sotto i Colonnelli, e mandare
i loro figli soldati, e far fronte alle cannelle secche dell'acqua,
con alle spalle la porta dei Leoni e la tomba di Agamennone che,
ovviamente, utilizzavano per vendere paccottiglia ai turisti.
Prima d'arrivare a Delfi,
ché comunque bisognava pagarlo sempre e comunque il tributo
all'antichità classica, s'era fatto un salto nei Balcani. Si passò
da un paese a poca distanza, Arachova, che ha un nome slavo; segno
che, in mezzo agli oracoli e ai teatri, dovevano esser passate genti
parecchio variopinte nei secoli. Come variopinti erano i tappeti che
vi si facevano, tappeti e panni, non so dire se arazzi o chissà
cosa. Stupendi e cari assaettati, specie per chi viaggiava coi soldi
contati. Il paese era una distesa disordinata di case moderne
addossate a una montagna, e mi venne fatto di paragonarlo a città
come Potenza o roba del genere; si bolliva dal caldo. S'arrivò,
finalmente, a Delfi. Lo Stadio era pieno di gente, anche quello;
c'era, da qualche parte, un museo chiuso e menomale, perché ho
sempre cordialmente detestato i musei tranne quello di Van Gogh a
Amsterdam, dove dovettero tirarmici fuori di peso o quasi, e quello
di Marc Chagall a Nizza. Al colmo del ridicolo, avevo una canottiera
e un paio di pantaloni corti che avrebbero potuto benissimo essere
definiti “ascellari”, come quelli di Fantozzi. Ma avevo
ventisett'anni, porca dell'eva troia. Bisogna tenere conto di questo,
e cerco di farlo in questa serata di prima estate, a quasi
cinquant'anni, da solo qua dentro mentre gira il ventilatore. La mia
parte di mondo e quella corsa.
Successe così,
all'improvviso, senza un pensiero. La persona che era con me era
voltata da un'altra parte dentro lo Stadio, e mi chiedo ancora oggi a
che cosa pensasse, che cosa vedesse. Famiglie intere di tedeschi e
olandesi, borracce, panini smangiucchiati, il venditore di souvenir.
Forse qualcuno stava sugli spalti, nonostante ci fosse da ustionarsi
a mettersi a sedere sui gradini. Mi levai ogni cosa di dosso. Gnudo.
Così, senza pensare a niente; e mi misi a correre, correre, correre
senza sentire più nulla.
Ripensandoci, ritengo
altamente improbabile che, in un millesimo di secondo, mi sia fatto
tutto il ragionamento classicista sulle Olimpiadi, e sul fatto che i
corridori erano rigorosamente ignudi; non mi sarà venuto certamente
in testa che la stessa parola “ginnastica” significa “esercizio
che si fa nudi”. Nudo con le scarpe da ginnastica, giustappunto, e
senza calzini; dovevano puzzarmi i piedi da fare ribrezzo. E
cominciai a correre immaginandomi boati, che magari erano quelli di
tedeschi che sghignazzavano o di italiani che coprivano gli occhi ai
bambini. Presi un via di quelli che non m'era mai successo prima, né
mai m'è risuccesso dopo. Correvo e basta. Non sentivo più nemmeno
il caldo. Sudavo e mi sembrava d'aver fresco addosso, il fresco del
vento; mi feci tutto il giro dello stadio, in un tempo sospeso.
Ultimato il giro, farfugliai qualcosa tipo “scusa, m'è venuto di
farlo”; sentii un “capisco, tranquillo, capisco”. Mi rivestii
mentre due o tre persone, non so se a presa di culo o cosa, mi
facevano un applauso. M'ero fatto la prima e ultima Olimpiade, mia e
basta, irripetibile e con delle scarpe fetide.
M'è capitato, sì, di
raccontarlo a qualcuno negli anni che son venuti e passati. Ogni vita
ha i suoi episodi, e in gran parte sono formati da stupidaggini cui,
venuta l'età, si attribuisce chissà quale valore, o particolarità;
e il confine tra le seghe mentali in cui ci si dibatte per tutta
un'esistenza senza costrutto e la Ricerca del tempo perduto
di Proust, sono molto labili. Gira il ventilatore, e rigira nella sua
meccanica che non comprendo minimamente nonostante, per molti, sia
semplicissima; ma mi basta che giri e agiti l'aria caliginosa. Al
termine della corsa allo stadio di Delfi, andai verso il venditore di
souvenir e comprai una cartolina illustrata; la spedii, unica della
mia vita, a me stesso. A Riccardo Venturi, via Federigo Tozzi 3,
50135 Firenze. Ci scrissi soltanto, a me stesso: Bella corsa. Mi
sembrava d'aver fatto chissà cosa. Arrivai a raccontare che il giro
dello stadio erano quattrocento, poi addirittura ottocento metri;
raccontandolo più spesso, un giorno o l'altro avrei detto che avevo
corso per tre chilometri. Da qualche parte, poi, ho letto che il giro
dello stadio di Delfi misura, in tutto, centosessanta metri. Bella
corsa lo stesso, Riccardo d'un passato che s'allontana, di quando
dentro a quel giro c'era ogni cosa che sarebbe stata senza, col vento
in faccia, saperlo.