La città di Bonifacio, nell'estremo
sud della Corsica (la Sardegna dista soltanto 12 miglia, con lo
stretto detto, appunto, Bocche di Bonifacio), ha
una storia millenaria. Sembra che il luogo dove sorge, un porto e una
rocca naturali e pressoché inespugnabili, fossero abitati già 6500
anni fa; ma il nome di “Bonifacio”, secondo la tradizione, è
dovuto a a Bonifacio II di Toscana, marchese di Lucca, che nell'anno
833 vi fondò un villaggio a difesa dalle incursioni dei Saraceni.
Fatto sta che i primitivi abitanti di Bonifacio furono toscani:
coloni lucchesi e pisani, che vi portarono, presumibilmente, il loro
antichissimo dialetto toscano. Per due secoli, come altre parti della
Corsica, Bonifacio appartenne alla Repubblica di Pisa; fino al 1490,
quando la città passò sotto il controllo della Repubblica di
Genova (una leggenda narra che i genovesi entrarono in città
approfittando di un matrimonio e del fatto che i bonifacini erano tutti briachi). Fatto sta che, con la conquista genovese, tutti gli
abitanti di origine toscana furono espulsi e dovettero, dopo secoli,
rifare il viaggio verso le terre dei loro avi destinando così alla
scomparsa quello che doveva essere il più antico dialetto toscano
mai esistito. Il quale fu sostituito da un parlare ligure della
Riviera di Ponente, dato che i nuovi coloni provenivano in massima
parte dalle coste tra Savona e Taggia; un dialetto ligure,
ovviamente, del XV secolo. Il quale, totalmente isolato dalla
Liguria, si è mantenuto praticamente tale e quale fino ad oggi,
parlato ancora da un centinaio di bonifacini e, probabilmente,
compreso da una metà della popolazione della bellissima cittadina.
Bonifacio, con tutta la Corsica, passò alla Francia nel 1768; e, da
allora, a Bonifacio la situazione linguistica divenne realmente
variopinta. Tutta la popolazione parlava il bonifassin,
ma nel contado si parlava già il còrso meridionale che, come è
ovvio, riempiva il dialetto ligure di prestiti. La lingua ufficiale
dello stato era però il francese, e nel bonifacino comparvero ben
presto anche parole francesi. Oggi, come detto, solo una
ristrettissima minoranza dei bonifacini, forse un centinaio di
persone, è ancora capace di parlarlo speditamente; altre poche
centinaia, sui 2700 circa abitanti, lo capiscono più o meno; ma a
Bonifacio si parla còrso e, più che altro, francese. Ma il
bonifacino non è ancora morto.
|
Bonifacio. |
Questo per quanto riguarda, in sintesi,
la storia di Bonifacio e dei suoi linguaggi. Però, ora, si va a
raccontare un'altra storia, avvenuta nei primi mesi di centodue anni
fa, tra il gennaio e il marzo del 1911. E non è una storia molto
comune.
All'inizio del XX secolo, tale André
Serra, detto U sciü Andrià (“il sor
Andrea”), un bonifacino di qualche cultura e autore di parecchie
opere tra cui una “Storia di Bonifacio”, dopo essere stato -a suo
dire- ufficiale della Guardia Papale in Vaticano si ritirò nella sua
città natale. Nella sua proprietà, detta “La Pomposa”, creò
anche un museo paleontologico; era nato il 13 agosto 1849 e di lui si
sapeva, in realtà, che aveva fatto una certa carriera come
funzionario della Compagnia Ferroviaria Parigi-Lione-Marsiglia, dalla
quale fu messo in pensione come Funzionario Scelto di 4a Classe. Come
un impiegato delle ferrovie fosse potuto diventare Guardia Papale,
rimane un mistero; fatto sta che André Serra, ritiratosi in
pensione, iniziò a scrivere come un forsennato. Terminata che fu la
sua “Storia di Bonifacio”, della quale si parlerà meglio dopo,
si diede da fare per pubblicarla; ma non aveva il denaro sufficiente
per farla stampare da un editore. Fece il giro dei suoi amici e
conoscenti “nelle diverse classi della società bonifacina”,
chiedendo contributi per la pubblicazione della sua opera; ma tutto
quel che ricevette furono dei...consigli. A piene mani, ma senza il
becco di un quattrino. Si sfogò il buon sor Serra, in francese: "Ces gens de bon sens,
d'esprit, d'honneur (...) M'ont dit qu'il n'y a point de plaisir que
l'on ne fasse plus volontiers à un homme que celui de lui donner...
un conseil ! Et des conseils, Dieu sait si j'en ai reçu !"
Ma
era un tipo ostinato, e riuscì comunque a pubblicare la sua opera.
Nella prefazione, si rivolse così ai suoi lettori: “Credo che non
rimpiangerete i cinquanta soldi che questo librò vi è costato; ma
quando lo avrete letto, se riterrete che stoni nella vostra
biblioteca, potrete sempre andare a venderlo a Parigi sui
Lungosenna...” Della “Storia di Bonifacio” non rimangono oggi
che poche copie; è un libro raro. L'autore vi compie un autentico
miscuglio, un'accozzaglia di dati provenienti a volte da fonti
storiche, ma più spesso da storie e leggende, mettendo in mezzo
Bonifacio, Roma antica, i papi, la guerra di Troia, tirate filosofiche sulla vita e sulla
morte, e, dulcis in fundo, la pietrificazione. André Serra scrisse
molte altre opere introvabili, di cui però possediamo i titoli:
”Dizionario medico-scientifico”, “Gli addii” (poesie), “Gli
Inferi” (poesie), “Filosofia: fondamento dell'anima”, “Le ore
della vita”; “Raccolta poetica”; “Il bimbo sventurato”
(dramma in tre atti e tre quadri), “Lettera ai morti”, “Corso
di mitologia, filosofia, fisica e pietrificazione”.
La
pietricazione era il cavallo di battaglia di André Serra; verso il
1908, sotto la Loggia di Bonifacio, si era messo a tenere conferenze
sul seguente tema: ”La trasformazione in pietra dei resti
di vegetali e animali”; il 13 giugno 1909, davanti a un
uditorio esterrefatto, aveva tenuto una concione (in francese) sulla Pietrificazione
umana;
se ne possiede ancora il testo integrale. Al tempo stesso, però,
André Serra coltivava profondi ideali di giustizia ed uguaglianza e si dava da fare
anche per difendere gli interessi dei lavoratori; fu così che, il 21
agosto 1910, a tale personaggio si deve la fondazione del primo
sindacato di Bonifacio e dell'intera Corsica meridionale: il Syndicat Mutualiste d'Ouvriers de Bonifacio. Il
sindacato fu costituito assieme al fabbro Joseph Lombardo e al
muratore Constantin Milano.
Ben
presto, il “Sindacato Mutualista degli Operai di Bonifacio”
riscosse un notevole successo tra i lavoratori della cittadina; le
riunioni si tenevano in casa di André Serra, in rue du
Corps-de-Garde. Furono organizzate parecchie manifestazioni, durante
le quali gli operai sfilavano in città preceduti dalla bandiera
rossa. Oggi, di quel sindacato non resta che un timbro con il motto
“Tutti per uno” sormontato da due mani che si stringono; e una
canzone, intitolata A greva di i pialinchi,
da cantarsi sull'aria
del “Régiment de Sambre et Meuse”.
|
La fontana di Longone. |
Nei
primi mesi del 1911, 425 lavoratori agricoli e braccianti del contado
di Bonifacio, stanchi dei salari da fame si erano riuniti, organizzati
proprio dal Sindacato di André Serra, ed erano scesi in sciopero
(termine per il quale il dialetto bonifacino usa la parola francese, greva). Ben presto erano stati raggiunti
nell'agitazione dagli operai della locale fabbrica di tappi; il 28
febbraio 1911, un'autentica folla per le dimensioni di Bonifacio si
radunò quindi vicino alla fontana di Longone (Lungùn), un nome che
aveva provocato parecchie e fantasiose ipotesi etimologiche ma che,
al sottoscritto, suona assai familiare: all'isola d'Elba, infatti, il
vero nome di quella che oggi è Porto Azzurro, era Portolongone. Non è improbabile che, tra gli antichi toscani di Bonifacio, ci
fosse pure qualche elbano; e si sa da documenti antichi che nel nome originale il "porto" non c'era: si chiamava "Longone", o "Lungone" e basta. Tra la Corsica e l'Elba i nomi sono sempre stati gli stessi; così ci sono, ad esempio", sia "Galenzana" che "Pomonte" in tutte e due le isole. Insomma, perlomeno mi piace pensare una cosa del genere.
I lavoratori in sciopero si presentarono,
secondo le testimonianze rigorosamente in bonifassin, ”cu asi, pulitrücci e asinini, carghi di ferri da
travaggià, di bariloti e di catini”; insomma erano arrivati direttamente dai campi con gli asini carichi e gli attrezzi da lavoro, “Con asini, asine e asinelli, carichi di attrezzi da lavoro, di barilotti e cesti da soma”.
Erano i pialinchi, ovvero i braccianti, i lavoratori agricoli (da piale, vale a dire la piccola parcella di terra lavorata). E non scherzavano per niente:
prese la parola un rappresentante, dichiarando quanto segue: ”I
poveri ne hanno abbastanza di essere schiavi di tutta questa banda di
ricconi (…) Non vogliamo più mangiare acciughe, vogliamo carne e
maccheroni, e vogliamo bere buon vino e non l'acqua della fontana di
Longone!” Continuò un altro: ”I sindacati
sono stati formati per difendere le nostre rivendicazioni, e se il
salario delle giornate di lavoro non aumenterà, noi non pagheremo
più le tasse e i contributi!”. Chiedevano un aumento di
cinquanta “patacconi” a giornata, vale a dire circa tre franchi;
quel che ottennero furono dieci patacconi in più. Si rimisero al
lavoro, dopo quello sciopero di zappatori e di fabbricatori di tappi
per le bottiglie di vino che non potevano bere. Sembra che dopo la
prova di forza, il Sindacato di André Serra continuò ancora per un
certo tempo a far sentire la propria voce; quanto a lui, U
sciü Andrià, qualcuno gli andò a dire che, pur sempre,
aveva una tenuta agricola ed era pure lui un padrone. Rispose, unico
fra tutti, aumentando il salario dei suoi lavoratori ai cinquanta
“patacconi” a giornata richiesti.
A lungo mantenne il fantasioso “museo paleontologico” nella sua tenuta della Pomposa;
era un piccolo edificio con il tetto a punta che fu gravemente
danneggiato durante la II guerra mondiale. La cosa stupefacente erano
i “reperti” che vi erano ospitati: sassi. Di tutte le dimensioni.
Dai ciottoli ai pietroni, etichettati a formare una “storia della
pietrificazione” di Bonifacio e dintorni: così i sassi più
piccoli erano “foglie e insetti pietrificati”, mentre quelli più
grossi potevano nascondere qualche antenato trasformato in pietra,
magari il bisnonno Giuseppe o la trisavola Franca Maria. Agli
ingressi, si trovavano delle colonnine sormontate da grosse pietre di
forma fallica, che rappresentavano, naturalmente, la “madre Terra”!
La canzone sullo sciopero dei
braccianti di Bonifacio del 1911 fu scritta da tale Léon Camugli,
sul quale non sono riuscito a trovare notizie più precise; e me ne
dispiace. Era, con tutta probabilità, un membro del sindacato di
André Serra che aveva preso direttamente parte allo sciopero. Si dice tuttora che sia la canzone più famosa in
dialetto ligure bonifacino.
Erano un bel po' di braccianti
che potevano formare un battaglione,
ce n'erano quattrocentoventicinque
davanti alla fontana di Longone,
con asini, asine e asinelli,
carichi di attrezzi da lavoro,
di barilotti e di cesti da soma
e si misero tutti a cantare:
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Dato che ora tutto aumenta,
persino il pane e il sapone,
e che non si può più mangiare pesci
e che il vino costa dieci patacconi,
non se ne può più di mangiare sempre acciughe,
vogliamo carne e maccheroni
e bere un gotto di vino o due
invece dell'acqua di Longone
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Il ricco non si sporca mai di fango,
ma quando piove e quando fanno i tuoni
noialtri poveri disgraziati
ci rintaniamo dentro la baracca;
vogliamo un bel fascio di legna
da mettere dentro il caminetto,
ora che viene l'inverno
bisogna riscaldarsi un pochettino.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Non si può avere un poco d'olio,
ci vendono quello di cotone
e invece delle scarpe da signori
ci danno le scarpe di cartone;
i sindacati sono stati formati
per far valere le nostre ragioni,
se non ci aumentano il salario giornaliero
non pagheremo più contributi.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.