martedì 25 giugno 2013

U sciü Andrià, la pietrificazione e lo sciopero dei braccianti

La città di Bonifacio, nell'estremo sud della Corsica (la Sardegna dista soltanto 12 miglia, con lo stretto detto, appunto, Bocche di Bonifacio), ha una storia millenaria. Sembra che il luogo dove sorge, un porto e una rocca naturali e pressoché inespugnabili, fossero abitati già 6500 anni fa; ma il nome di “Bonifacio”, secondo la tradizione, è dovuto a a Bonifacio II di Toscana, marchese di Lucca, che nell'anno 833 vi fondò un villaggio a difesa dalle incursioni dei Saraceni. Fatto sta che i primitivi abitanti di Bonifacio furono toscani: coloni lucchesi e pisani, che vi portarono, presumibilmente, il loro antichissimo dialetto toscano. Per due secoli, come altre parti della Corsica, Bonifacio appartenne alla Repubblica di Pisa; fino al 1490, quando la città passò sotto il controllo della Repubblica di Genova (una leggenda narra che i genovesi entrarono in città approfittando di un matrimonio e del fatto che i bonifacini erano tutti briachi). Fatto sta che, con la conquista genovese, tutti gli abitanti di origine toscana furono espulsi e dovettero, dopo secoli, rifare il viaggio verso le terre dei loro avi destinando così alla scomparsa quello che doveva essere il più antico dialetto toscano mai esistito. Il quale fu sostituito da un parlare ligure della Riviera di Ponente, dato che i nuovi coloni provenivano in massima parte dalle coste tra Savona e Taggia; un dialetto ligure, ovviamente, del XV secolo. Il quale, totalmente isolato dalla Liguria, si è mantenuto praticamente tale e quale fino ad oggi, parlato ancora da un centinaio di bonifacini e, probabilmente, compreso da una metà della popolazione della bellissima cittadina. Bonifacio, con tutta la Corsica, passò alla Francia nel 1768; e, da allora, a Bonifacio la situazione linguistica divenne realmente variopinta. Tutta la popolazione parlava il bonifassin, ma nel contado si parlava già il còrso meridionale che, come è ovvio, riempiva il dialetto ligure di prestiti. La lingua ufficiale dello stato era però il francese, e nel bonifacino comparvero ben presto anche parole francesi. Oggi, come detto, solo una ristrettissima minoranza dei bonifacini, forse un centinaio di persone, è ancora capace di parlarlo speditamente; altre poche centinaia, sui 2700 circa abitanti, lo capiscono più o meno; ma a Bonifacio si parla còrso e, più che altro, francese. Ma il bonifacino non è ancora morto.

Bonifacio.
Questo per quanto riguarda, in sintesi, la storia di Bonifacio e dei suoi linguaggi. Però, ora, si va a raccontare un'altra storia, avvenuta nei primi mesi di centodue anni fa, tra il gennaio e il marzo del 1911. E non è una storia molto comune.

All'inizio del XX secolo, tale André Serra, detto U sciü Andrià (“il sor Andrea”), un bonifacino di qualche cultura e autore di parecchie opere tra cui una “Storia di Bonifacio”, dopo essere stato -a suo dire- ufficiale della Guardia Papale in Vaticano si ritirò nella sua città natale. Nella sua proprietà, detta “La Pomposa”, creò anche un museo paleontologico; era nato il 13 agosto 1849 e di lui si sapeva, in realtà, che aveva fatto una certa carriera come funzionario della Compagnia Ferroviaria Parigi-Lione-Marsiglia, dalla quale fu messo in pensione come Funzionario Scelto di 4a Classe. Come un impiegato delle ferrovie fosse potuto diventare Guardia Papale, rimane un mistero; fatto sta che André Serra, ritiratosi in pensione, iniziò a scrivere come un forsennato. Terminata che fu la sua “Storia di Bonifacio”, della quale si parlerà meglio dopo, si diede da fare per pubblicarla; ma non aveva il denaro sufficiente per farla stampare da un editore. Fece il giro dei suoi amici e conoscenti “nelle diverse classi della società bonifacina”, chiedendo contributi per la pubblicazione della sua opera; ma tutto quel che ricevette furono dei...consigli. A piene mani, ma senza il becco di un quattrino. Si sfogò il buon sor Serra, in francese: "Ces gens de bon sens, d'esprit, d'honneur (...) M'ont dit qu'il n'y a point de plaisir que l'on ne fasse plus volontiers à un homme que celui de lui donner... un conseil ! Et des conseils, Dieu sait si j'en ai reçu !"

Ma era un tipo ostinato, e riuscì comunque a pubblicare la sua opera. Nella prefazione, si rivolse così ai suoi lettori: “Credo che non rimpiangerete i cinquanta soldi che questo librò vi è costato; ma quando lo avrete letto, se riterrete che stoni nella vostra biblioteca, potrete sempre andare a venderlo a Parigi sui Lungosenna...” Della “Storia di Bonifacio” non rimangono oggi che poche copie; è un libro raro. L'autore vi compie un autentico miscuglio, un'accozzaglia di dati provenienti a volte da fonti storiche, ma più spesso da storie e leggende, mettendo in mezzo Bonifacio, Roma antica, i papi, la guerra di Troia, tirate filosofiche sulla vita e sulla morte, e, dulcis in fundo, la pietrificazione. André Serra scrisse molte altre opere introvabili, di cui però possediamo i titoli: ”Dizionario medico-scientifico”, “Gli addii” (poesie), “Gli Inferi” (poesie), “Filosofia: fondamento dell'anima”, “Le ore della vita”; “Raccolta poetica”; “Il bimbo sventurato” (dramma in tre atti e tre quadri), “Lettera ai morti”, “Corso di mitologia, filosofia, fisica e pietrificazione”.

La pietricazione era il cavallo di battaglia di André Serra; verso il 1908, sotto la Loggia di Bonifacio, si era messo a tenere conferenze sul seguente tema: ”La trasformazione in pietra dei resti di vegetali e animali”; il 13 giugno 1909, davanti a un uditorio esterrefatto, aveva tenuto una concione (in francese) sulla Pietrificazione umana; se ne possiede ancora il testo integrale. Al tempo stesso, però, André Serra coltivava profondi ideali di giustizia ed uguaglianza e si dava da fare anche per difendere gli interessi dei lavoratori; fu così che, il 21 agosto 1910, a tale personaggio si deve la fondazione del primo sindacato di Bonifacio e dell'intera Corsica meridionale: il Syndicat Mutualiste d'Ouvriers de Bonifacio. Il sindacato fu costituito assieme al fabbro Joseph Lombardo e al muratore Constantin Milano.

Ben presto, il “Sindacato Mutualista degli Operai di Bonifacio” riscosse un notevole successo tra i lavoratori della cittadina; le riunioni si tenevano in casa di André Serra, in rue du Corps-de-Garde. Furono organizzate parecchie manifestazioni, durante le quali gli operai sfilavano in città preceduti dalla bandiera rossa. Oggi, di quel sindacato non resta che un timbro con il motto “Tutti per uno” sormontato da due mani che si stringono; e una canzone, intitolata A greva di i pialinchi, da cantarsi sull'aria del “Régiment de Sambre et Meuse”.

La fontana di Longone.
Nei primi mesi del 1911, 425 lavoratori agricoli e braccianti del contado di Bonifacio, stanchi dei salari da fame si erano riuniti, organizzati proprio dal Sindacato di André Serra, ed erano scesi in sciopero (termine per il quale il dialetto bonifacino usa la parola francese, greva). Ben presto erano stati raggiunti nell'agitazione dagli operai della locale fabbrica di tappi; il 28 febbraio 1911, un'autentica folla per le dimensioni di Bonifacio si radunò quindi vicino alla fontana di Longone (Lungùn), un nome che aveva provocato parecchie e fantasiose ipotesi etimologiche ma che, al sottoscritto, suona assai familiare: all'isola d'Elba, infatti, il vero nome di quella che oggi è Porto Azzurro, era Portolongone. Non è improbabile che, tra gli antichi toscani di Bonifacio, ci fosse pure qualche elbano; e si sa da documenti antichi che nel nome originale il "porto" non c'era: si chiamava "Longone", o "Lungone" e basta. Tra la Corsica e l'Elba i nomi sono sempre stati gli stessi; così ci sono, ad esempio", sia "Galenzana" che "Pomonte" in tutte e due le isole. Insomma, perlomeno mi piace pensare una cosa del genere.  

I lavoratori in sciopero si presentarono, secondo le testimonianze rigorosamente in bonifassin, ”cu asi, pulitrücci e asinini, carghi di ferri da travaggià, di bariloti e di catini”; insomma erano arrivati direttamente dai campi con gli asini carichi e gli attrezzi da lavoro, “Con asini, asine e asinelli, carichi di attrezzi da lavoro, di barilotti e cesti da soma”.

Erano i pialinchi, ovvero i braccianti, i lavoratori agricoli (da piale, vale a dire la piccola parcella di terra lavorata). E non scherzavano per niente: prese la parola un rappresentante, dichiarando quanto segue: ”I poveri ne hanno abbastanza di essere schiavi di tutta questa banda di ricconi (…) Non vogliamo più mangiare acciughe, vogliamo carne e maccheroni, e vogliamo bere buon vino e non l'acqua della fontana di Longone!” Continuò un altro: ”I sindacati sono stati formati per difendere le nostre rivendicazioni, e se il salario delle giornate di lavoro non aumenterà, noi non pagheremo più le tasse e i contributi!”. Chiedevano un aumento di cinquanta “patacconi” a giornata, vale a dire circa tre franchi; quel che ottennero furono dieci patacconi in più. Si rimisero al lavoro, dopo quello sciopero di zappatori e di fabbricatori di tappi per le bottiglie di vino che non potevano bere. Sembra che dopo la prova di forza, il Sindacato di André Serra continuò ancora per un certo tempo a far sentire la propria voce; quanto a lui, U sciü Andrià, qualcuno gli andò a dire che, pur sempre, aveva una tenuta agricola ed era pure lui un padrone. Rispose, unico fra tutti, aumentando il salario dei suoi lavoratori ai cinquanta “patacconi” a giornata richiesti.

A lungo mantenne il fantasioso “museo paleontologico” nella sua tenuta della Pomposa; era un piccolo edificio con il tetto a punta che fu gravemente danneggiato durante la II guerra mondiale. La cosa stupefacente erano i “reperti” che vi erano ospitati: sassi. Di tutte le dimensioni. Dai ciottoli ai pietroni, etichettati a formare una “storia della pietrificazione” di Bonifacio e dintorni: così i sassi più piccoli erano “foglie e insetti pietrificati”, mentre quelli più grossi potevano nascondere qualche antenato trasformato in pietra, magari il bisnonno Giuseppe o la trisavola Franca Maria. Agli ingressi, si trovavano delle colonnine sormontate da grosse pietre di forma fallica, che rappresentavano, naturalmente, la “madre Terra”!

La canzone sullo sciopero dei braccianti di Bonifacio del 1911 fu scritta da tale Léon Camugli, sul quale non sono riuscito a trovare notizie più precise; e me ne dispiace. Era, con tutta probabilità, un membro del sindacato di André Serra che aveva preso direttamente parte allo sciopero. Si dice tuttora che sia la canzone più famosa in dialetto ligure bonifacino.


Erano un bel po' di braccianti
che potevano formare un battaglione,
ce n'erano quattrocentoventicinque
davanti alla fontana di Longone,
con asini, asine e asinelli,
carichi di attrezzi da lavoro,
di barilotti e di cesti da soma
e si misero tutti a cantare:

I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.


Dato che ora tutto aumenta,
persino il pane e il sapone,
e che non si può più mangiare pesci
e che il vino costa dieci patacconi,
non se ne può più di mangiare sempre acciughe,
vogliamo carne e maccheroni
e bere un gotto di vino o due
invece dell'acqua di Longone

I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.


Il ricco non si sporca mai di fango,
ma quando piove e quando fanno i tuoni
noialtri poveri disgraziati
ci rintaniamo dentro la baracca;
vogliamo un bel fascio di legna
da mettere dentro il caminetto,
ora che viene l'inverno
bisogna riscaldarsi un pochettino.

I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.


Non si può avere un poco d'olio,
ci vendono quello di cotone
e invece delle scarpe da signori
ci danno le scarpe di cartone;
i sindacati sono stati formati
per far valere le nostre ragioni,
se non ci aumentano il salario giornaliero
non pagheremo più contributi.

I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.