giovedì 27 dicembre 2007

Il coltellino svizzero



Della mia attività di volontario sanitario sulle ambulanze del 118 parlo sempre poco, e malvolentieri. Le cose che si vedono sono sembre brutte, spiacevoli, a volte orribili; e c'è sempre qualcuno pronto a ricordarti cose intelligentissime, tipo: Mica te l'ha ordinato il dottore di farlo. In effetti. Però il 26 gennaio dell'anno che viene saranno trent'anni esatti che giro vestito prima di bianco, poi di arancione, e ora di giallo fosforescente. Mi va di farlo, lo farò finché mi andrà al di là delle buffe e pompose "qualifiche" che mi hanno affibbiato mio malgrado, tipo soccorritore di II livello o autista abilitato a ogni tipo di emergenze. Sogno il giorno in cui tale servizio sarà affidato a efficientissimi paramedics stile americano, regolarmente retribuiti e con una vera formazione professionale; nel frattempo si va avanti con questo autentico cazzo di volontariato. Non trattateci sempre a pesci in faccia; qualche volta capita anche a noi di salvare qualche buccia. Stanotte, ad esempio. Dal turno di notte dal quale sono appena tornato.

Ho un coltellino svizzero. Un regalo, persino col mio nome stampigliato sopra. Ho abitato per anni in Svizzera, e volete che non ci abbia il coltellino multiuso; come abitare in Russia e non averci la matrjoska. Comincia qui questa storia di sliding doors, in un qualche posto dove il coltellino mi è stato acquistato, e in un posto che non conoscevo fino a tre ore fa. Vicinissimo a casa. Un palazzo brutto e vecchio, con delle scale buie e le pareti scrostate. Ci abita una vecchia, la signora R.B., di 85 anni.

Poniamo il caso che il coltellino svizzero non mi fosse stato acquistato. Chissà se lo avrei fatto di mia spontanea volontà; forse sì, forse no. C'è quasi tutto, persino lo stuzzicadenti di plastica; e, devo dire, da quando mi è stato regalato, me ne sono davvero servito in ogni occasione. Da affettare il pane a svitare qualcosa, da stappare una bottiglia a limarmi le unghie. Non mi piacciono i soprammobili. Se ho un oggetto, lo uso. Quando vado di turno alle ambulanze, me lo porto quasi sempre dietro, attaccato al moschettone della divisa. A qualcosa potrebbe sempre essere utile; ma ho detto quasi perché ci sono delle volte in cui non me lo porto. Perché mi dimentico di prenderlo, oppure perché, semplicemente, non ne ho voglia. Ieri sera, prima di partire, è stata una di quelle volte in cui me ne sono ricordato. L'ho staccato dalla sua catenella e me lo sono ficcato al moschettone. Avrei potuto benissimo lasciarlo là dov'era.

La signora R.B., di anni 85, che non saprà mai chi sono e neppure di quel coltellino svizzero, alle 3.45 di stanotte si dev'essere alzata per andare in bagno, ed è caduta in terra nell'ingresso. In gergo si chiama TIA, Transitory Ischemic Attack; una volta si diceva, più semplicemente: le è venuto un colpo secco, o qualcosa del genere. I vicini hanno sentito il tonfo, i lamenti e hanno chiamato il 118. Da una parte è arrivata l'Alfa Mike, l'automedica, col medico rianimatore e l'infermiere; e dall'altra sono arrivato io con la Delta 6, l'ambulanza attrezzata. Piccolissimo problema: la porta di casa era chiusa a chiave, e la signora era sola. In questi casi si hanno pochissimi minuti a disposizione. Chiamare i pompieri significa stare lì a grattarsi mentre una persona sta crepando. Inutile tentare di sfondare la porta: un portone di legno massello di quella casa dei primi del '900. Ci avevo il coltellino svizzero. Ho cominciato a sfruconare nella serratura con qualcuno di quegli aggeggi, manco mi ricordo quale. Il cavatappi, l'apriscatole, la lima; si è sentito un clac. La porta si è aperta. La signora era lì davanti stesa in terra.

Ora se ne sta all'ospedale, non in pericolo di vita. Le è stato fatto quel che si doveva fare. Presa, monitorata, i parametri, il pulsiossimetro, la fisiologica. Viva. Qualche minuto di troppo e non lo sarebbe più stata. Sarebbe bastato che, qualche ora prima, avessi deciso di lasciare il coltellino svizzero attaccato alla sua catena appesa allo stesso chiodo del quadretto con scritto: Amo due cose: te e la Fiorentina. Oggetti. Oggettini scemi. Ricordi. Cretinate. Il medico che diceva: Ma guarda te, io credevo che non servissero a una sega, i coltellini svizzeri; e magari è stato anche quello un caso, una punta di lima o di cavatappi che ha beccato il punto giusto all'interno della serratura.

A cosa è in mano la vita umana, a volte. Stanotte mi è successo di averne un po' salvata una. Mi potrebbe venire in mente che qualche volta, senza saperlo, ne avrò magari fatta finire un'altra.

lunedì 24 dicembre 2007

Caro Gesubbambino



Carissimo Gesubbambino,

Devo dirti: non è che me ne importi molto del tuo compleanno (tanti auguri comunque!), e men che mai di quel tuo surrogato inventato dalla Coca Cola con quel vestito rosso a bischero e quella facciazza di cazzo con cui è usualmente raffigurato. Però, visto che siamo alla vigilia, perché non mandarti una letterina? Ci avrei da chiedere un regalino del tutto particolare, una cosa forse un po' bruttina bruttò', anzi un po' carognetta carognò; ma, del resto, a volte mi sento precisamente così. Brutto, cattivo e carogna. Forse un pochino lo sono anche, dietro le apparenze da bravo bambino tutto blogghi, canzoncine e amori perduti.

Ecco, il regalino che ti chiedo è questo; ed era un po' che mi frullava per la testolina. C'è una bella cittadina nel cosiddetto "Nord Est" della repubblica Italiana. Si chiama Treviso. Potresti, per favore, farmela scomparire dalla faccia della terra? Non ti chiedo cose cruente, basta un paff, oplà! Niente terremoti, niente inondazioni, niente incendi, nulla di nulla; un semplice schiocco delle dita e Treviso non c'è più. Oh, sei o non sei Gesubbambino figlio unigenito eccetera? Tu puoi! Al suo posto mettici quel che ti pare: una montagna, un giardino, un deserto, delle vigne, un campo di girasoli, il nuovo stadio del ghiaccio; basta che non ci sia più quella cittadina, e che non ci siano più i suoi abitanti.

Ora, forse, ti domanderai perché io ti chieda una cosa così crudele. Far scomparire addirittura un'operosa cittadina assieme ai suoi abitanti (ma chissà perché i posti più di merda sono sempre operosi). Il fatto, vedi, è che ora mi hanno veramente –e definitivamente- rotto i coglioncini. La cittadina, i suoi abitanti operosi e tutto il resto. Mi hanno rotto i coglioni quei due sudiciumi nazisti del suo sindaco, una specie di barile di merda chiamato Gobbo, e il "prosindaco" (che poi è lui che comanda), una specie di Himmler al radicchio a nome Gentilini, adorato dai suoi concittadini che lo hanno sempre rieletto a furor di popolo.

Avrai sicuramente, tu che dall'alto de' cieli tutto vedi e tutto scruti, seguito da qualche anno a questa parte le esternazioni e i provvedimenti di questi due figuri. Oddio, non che in altre parti del norditaglia ce ne siano di migliori; fanno, come sai, parte di un movimentino tutto camicette verdi, tradizioni, famiglia, noalletasse, invasioneslàmica, immigratiraus eccetera che si chiama "Lega Nord". Ma ci vorrà pur sempre un simbolo, qualcosa che faccia finalmente capire a questi stronzi che no, Dio non è con loro. Gott ist nicht mit ihnen! Altrimenti, potrebbe anche darsi che a qualcuno venga il sospetto che, in fondo in fondo, tu li tolleri per non dir di peggio. O cavolo! Ma come! A quei poveracci nello Sri Lanka, nel Bangladesh o in Africa subsahariana tu e tuo padre mandate di tutto, e ogni anno, e a questi qui li lasciate in pace? Ma un po' di giustizia, perdio (ehm, pardon), ce la avete? Pensa al risultato: la punizione divina si abbatte su quella cittadina di razzisti schifosi, di ricchi vermiciattoli obesi, di Benetton, di sindachini che alternano l'omaggio al vescovo allo Horst-Wessel-Lied. Tu non ti immagini quanti adepti guadagnereste, tuo e tuo padre, alla Vostra causa. Persino un senzadio incallito come il sottoscritto non potrebbe fare a meno di applaudirvi e di gridarvi: well done!

Lo hai e lo avete saputo, no, che da quelle parti degli esseri umani sono considerati tumori? Che un consigliere comunale, nel silenzio generale, dice di voler adoperare la decimazione come al tempo dei nazisti, dieci immigrati per ogni italiano? Che, a parte qualche rado volonteroso che fa la stessa figura della particella di iodio nell'acqua Lete, tutti son pronti non dico a scusarli, ma addirittura a giustificarli, ad approvarli, a rivotarli con percentuali similbulgare? Lo sai e lo sapete che, prima che arrivasse la Lega, quella città era un feudo di un partito che diceva di ispirarsi a voi e che portava, caro Gesubbambino, il tuo nome? Ma vai percaso fiero di riconoscerti in questa razzumaglia che ti ha in bocca di continuo, che ciancia di valori, che considera altri uomini come degli Untermenschen e che, dulcis in fundo, sembra ormai gestire sempre più sfacciatamente l'industria della peggiore xenofobia certa non solo dell'impunità, ma di un'approvazione generalizzata e assai fruttifera in termini di potere e denaro? A te la palla, caro Gesubbambino. A te e a tuo padre; scusami se non nomino lo Spirito Santo, ma ancora non ho capito bene cosa diamine sia.

Certo, sicuramente a Treviso e dintorni ci sarà anche qualche brava persona. Qualcuno che non approva tutto questo, qualcuno che si vergogna fin nel midollo che una città che ha, qualche decennio fa, rischiato davvero di scomparire dalla faccia della terra per un bombardamento rovinoso, adesso sia diventata la capofila del nazismo in camicia verde e dei suoi accoliti. Dimenticando a cosa porti l'odio. E' questo che mi fa ancora più incazzare, sai. La perdita totale della memoria in nome del più crasso, becero e criminale egoismo. E allora, sì, ci vorrebbe proprio un segno. Se una volta a questo luogo è stato permesso di sopravvivere a una sciagura immane, e di prosperare, e se ciò con cui ha ripagato l'umanità è l'essersi fatta, coi suoi amministratori e coi suoi cittadini, paladina delle istanze più vergognose di questo paese già sufficientemente vergognoso di per sé, allora merita di scomparire per sempre e che sul luogo dove sorgeva sia sparso il sale. Guardate un po' oggi, di quella poveraccia rapita e fatta a pezzi da quelle parti; da un concittadino con un cognome bello nordestoso, però. Ordinaria amministrazione. Lui può essere semplicemente folle, non è un tumore. Pensate se, invece di chiamarsi Fusaro, si fosse chiamato Fusarescu, Al-Fusār o Fu-Sal-Qing. Pensateci.

O non ne è piena di esempi, la Bibbia? I cittadini bravi? Scusami e scusatemi, caro Gesubbambino & Father, ma ve lo ricordate di Béziers? Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens! Sono certo che accoglierete con gioja quei trevigiani buoni e innocenti nel vostro caldo abbraccio, nella luce eterna del Paradiso; oppure, più semplicemente, manderete, alla vigilia, gli agnoloni co' le tromme in bocca a dir loro di scappare. Per il resto, paff! Via dalle palle. Mal voluto non è mai troppo. Ma stai a vedere, però, caro Gesubbambino, che non farete assolutamente un cazzo. Che manderete un altro tsunamino a Giava. Un altro uraganino a Haiti. Un terremotuccio in Bolivia! Una carestionzola di sedici anni nel Sahel! Decine di guerre per la democrazia! Sapete fare solo questo? E allora, poi, non lamentatevi se qualcuno vi bestemmia.

domenica 23 dicembre 2007

Disfarmi



Stendo verso il mio passato
vani tentacoli di sogno
per carpire oggetti, carte
che forse non esistono più;
eppure, come un rimorso
so che le mie ricchezze
simboliche sono ancora là,
in quella casa oggi chiusa
gabbia d'un pazzo e d'una vecchia:
i miei ritratti d'allora,
lo stampino col mio nome,
ed io, io dappertutto,
negli specchi e sulle pareti.
Su, debbo andare a smontare
questo tempio di me stesso,
saccheggiare, regalare
ai musei le mie suppellettili
più rare e buttare il resto,
esorcizzare quel luogo
che fu adibito al mio culto,
morire senza lasciare
tracce vergognose od altre,
disfarmi di tutto, andarmene
così come sono venuto.

Juan Rodolfo Wilcock, 1962.

sabato 22 dicembre 2007

Arroìto da' ponci



Era un po' di tempo che non me lo facevo fare. Dico "facevo fare", perché fuori da Livorno non lo sa fare nessuno. Bisogna che lo spieghi, che sia sfacciato. Non so come la pigliano i baristi, specie quelli giovani, freschi di scuola professionale, che magari sanno fare i cocktail più astrusi e si ritrovano un tizio con una keffiah avvolta al collo che, coi gomiti sul bancone, dà istruzioni antiche.

Mentre la madre del barista racconta della sua Primavera di Praga, che ha visto coi suoi occhi. Mica come Guccini, per sentito dire, e per fare una canzone! L'ha vista con la canna di un carro armato puntata diritta davanti alla finestra di casa. Erano nostri amici, diceva. Mezza famiglia di origine russa, anzi, siberiana. In un bar a Firenze, una donna dagli occhi chiari mi dice della sua famiglia a Irkutsk, a Novosibirsk, e il cannone puntato, e il tradimento. E io le racconto di certi giorni del '96, dei fiori portati a uno Jan Palach dimenticato, e di un tranviere di Karlovy Vary in una serata a bere birra fino a scoppiare finita sotto la neve mentre quello cercava d'insegnarmi l'inno nazionale ceco. Qualcosa che fa sprklchvuskov sztrumov vrchltsky, o roba del genere.

Intanto le istruzioni.

Bicchiere da caffè di vetro, col manico di metallo.
Un cucchiaino e mezzo di zucchero.
Una scorza di limone.
Un quarto di rum e un quarto di cognac.
Il ragazzo mi guarda dolcemente e piglia la bottiglia del Martell, mica seghe!
Riscaldata.
Caffè nero bollente e forte.
Peperoncino.

E tutti a guardare in questa serata gelida di dicembre. Prima di cominciare a berlo, lo annuso. Quant'era, cazzo, quant'era. Mi viene da raccontare di quando vedevo i pescatori farsene tre o quattro in fila alle cinque e mezzo di mattina. Non racconto che ci sono state delle sere, o delle mattine, in cui sono arrivato a farmene otto in fila, così, senza fiatare. Ti viene una voce tutta sua, poi. Rauca. Da inferno. Natale sì, natale da averci sempre più voglia che venga maggio. Rauca. Voce da inferno. Arroìto da' ponci!

giovedì 20 dicembre 2007

L'evasione del Michè


Fino a qualche tempo fa era la "regola", qui dentro. Vecchie cose ripescate qua e là, in modo da essere consegnate a questo repository. Ora sono diventate l'eccezione; ma stanotte mi va così. Fanculo alle galere: faccio di nuovo evadere il Michè. La prima volta fu il 29 di novembre del 2001, sul newsgroup di De André, con una risposta di Franco Senia che riporto in commento.

Quando hanno aperto la cella...era già tardi. Perché alla parete, impiccato ad un chiodo, pendeva una specie di fantoccio fatto con un po' di paglia, degli stracci e il polistirolo delle cassette in cui venivano portati i pasti. Lo stesso fantoccio che, la sera prima, Michè aveva infilato nel letto per far credere al primo secondino, Baffi di Sego, che dormisse. Appoggiato alla parete, quella col chiodo, aveva imitato il respiro tranquillo di un dormiente mentre la guardia controllava dallo spioncino della porta di ferro; poi se n'era andata, e lui aveva semplicemente rimosso quelle sbarre pazientemente segate per quattro mesi con un manico di cucchiaio.

Tutte le volte che un gallo sento cantar, penserò a quella notte in prigione quando Michè li prese tutti per il culo. La mattina, il secondo secondino entrò nella cella per portare la colazione e cacciò un urlo; urlo che si trasformò in bestemmie quando si accorse che, con una corda sul collo, freddo pendeva un pupazzo di paglia e polistirolo e che le sbarre non c'erano più.
Erano scattate immediatamente le ricerche.
Nessuna traccia.

E pensare che era tutto già pronto; il prete già pronto a rifiutare la messa, la fossa comune, la croce col nome e la data e persino un cantautore semisconosciuto già all'opera con una ballata, falsando un po' la realtà storica e finanche il nome. Perché Michè, non tutti lo sanno, si chiamava in realtà Mike ed era in galera per avere sforacchiato con un fucile automatico un tizio che si era avvicinato un po' troppo non tanto alla sua donna e complice, Mary (chissà perché, poi, èdiventata Marì, con quel buffo accento finale). Si era avvicinato un po' troppo a quella vecchia chiesa sconsacrata dove il Mike aveva nascosto quattrocentotrentottomila dollari, frutto di una rapina a mano armata alla First National Bank di Des Moines. E menomale che, in quello stato, allora non era in vigore la pena di morte; ma altro che vent'anni, gli avevano dato. A marcire in prigione ci sarebbe dovuto restare per tutta la vita.

E nel buio Michè se n'è andato...calandosi con una corda di lenzuola dalla finestra della cella. Un salto nel cortile, agile come un gatto e pronto a sfruttare ogni nicchia per nascondersi ai fasci di luce delle fotoelettriche. Un vecchio, dimenticato cunicolo di scolo visto per caso durante un'ora di libertà cui non aveva rinunciato; il cucchiaio rubato in cucina, pazientemente affilato sfregandolo al pavimento. E quell'ultima lettera a Mary...non era un addio. Era un appuntamento!

Lei lo aspettava in un campo, all'alba; con una vecchia Panhard rubata ad un commesso viaggiatore. Come sarebbe stato possibile passare tutta la vita senza di lei? Avevano voglia di baciarsi, di stringersi, di fare l'amore fino a sfinirsi; ma dovevano scappare. Scappare via. Un amico li aspettava con una barca...

...e c'è chi li vide qualche tempo dopo, in Bolivia, dentro ad una banca. Una ben strana rapina. Il Michè non sapeva una parola di spagnolo, cazzo. Lei e l'amico, Butch, tenevano le pistole spianate sul personale della banca e sui clienti, mentre lui, incerto, balbettava:

"Eso...eso...eso es un robo!"

mercoledì 19 dicembre 2007

Gli innamorati


Si guardàine citte
Si guardavano zitti

e senza fiète
e senza fiato

i 'nnammurète.
gli innamorati.

Avìne ll'occhie ferme
Avevan gli occhi fermi

e brillante,
e brillanti,

ma u tempe ca passàite vacante
ma il tempo che passava vuoto

ci ammunzillàite u scure
vi ammucchiava il buio

e i trimuìzze d'u chiante.
e i tremiti del pianto.

E tècchete, na vota, come ll'erva
Ed ecco, una volta, come l'erba
ca tròvese 'ncastrète nda nu mure,
che si trova incastrata dentro a un muro
nascìvite 'a paròua,
nacque una parola
po n'ata, po cchiù assèi:
e poi un'altra, poi più assai:
schitte ca tutt'i vote
solo che tutte le volte
assimigghiàite 'a voce
la voce assomigliava
a na cosa sunnèta
a una cosa sognata
ca le sìntise 'a notte e ca po tòrnete
che la senti di notte e che poi torna
chiù dèbbua nd' 'a iurnèta.
più debole durante la giornata.

Sempe ca si lassàine
Sempre che si lasciassero
parìne come ll'ombre
sembravano come le ombre
ca ièssene allunghète nd'i mascìe;
che si allungano nelle magie;
si sintìne nu frusce, appizutàine
se sentivano un rumore, aguzzavano
'a 'ricchia e si virìne;
le orecchie e si vedevano;
e si 'ampiàite 'a 'ùcia si truvàine
e se lampeggiava la luce si trovavano
faccia a faccia nd'u russe d'i matine.
faccia a faccia nel rosso dei mattini.

Nu iurne
Un giorno
- nun vi sapéra dice si nd'u munne
- non saprei dirvi se nel mondo
facì' fridde o chiuvìte –
facesse freddo o piovesse -
'ssìvite nda na botta
uscì tutt'a un tratto
'a 'ùcia di menziurne.
la luce di mezzogiorno.

Senza ca le sapìne
Senza che lo sapessero
i 'nnammurète se tinìne 'a mèna
gli innamorati si tenevano per mano
e aunìte ci natàine nd' 'a rise
e nuotavano insieme nel sorriso
ca spànnene i campène d'u paìse.
che le campane del paese spandono.
Nun c'èrene cchiù i scannìje;
Non c'erano più angosce;
si sintìne cchiù llègge di nu sante,
si sentivano più lievi di un santo
facìne i sonne d'i vacantìje
facevano i sogni delle giovinette
cucchète supre ll'erva e ca le vìrene
coricate sull'erba e che vedono
u cée e na paùmma
il cielo e una colomba
casi pàssete 'nnante.
che gli passa davanti.

Avìne arrivète a lu punte iuste:
Erano giunti proprio al punto giusto:
mo si putìna stinge
ora si potevano stringere
si putìna vasè
si potevano baciare
si putìna 'ntriccè come nd'u foche
si potevano unire come nel fuoco
i vampe e com'i pacce
le vampe, e come i pazzi
putìna chiange rire e suspirè;
piangere ridere e sospirare;
ma nun fècere nente:
ma non fecero niente
stavìne appapagghiète com'a 'a niva
se ne stavano assorti come la neve
rusète d'i muntagne
rosata delle montagne
quanne càlete u sòue e a tutt'i cose
quando il sole tramonta e ad ogni cosa
ni scìppite nu lagne.
strappa un lamento.

Chi le sàpete.
Chi lo sa.
Certe si 'mpauràine
Senza dubbio temevano
di si scriè tuccànnese cc'u fiète;
di sparire toccandosi col fiato;
i'èrene une cchi ll'ate
erano uno per l'altra
'a mbulla di sapone culurète;
la bolla di sapone colorata;
e mbàreche le sapìne
e forse lo sapevano
ca dopp'u foche ièssene i lavìne
che dopo il fuoco scorrono torrenti
d' 'a cìnnere e ca i pacce
di cenere, e che i pazzi
si grìrene tropp assèi
se gridano troppo
lle 'nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune
li chiudono per sempre dove nessuno
ci trasèrete mèi.
entrerebbe mai.

Mo nun le sacce addù su',
Ora non so dove sono,
si su'vive o su'morte,
se sono vivi o morti,
i 'nnammurète;
gli innamorati;
nun sacce si camìnene aunìte
non so se camminano insieme
o si u diàue ll'è voste separète.
o se il demonio li abbia voluti separati.
Nun mbogghia Ddie
Non voglia Dio
ca si fècere zang 'nmenz' 'a via.
che sian diventati fango nella via.

Albino Pierro, 1963.

martedì 18 dicembre 2007

Martellate


La casa dove ho abitato per due anni e mezzo con la mia ex moglie, nelle campagne senesi, era smisurata. E decrepita. Non saprei nemmeno come definirla, in quel borgo millenario addossato a un'abbazia esattamente sul percorso della via Francigena, l'antico cammino dei pellegrini di Santiago de Compostela. Campagna dura. Buio duro, spesso, una melassa di nero diluita soltanto dal castello sì illuminato, ma mezzo coperto da una collina che lasciava, da lì, soltanto baluginare un alone; sul lato della casa dove avevo la stanza, non si vedeva nulla. La sensazione di essere ogni giorno, dopo il tramonto, all'inizio del proprio viaggio al termine della notte; l'unica finestra aperta, l'unico punto di luce nel raggio di chilometri. Ci saranno stati gli assassini pronti a impiccarmi alla quercia grande? Tanto più che un albero enorme, non una quercia ma un olmo inglese maestoso, ce lo avevo proprio lì, davanti, più alto della casa e suo compagno più vecchio.

Al mattino, era come un dominio. Il pezzo di viottola sterrata che passava davanti all'ingresso era davvero l'antico percorso della Francigena, segnalato da piccoli cartelli; Herru Sanctiagu, Grott Sanctiagu, e ultreya, e sus eya. Deus adiuva nos! Ma le suggestioni d'epoche lontane duravano poco. Finivano nelle necessità quotidiane di cavarsela in quel posto che, ottobre arrivato, tornava a qualcosa di ancora più remoto. All'isolamento di un cittadino che, per motivi suoi, aveva deciso di svanire per un po' ritrovandosi in un buco fuori dal tempo.

D'inverno, al risveglio, queste necessità quotidiane consistevano nello scongelare la casa. Centonovantasette metri quadrati riscaldati soltanto con una stufa a legna e due caminetti. Nessun bombolone di gas esterno, nessun allacciamento, niente. Bisognava svegliarsi a ore antelucane e andare alla legnaia, con una carriola sfondata. Prendere la legna secca e accendere prima la stufa e poi i caminetti. Nel lavandino del bagno, in certe giornate particolarmente rigide, c'erano letteralmente i ghiaccioli. Se nevicava si restava isolati, cosa che accadde per due giorni filati fra il 13 e il 15 dicembre del 1995. Nella mia stanza non c'era niente, tranne una stufa elettrica e un gatto di nome Palla, che spesso s'infilava nel letto con me e mia moglie, o con me quando dormivo da solo nella brandina della mia stanza. Ci si riscaldava in tutti i modi possibili.

Essendo ai piedi di una montagnola, la casa era la prima a essere presa in pieno dai venti di caduta; certe nottate sembrava che dovesse crollare da un momento all'altro. Non s'è mai saputo quando fosse stata costruita, di preciso; doveva avere perlomeno quattrocento anni. Buchi dovunque. Non era raro che ci fossero i topi; e dall'olmo, una notte, vedendo la luce persino una civetta s'era azzardata a posarsi sulla finestra, un caso più unico che raro. Più raro ancora che tornasse, quasi ogni sera, perché ero andato al frigorifero e le avevo tagliuzzato alcuni pezzi di carne che veniva a beccare. E tutto questo era quella casa che cadeva a pezzi, come le due automobili che tenevo perché una fosse sempre a disposizione in caso di guasto dell'altra. Una Fiat Uno scassata e una Giulietta ancora più vecchia, puzzolente, che faceva due metri con un litro; però, quando l'accendevo, mi dava uno strano piacere sentire quel rombo da Alfa Romeo d'altri tempi.

Tutto era scarno, ossuto, vecchio. Mobili sghembi, brutti, fuori moda perché non avevamo soldi per comprarne di nuovi. Impossibile tenere pulito tutto quanto, soltanto per passare il cencio bisognava fare una sudata immane da quant'era enorme. C'erano delle stanze vuote; e, fuori, il mare verde. E l'oceano dei girasoli. E il contadino spietato, che ti guardava in cagnesco. La benzinaia orripilante. Il vecchio sulla porta che non diceva nulla. Chi viene, a stagione migliore, a visitare quei posti incantevoli per gli occhi, sistemandosi negli agriturismi rileccati, facendo le gitarelle a cavallo e dedicandosi alla gastronomia, non sa nulla dell'autentica carogneria delle campagne toscane, delle sue storie di merda, della sua cupezza. Bisognerebbe starci d'inverno; ma d'inverno non c'è nessuno. D'inverno ci sono solo il bosco, la collina e il vento; e un buio da fare paura, quel buio e quella solitudine che hanno fatto assumere ai toscani la loro particolare consuetudine con l'inferno.

Forse si sta perdendo anche quella. Forse tutto quanto si sta perdendo. E non intendo dire nulla al riguardo, perché ai tanti presunti nostalgici della "civiltà contadina" avrei fatto passare anche un solo inverno in quel posto. Uno solo. Ce ne ho passati tre, fra il '94 e il '96. Totalmente dimenticato. Chi mi conosceva non sapeva più dove fossi, a parte i miei e pochissimi altri. Nessun nome sull'elenco del telefono. Nessuna traccia. Vecchi amici che amici non erano. Vecchi amori volati via. Vecchie illusioni svanite. Tutto ripulito. Gli ultimi tempi mi riuscivano delle cose strane. Uscire in gennaio alle sei di mattina a prendere la legna, ma in camicia. Non sentivo più nemmeno il freddo. Buttarmi in vasca da bagno, nell'acqua bollente, in mezzo alla nebbia di vapore perché nella stanza ci saranno stati tre gradi di temperatura; e uscirne fuori completamente nudo, senza tirarsi nemmeno addosso un accappatoio. Farsi dodici chilometri a piedi sotto una nevicata per andare a fare un po' di spesa a Colle, il posto più vicino dotato di negozi, dato che le due macchine non avevano le catene. Gli ultimi quattro chilometri abbonati da una campagnola della Guardia di Finanza che mi aveva dato un passaggio. Credo di campare ancora di rendita, quanto a resistenza fisica, su quei tre inverni passati in quel posto chiamato Abbadia Isola, comune di Monteriggioni, località Pian del Casone.

Poi cominciarono a piovere calcinacci in camera, e a allargarsi certe crepe. Per rimettere tutto a posto in modo decente ci sarebbe voluta una marea di soldi; a mia moglie, visto che la casa era sua, toccò vendere tutto, alla svelta, e a un prezzo stracciato. Vendere a chi, invece, i soldi ce li aveva e poteva permettersi di dire: prendere o lasciare. Ci avrà fatto un posto da favola, una casa di vacanze, un posto dove dare feste; non per niente, nelle vicinanze, c'era una famosa agenzia immobiliare svizzera specializzata nel settore, la Cuendet. Diventerà tutto così, e non lo dico, non lo posso dire con nostalgia o con rimpianto. Nemmeno io appartenevo a quel mondo. Mi ci sono ritrovato a vivere. Ci ho lasciato un pezzo di me, ma non dico altro.

S'andò a Livorno. Stacco completo. Una specie di ritorno per me, la novità totale per la mia ex moglie. E questa è un'altra storia, in gran parte la storia di due dissoluzioni. Quella poca roba che c'era fu smontata e traslocata, se ancora utilizzabile; quella inutilizzabile fu invece accatastata fuori, ché qualcuno se la venisse a prendere per farne quello che volesse. Il notaio e gli assegni circolari. Le consuetudini d'una transazione immobiliare. Arrivò l'ultimo giorno. L'ultimo viaggio con la macchina, a prendere le minutaglie rimaste. E a fare le ultime due cose, programmate da tempo, decise a mente fredda, calcolate, studiate.

C'era da prendersi una vendetta sugli acquirenti che, sborsando due lire, s'erano ritrovati con un capitale. E non solo una vendetta, ma dare praticissimo luogo a quell'umanissima cosa che si chiama piacere di distruggere, di demolire. Per il semplice gusto di farlo. Urlando come un matto, bestemmiando iddìo e cantando tutto quel che passava per la testa, anche La macchina del capo ha un buco nella gomma. M'ero portato dietro, nascosto nel baule, a tutti ignoto, un mazzuolo di settanta centimetri fregato al mio ex suocero. Cominciai a sfasciare tutto. Vetri, finestre, i caminetti, infissi, la vasca da bagno, i semplici muri, i pavimenti in cotto antico (che fa tanto figo, e ci mettessero quelli in cotto moderno!). A rischio quasi di farsi crollare qualcosa addosso; ma sono figlio d'un catastale e fratello di un geometra, dove sono le strutture portanti e i muri maestri lo so riconoscere. Un'ora e mezzo di distruzione pura, milioni di danni. Li pagassero quei merdosi! L'ha detto pure quel famoso mio amico che nei blog si può sbruffoneggiare, e allora perché non farlo. Tanto, oramai, chissà che bel quartierino ci hanno fatto. Però la loro faccia, quando sono entrati, è una delle cose che mi piace immaginare quando mi girano i coglioni; e ultimamente mi girano spesso.

La seconda cosa era diversa. Sulle mattonelle della cucina ce n'era una con una stellina. Una decalcomania con una stellina sorridente che la madre della mia ex moglie ci aveva appiccicato per la figlia, quando era piccina. Si chiamava Mila. Morta a 31 anni per una leucemia fulminante. Nessuno mi poteva vedere. Nessuno mi vide posare per cinque minuti il mazzuolo vendicatore e staccare delicatamente quella mattonella verde con la stellina, che ho ancora qui con me. Riporla delicatamente in una borsa, e portarmela via. Poi ripresi a colpire, a spaccare, a tirare martellate all'universo.

sabato 15 dicembre 2007

Cento e Quindici


Questo post non parla di niente. E' scritto solo per il suo numero: è infatti il centesimo che compare su questo blog. Nessun "bilancio", anche perché ci sarebbe ben poco da bilanciare; semplicemente, scrivendo qui dentro una cosa dietro l'altra, i numeri sono andati nella loro normale progressione. Oggi sono arrivati a cento.

Forse sottolineare questo tipo di "ricorrenze" è una cazzata, un'ingenua bischerata che lascia, ovviamente, il tempo che trova. E' un blog, questo, nato dall'ennessimo ghiribizzo di uno che ci aveva provato altre due volte, prima con un black blog alquanto velleitario (e noiosissimo) interrotto ben presto, e poi con una cosa intitolata ad un luogo caro, forse il più caro di tutti. Si è interrotto anche quello, seppure dopo un po' più di tempo. Due tentativi fondamentalmente morti per la stessa causa: cercare di andare dietro agli altri, di scrivere di cose che altri sanno fare molto meglio. L'avere sempre in testa quel ronzio che dice: Oh, lo fanno loro e allora lo voglio fare anch'io. Così, a un certo punto, mi sono accorto di non essere più capace di andare avanti, di non avere in realtà più un un bel niente da dire. Peggio che mai, a volte, mi sono ritrovato davanti a un dato avvenimento sentendomi come obbligato a parlarne. Bisogna dire! Commentare! Analizzare! Come se il mondo non aspettasse altro che tale Riccardo Venturi si pronunciasse al riguardo, quando invece, il mondo, Riccardo Venturi non sa neppure chi accidenti sia (a parte il capitano dei RIS della fiction televisiva, naturalmente). Da qui il blocco. Totale.

Allora, un giorno questo blog è nato per raccogliere cose già scritte in anni di newsgroups, di mailing list, di forum, persino qualcosa dai vecchi due blog. Per raccogliere storie raccontate, che poi sono le cose che, in tutta onestà, ritengo di saper fare meglio perché trovo piacere nel farle. Per sbloccare un'impasse, insomma; da qui il buffo titolo col gioco di parole sul verbo sbloccare, la parola blog e un vecchio e celebre detto dell'antichità (che poi è stato "rimodellato" in un greco inesistente). Un invito dell'autore a se stesso: ciccio, abbòzzala di scimmiottare e fai solo quel che ti va di fare davvero. Sblòccati; anzi, sblòggati. Sblògga te stesso, appunto.

Le vecchie cose sono state salvate. Ne hanno portate a traino di nuove. Ma sono quasi sempre le solite cose, quelle poche scemenze cui riconosco soltanto la funzione, importante, di tenermi compagnia. Finita l'epoca dei gruppi di discussione più o meno aperti, la rete si è rivolta all'universo molecolare del blog. Non è mia intenzione analizzarne un perché che non saprei del resto minimamente analizzare. E' così e basta. W il blog, lunga vita al blog, e quando anche la sua epoca sarà finita s'inventeranno qualcos'altro. Per l'intanto si va avanti qui, e mi sembra che tutto sommato un risultato sia stato ottenuto: quello di durare un bel po' di più. Addirittura fino a cento.

Un risultato che, va da sé, ha un valore solo personale. Lo sblòggo. L'aver trovato qualcosa su cui farsi venire la voglia di perdere tempo. Tutto qui. Non posso e non voglio rispondere delle poche o pochissime persone che si sono trovate a incrociare per questi lidi. Come c'è scritto sotto la fotografia, l'autore sta bene con poca gente e in pochi posti. Chiunque è il benvenuto, ma non sollecito la sua presenza né intendo chiedergli il motivo di alcunché. Non c'è neanche il contatore di ingressi. Ci sono dei link che rimandano a siti che mi piacciono, a altri blog di amici o di sconosciuti, a altra varia webbaggine che più o meno mi corrisponde. Nulla di nuovo, tutto come ovunque; questo, oggi, per la centesima volta.

Però ci sono le famose coincidenze. Una di queste ha voluto che questo centesimo post cadesse proprio il Quindici. Il 15 dicembre, insomma. Una data che fino allo scorso anno mi è stata molto cara, anzi, più che molto cara. A un certo punto, nella mia vita, proprio quest'anno, c'è stato uno stacco. Un distacco. Una cosa che ha avuto la sua ripercussione anche qui dentro, e non poteva non averla. Alle storie e storielle, alle canzoni, a tutto il resto si è aggiunta una sorta di diario di questo distacco. Non so come l'avranno considerata i tre gatti che leggono 'sto cazzo di blog (quelli che chiamo i miei due milioni di lettori perché quello che diceva di averne venticinque sapeva invece benissimo di averne a migliaia), e non me ne importa manco una sega. Non certamente per mancar loro di rispetto, anche perché, per la maggior parte, si tratta di persone che considero amiche e cui voglio molto bene; ma perché ho smesso definitivamente di scrivere per un pubblico, o meglio, di voler cretinamente credere di farlo. Nessun pubblico, solo me stesso e la mia vita. Non sarà gran ché, ma è tutto quel che ho.

Tra queste persone che seguono l'Ekbloggethi c'è anche la persona con la quale mi trovo a vivere questo distacco. Il 15 dicembre è la data in cui era cominciato il viaggio; e di vero e proprio viaggio, anche fisico, s'è poi trattato. Un'andata e un ritorno. Tutto ha fine, ma niente finisce. Per questo vorrei dirle una cosa semplice: questa data resterà per me importante. Non verrà mai meno. Come altre analoghe del passato e, chissà, come altre che verranno. Non lo so, non si sa. Solo un grazie per avermela fatta vivere, e per tutto quel che è venuto dopo. Compresa la sua fine, in un'altra data. Caso ha voluto che coincidesse con questo centesimo post. Cento e Quindici. Il numero dei pompieri.



venerdì 14 dicembre 2007

I castelli e la gente perbene



Oggi voglio raccontare una favola. Ma non finisce bene. Forse non finisce nemmeno.

C'era una volta, tanto tempo fa, un essere umano, una donna. Anni addietro, in gioventù, aveva combattuto. Aveva fatto la lotta armata, come si diceva a quei tempi, in una qualche cosa che ci aveva del rosso nel nome; null'altro posso dire, perché altro non so. Nulla dei suoi ideali, delle sue motivazioni, della sua storia. So a malapena come si chiamava. E' inutile dire le solite cose, la giustizia, un mondo migliore, la fine della disuguaglianza, tutto quanto. Magari si può anche soltanto voler distruggere prima di essere distrutti. Mi sembrerebbe, tutto sommato, una motivazione plausibile.

Un giorno, durante la lotta armata, viene rapito un importantissimo dignitario del Regno. Una mattina di marzo, in una strada qualsiasi della capitale. I suoi armigeri sono abbattuti senza pietà, e il dignitario viene prelevato e portato in un luogo sconosciuto.

Non fu mai liberato. Il suo cadavere venne ritrovato quasi due mesi dopo nel baule di una carrozza abbandonata entro le mura della città, a mezza strada tra i palazzi delle due principali fazioni del Regno; di una delle due costui era il comandante.

Seguirono delle indagini da parte dei giudici, degli scabini, degli scherani, dei servizi di guardia e di balìa del Regno. Si disse che alcuni, specialmente nell'Arengo, non fossero poi così scontenti che quel dignitario fosse stato ammazzato. Furono catturate molte persone. Vi furono dei processi scanditi da strane parole, bis, ter. Questa donna vi era, dicono, coinvolta. Riuscì a scappare, però, in un altro paese.

In quest'altro paese, a quell'epoca, c'era un re un po' strano. Non che fosse diverso da tutti gli altri pezzi di merda di re che esistevano ed esistono in questa terra, cosè come non erano e non sono diversi i regni; ma siccome era un re che si voleva "progressista" e legato a certe tradizioni di quel paese, aveva deciso che i rifugiati per cause politiche fossero protetti e che si permettesse loro di vivere alla luce del sole, di avere un lavoro, di fare dei figli. Così accadde a questa donna, e ad altri provenienti dal suo stesso paese. Ci fu chi addirittura parlò di dottrina per la decisione di quel re.

Così andò per un po' di tempo. Vivevano, lavoravano, scrivevano, amavano. Se la vedevano, poi, con le loro coscienze. Alcuni dicevano di non aver fatto ciò di cui li si imputava nel loro paese di origine. Altri erano vittime di curiosi "teoremi" messi in atto da magistrati al servizio del Regno. Altri ancora avevano magari anche sparato e ucciso, e si sa che non si può sparare e uccidere. Lo si può fare solo con una divisa addosso, e con armamenti pagati dalla collettività che poi viene –in certi casi- sparata, uccisa, schiacciata dai carri blindati, manganellata a morte.

Ma un giorno, quel re morì quasi in odore di santità. Gravemente ammalato, negli ultimi tempi s'era messo a ragionare di morte. Quando sono i re a farlo, è alto magistero. Quando ne ragioniamo io e te, siamo dei coglioni. Fu fatto un altro re, e costui nominò dei governi e dei ministri. Pur appartenendo a una fazione avversa a quella del defunto suo predecessore, sembrò rispettare la sua "dottrina".

Un giorno, però, arrivò in visita un altro ministro. Veniva dal paese confinante, che poi era lo stesso da cui proveniva quella donna ed altri suoi compagni. Arrivò con la cravatta e un buffo fazzoletto verde che gli spuntava dal taschino della veste. Aveva una faccia comune, di quelle che si sarebbero potute vedere al mercato in piazza o a fabbricare pannolani. Aveva un cognome che col Regno sonava decisamente bene. Portava con sé, dicono, una lista. Con dei nomi. Quelli di alcuni rifugiati in quel paese. "Tutti assassini", diceva. Tutti condannati a vita. I gazzettini e le lanterne magiche del suo paese avevano preparato il terreno. Si facevano parlare i parenti delle vittime che chiedevano sempre giustizia; una giustizia senza fine, senza età, senza remissione.

L'omologo ministro dell'altro paese, che aveva un curioso nome che nella lingua del suo collega ricordava l'essere perbene –perché qui di gente perbene si parla-, gli disse di sì. Al diavolo la dottrina del vecchio re. Si vociferò che a quel suo assenso soggiacessero delle cose che, grattando la patina superficiale, c'entravano ben poco sia con la giustizia (e i due, tra le altre cose, erano proprio ministri di quella cosa lì), sia con tutto il resto che fu poi dato in pasto alle ciance d'ordinanza. I pericolosi assassini di cui si chiedeva la consegna erano ormai persone di mezza età, tranquillissime. Chi faceva il guardiano tuttofare di un palazzo, scrivendo libri per passatempo; chi faceva altri mestieri; chi faceva la mamma di una figlia di pochi anni. Qualcuno continuava a ragionare, a analizzare, a pensare; qualcun altro non se ne curava nemmeno più.

Cominciarono ad arrestarne uno, un giorno qualsiasi, all'improvviso. Dopo un po' lo riportarono nel suo vecchio paese e lo misero in galera per sempre. Proprio in quel paese dove, spesso e volentieri, i peggiori assassini girano liberi e senza problemi; ma lui era uno che aveva combattuto contro il Regno. Poi toccò a un altro, quello che faceva il guardiano tuttofare e scriveva libri. Nel suo paese di origine si esultava, specialmente da parte di coloro che non lo avevano mai sentito nominare. I fedeli gazzettisti si lanciarono in sistematiche distruzioni di tutta la sua figura. Persino da parte di un famoso gazzettista & lanternista magico che pure passava per illuminato e progressista si lesse la distruzione dei suoi libri, delle sue storie. Vietato persino riconoscergli la dignità della scrittura, ma che dico della scrittura: del raccontare una storia.

Fu preso anche lui una mattina qualsiasi. Fu portato in carcere. Però sorsero delle difficoltà. In quel paese, c'era gente che non intendeva far passare la cosa sotto silenzio, nel nome delle motivazioni più svariate. Anche persone che, idealmente, sarebbero dovute essergli nemiche. Riuscirono a farlo uscire in attesa della decisione sulla sua consegna. Ci furono udienze e controudienze nelle vari corti del Regno. Andarono male. Doveva essere riconsegnato alle autorità del suo vecchio paese. Scappò. Lasciando tutta la sua vita. I suoi figli. I suoi libri e i suoi prodotti per la pulizia. Raccontò la sua latitanza in un altro libro, il suo ultimo. Infine lo ripresero in un altro Regno, stavolta lontanissimo, stavolta al di là dall'oceano. In una galera di laggiù stette ad aspettare. Aspettare, aspettare, aspettare.

Poi toccò a quella donna. E' stata presa un altro giorno qualunque, un altro ancora. Con il pretesto di un controllo viario. Ancora una volta, sui gazzettini del suo vecchio paese, si lessero cose strabilianti; tipo quella che fosse latitante e che fosse stata tradita. Il suo nome, come quello degli altri, era sull'elenco del corno parlalontano. Pagava le imposte e i balzelli di quel paese. Aveva la pergamena della sicurezza sociale del Regno. Ripetizione delle solite cose. La novità è che c'era un nuovo re, un altro ancora; e questo era un re senza dottrine. Uno che voleva fare. Uno giovane e con tante donne. Uno che voleva liberare il suo paese dagli straccioni. Uno che.

Un giorno, magari proprio oggi, dissero che anche quella donna poteva essere riconsegnata al suo vecchio paese. Per andare in galera per sempre. Marchiata per sempre come assassina. Finito. Stop. Vita cancellata dopo averle dato l'illusione di un futuro. Dicevano che le sue vittime un futuro non ce lo avevano più avuto, ma nel Regno c'erano vittime e vittime. C'erano le vittime giuste e quelle sbagliate. Di quelle sbagliate è vietato parlare. Quando se ne parla si diventa complici.

Nel frattempo, entrambi i paesi si prepararono all'annuale appuntamento della Grande Festa. Si festeggiava, come ogni anno, la nascita di un tizio che poi la giustizia –così dicono loro- si procurò di far morire su una croce. E c'erano i veri problemi. Carrettieri in sciopero, buffoni di corte che si facevano paladini –sempre della giustizia, ovvio-, leggi, banditi e tutta quell'orda di barbari invasori. Brutti. Sporchi. Cattivi. Criminali. Che brutta Festa.

Così andava in quel paese, in quel Regno così pieno di castelli e di gente perbene. La gente perbene amava il Regno. Ne aveva bisogno. Ne voleva sempre di più, e il Regno glielo elargiva, benevolo, rassicurante, sorridente. Ma dietro il sorriso c'era, come sempre, la maschera della morte.

giovedì 13 dicembre 2007

I proletari


Ci son delle superpetroliere che sconciano le onde
Con 10 uomini d'equipaggio si va fino in capo al mondo.
Prima, ce ne volevano 30, non era conveniente,
Olé, 20 son disoccupati! I prezzi saranno piu' ragionevoli.
Ma di tutti 'sti marinai che cosa ne faremo?
Ma di tutti 'sti marinai che cosa ne faremo?
Se ne andranno in città, trallalero trallalà,
Li si metterà in fabbrica: c'e' sempre penuria di proletari!

Han lavorato abbastanza per sé, l'agricoltura familiare non conviene,
tiene l'Europa in ritardo, fuori dalla competizione.
Ci son troppi agricoltori, non e' ragionevole,
Qualche milione restera' disoccupato e l' "Europa verde" sara' possibile.
Ma di tutti 'sti contadini che cosa ne faremo?
Ma di tutti 'sti contadini che cosa ne faremo?
Se ne andranno in città, trallalero trallalà,
Li si metterà in fabbrica: C'e' sempre penuria di proletari!

E tu, piccolo commerciante, tu morirai d'IVA.
Ma se s'aiuta tutta 'sta gente, la bomba come la si fa?
Il piccolo commercio deve morire, non conviene.
Vattene al supermercato, i prezzi saranno piu' ragionevoli.
Ma di tutti 'sti commercianti, che cosa ne faremo?
Ma di tutti 'sti commercianti, che cosa ne faremo?
Se ne andranno in città, trallalero trallalà,
Li si metterà in fabbrica: c'e' sempre penuria di proletari!

A Nantes, a Rennes o a Brest di lavoro proprio non ce n'e'.
Vorrebbero restare a casa loro, allora, che si deve fare?
Spostar tutte le fabbriche? Proprio una bella cazzata!
E allora, che vengano nella capitale, per il padrone, e' piu' conveniente.
Ma di tutti questi immigrati che cosa ne faremo?
Ma di tutti questi immigrati che cosa ne faremo?
Se ne andranno in città, trallalero trallalà
Anche facendo il pieno di impiegati, ci saran sempre troppi proletari!

E se ci son troppi disoccupati, ci saranno disordini:
Ci vorranno dei poliziotti per mantenere l'ordine.
Hitler lo aveva gia' detto: "Un disoccupato non e' conveniente:
Un soldato costa meno ed e' assai piu' ragionevole."
Ma di tutti 'sti poliziotti che cosa ne faremo?
Ma di tutti 'sti poliziotti che cosa ne faremo?
Se ne andranno in citta' trallalero trallalà,
A pestare gli operai, a pestare i loro fratelli

Se ne andranno in citta', trallalero trallalà,
A pestare gli operai, a pestare i loro fratelli!

Gilles Servat, 1971.

martedì 11 dicembre 2007

Un raglio e un fischio


Il faro che, ancora, sta in cima al Capo Poro e che segnala alle imbarcazioni l'ingresso al golfo di Campo, è da anni completamente automatico. Si accende e spegne a una data ora, a seconda delle stagioni, con un dispositivo di temporizzazione; ma fino almeno alla metà degli anni '80 non era così. Ogni giorno qualcuno doveva andare a accenderlo e a spegnerlo alle ore previste; ci andava, finché non è morto, il Soldatino col suo somaro.

Dico somaro perché non so se fosse un asino vero e proprio, un mulo, un bardotto o cosa. Non sono mai stato capace di distinguerli bene, ma c'è quella parola, somaro, che serve per tutti. Il Soldatino era un vecchio senza figlioli, mai stato sposato e secco come un giunco; a una cert'ora lo si vedeva partire da casa, su una delle salite che dal Vapelo vanno al Crino e poi a Galenzana, e poi tornare una volta svolto il suo compito. Doveva essere pagato, credo, dalla Capitaneria di Porto o da qualche altro organismo militare; il Capo Poro sarebbe tuttora zona militare a causa dei ruderi di alcuni bunker e di qualche batteria contraerea della II guerra mondiale. Per andarci c'è un sentiero che, nell'ultima parte, sale non dico in verticale ma quasi; in tutta la mia vita mi sono azzardato solo due volte a farmelo a piedi, e quando ci avevo non molti anni. Ora ci avrei dei grossi problemi, per usare un eufemismo.

Ci volevano un uomo secco e un somaro, per andarci ogni giorno, lassù. Il somaro, a un certo punto, doveva prendere l'uomo secco in groppa; e era una femmina. Una somarina più secca di lui, che sapeva la strada a memoria, e non solo quella. Siccome lui la lasciava libera, già in tempi di macchine con lo stereo, di discomusic e di tv commerciali la si vedeva girare da sola per il paese, dov'era diventata una specie di attrazione. Una volta fece epoca, vicino all'ufficio postale, fermandosi alle strisce pedonali per fare attraversare una comitiva di tedeschi esterrefatti; magari, chissà, avranno pensato che all'Elba i somari erano più educati degli automobilisti.

Il Soldatino, invece, manco mi ricordo come si chiamasse per davvero. Era il Soldatino, e basta. Quando aveva diciott'anni era dovuto andare a fare il servizio militare, e alla prima licenza era tornato a casa vestito da soldato; cosicché le donne e le ragazze del paese, a furia di dirgli "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", lo avevano fatto rimanere il Soldatino per sempre. Nei paesi, un soprannome conta molto di più del nome vero; ancora oggi, mi capita di vedere i manifesti mortuari affissi ai muri con dei nomi del tutto sconosciuti finché qualcuno non passa e dice: "Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma!"; allora capisco subito chi sia passato a miglior vita. E' successo così per tutti e per tutte; tranne che per una, Maria Barile. Si chiamava così per davvero; ma siccome era, giustappunto, un barile, quel suo cognome le aveva fatto anche da soprannome. Però bisognava dire "mariabarile" tutto attaccato, sennò non andava bene. Non si doveva chiamarla né "Maria", né "Barile".

Il Soldatino, come milioni di soldatini, a un certo punto era dovuto andare a fare la guerra. Mi raccontavano che era stato in Africa, a Tobruk, a Giarabub, a El Alamein. Contrariamente all'uso dei posti di mare, se n'era andato in fanteria; ma certuni assicurano che si vedevano degli elbani, di Marciana o del Poggio, persino negli alpini. Finita la guerra, non era tornato subito a casa; lo si rivide mesi e mesi dopo, e s'era riportato due cose. Una fotografia assieme al feldmaresciallo Rommel mentre gli stringeva la mano in mezzo al deserto, e una ragazza dalla carnagione olivastra, che non parlava l'italiano. Veniva dalle Isole Canarie, e dio solo sa dove mai, e in quale circostanza, l'avesse conosciuta. Ma ci devono essere, al mondo, di quegli amori che davvero non conoscono barriere; e così, dalle Canarie era approdata all'Elba assieme al suo Soldatino. Si chiamava Conchita.

Negra non era. Era, probabilmente, una guanchi, una discendente dell'antichissima popolazione delle Canarie, famosa per il suo "linguaggio fischiato" che poteva intendersi a chilometri di distanza, e con il quale, a forza di particolari modulazioni, gli isolani erano capaci di comunicarsi notizie importanti sulla caccia, sul tempo, su tutto quel che poteva servire. L'italiano lo aveva poi imparato, anche se aveva sempre mantenuto l'accento spagnolo; andava a servizio nelle case, dove era nota per la sua velocità nello sbrigare tutte le faccende. Le domandavano come facesse, e lei, seduta sull'uscio di casa, cominciava a parlare di un paesino dal nome strano dove, quando aveva sette anni, i genitori la lasciavano sola in casa a occuparsi di fare da mangiare e di badare a due fratellini di due e tre anni. Aveva imparato alla svelta a fare le cose.

Lui aveva lavorato per un po' come tuttofare. Uno di quelli che, quando si guasta la luce, s'intasa lo scarico o qualsiasi altra cosa, sapeva sempre come fare. Poi gli avevano offerto di occuparsi del faro del Poro, e s'era dovuto prendere il somaro. Io mi ricordo degli ultimi tre che aveva avuto. La somarina è l'ultima; nel frattempo Conchita faceva le sue faccende e, ogni tanto, diceva che le sarebbe piaciuto rivedere le Canarie anche per una volta sola. Non fu accontentata.

Un pomeriggio che stava sull'uscio di casa, disse che aveva mal di testa e s'alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua in cucina. Si sentì un tonfo; una trombosi fulminante. E così è rimasta per sempre all'Elba, in un cimitero dove le fanno compagnia altre ragazze capitate lì per chissà cosa. C'è un'irlandese, che a quarant'anni o poco più era volata di sotto da un burrone con la macchina. Una norvegese, o danese, che aveva un'edicola di giornali vicino alla Foce. E una slava, che la chiamavano "Zorro" perché di cognome faceva Zgrno; la cosa più pronunciabile che avesse un senso, insomma. A volte mi chiedo come ci si possa sentire, da donna, ad essere chiamata Zorro; ma non se ne dev'essere fatta un problema. Un giorno o l'altro tanto me la fo, la mia Spoon River personale; l'Antologia della Grotta, visto che il cimitero si chiama così. La Grotta.

Il Soldatino continuò a andare a accendere e spegnere il faro anche il giorno dei funerali della sua donna. Già, perché non s'erano mai sposati. Mai stato sposato, come ho detto all'inizio; si erano accompagnati, come si diceva allora. Stavano bene così. Nessun figliolo. C'era il somaro, e poi un altro, e poi la somarina che si fermava alle strisce pedonali. Come farà, come farà quando moio, diceva sempre; non ce l'ha fatta. Il Soldatino è morto e l'hanno sotterrato vicino a Conchita, ma non accanto perché il posto era già occupato e non si può dirgli certo, a un morto, di farsi in là. La somarina è morta esattamente dodici giorni dopo di lui. Me la ricordo che ci stava a guardare, in riva al mare, mentre io e un mio amico s'aiutava il Soldatino a costruire il moletto di Galenzana. O meglio, l'ha fatto lui, da solo; noi gli si portava gli attrezzi e gli s'andava in paese a prendere qualcosa se gli serviva. Però mi garba sempre dire che quel moletto l'ho fatto un po' anch'io, anche se non è vero.

Subito dopo fu messo, al faro, il dispositivo automatico. Lo avrebbero potuto mettere anche prima, ma si vede che, nei luoghi preposti, c'era ancora qualcuno che ci pensava due volte prima di levare due soldi a un vecchio. Sarà per questo che, ogni volta che lo vedo accendersi e baluginare nella notte, sento un raglio, e un fischio.

lunedì 10 dicembre 2007

Di lavoro non si deve più vivere

C'è una persona che, quando ne parlo o vi accenno qui dentro, chiamo sempre "un amico". Non c'è nessun bisogno di fare nomi. Oggi vorrei chiamarlo con una parola che ho una specie di assurdo pudore a utilizzare; lo vorrei chiamare un compagno. Perché io abbia questo pudore, sono fatti miei; ce l'ho e basta.

Ha scritto, oggi, sul suo blog, una cosa terribile come sanno essere terribili soltanto le cose vere. A proposito degli operai morti a Torino. Ha parlato di un palcoscenico giusto che un'altra dozzina di operai morti nel frattempo si sono persi, sculo loro. Nessuna sottoscrizione. Stamani mi ci sono persino svegliato, con la sottoscrizione. Ho acceso la tv, cosa che peraltro faccio di rado, e mi sono sentito della sottoscrizione del tg5 con tanto di bollettino di conto corrente postale.

Poi ho letto dei funerali degli operai di Torino, e del padre di uno di essi che ha urlato "Assassini". Che ha urlato "La pagherete". Dipende. Forse, pover'uomo, avrebbe fatto meglio, chissà, a urlare "Sottoscriverete". Tutti sottoscrivono. Da Prodi al tg5. "La Repubblica" fa l'appello on line, "Basta!" E, poi, tutti fanno silenzio. Minuti di silenzio. Il delegato della Fiom della Thyssen Krupp dice di fare silenzio per "sottolineare". Merita vedere che cosa costui intenda sottolineare.

Che "oggi non è la fine di una lotta, ma è l'inizio di una lunga battaglia per portare la sicurezza sui luoghi di lavoro". Sempre quel mio amico e compagno, qualche giorno fa, parlava di umorismo. Eccone un esempio perfetto. Questi riescono a fare umorismo persino ai funerali degli operai, degli operai che dovrebbero "rappresentare"; e il problema è che, forse, se ne rendono anche conto! Bevtinotti, pvesidente della cameva e fovse anche del bagno e della cucina. Lui dice che "Bisogna dare più potere ai rappresentanti sindacali". Per fare cosa? Per avere più minuti di silenzio? Più silenzio per tutti? Ma il culmine dell'umorismo, il Bevtinotti lo raggiunge più tardi, quando spiega perché bisognerebbe dare più potere ai rappresentanti sindacali: "Per la sicurezza e per l'ambiente".

Cazzo, ci eravamo scordati che l'incidente di Torino, così come decine di altri accadimenti del genere, non provocano soltanto morti, ma anche tanto fumo nero. Ci penseranno i rappresentanti sindacali con più potere, a soffiarlo via a base di minuti di silenzio e di lunghe battaglie per la sicurezza. Ci penserà Bevtinotti col suo ventilatore da camera. Lo stesso che, per concludere, ha tenuto a fare l'ennesimo peana del silenzio. "Bisogna rispettare il silenzio e non mi pare il caso di fare discussioni politiche". Certo che no. Ma quando mai? Qui non si parla di politica!

Poteva poi mancare a una sì ghiotta occasione il solito prete impegnato & mediatico? Poteva non fare la solita pappardella sull' "amore"? Sì, proprio come dice quel mio amico e compagno. Un palcoscenico. Nulla mancava alla recita.

La gente, che pur nell'insultare e nel fischiare i sindacalisti (ma perché lo fanno solo ai funerali?), dice loro "andate a lavorare". C'è qualcosa che non torna. Nulla torna. Nella "città che si stringe attorno alle vittime", nelle parate di gonfaloni, in tutto quanto. Arrivano persino bruttissimi pensieri quando si va a vedere che questi quattro operai morti erano tutti italiani, e magari si ripensa alle città che attorno a chi italiano non lo è si stringono in tutt'altro modo. Infine si torna al punto di partenza. Ma quale "sicurezza", ma quale "lunga battaglia". La battaglia è venuta meno quando tutti hanno cominciato a dare il culo al signor padrone, a "concertare" con lui invece di sabotargli gli impianti e di picchettargli la fabbrica fino a farlo cacare addosso.

L'insicurezza sul lavoro nasce da queste cose, non da un estintore scarico o da un macchinario malfunzionante. Soprattutto, l'insicurezza sul lavoro nasce dal lavoro stesso, e dalla sua ineluttabile accettazione. La Thyssen-Krupp non è mica più mostro degli altri. La Thyssen-Krupp è la normalità. La Thyssen-Krupp fa lavorare, e per questo, per questo semplicissimo motivo ha il diritto di uccidere, così come lo hanno il laboratorio di pelletteria, la cava di granito, il cantiere edile, il supermercato, l'ufficio. Anche l'ufficio. Di uccidere più o meno rapidamente. E' il lavoro che uccide.

E allora questa cosa ha un titolo ben preciso. Ripreso in maniera del tutto voluta da quel che ha scritto il mio amico e compagno sul suo blog nero. Saremo almeno in due a dire che di lavoro non si deve più vivere. Qualcuno, magari, si aggiungerà strada facendo.


domenica 9 dicembre 2007

Canzone dell'estraneo



Certo, tutti gli uomini che conoscevi

erano giocatori che dicevano di farla finita
col gioco, ogni volta che davi loro riparo.
Lo conosco, quel tipo d'uomini,
è difficile tenere le mani di qualcuno
che le mette in alto solo per arrendersi,
che le mette in alto solo per arrendersi.

Poi, raccattando tutti i jolly che s'è lasciato dietro,
scopri che non t'ha lasciato molto, neanche le risate.
Da buon giocatore stava cercando quella carta
così alta da esser buona per ogni giocata,
da non dover mai più giocarne un'altra:
non era che un Giuseppe in cerca di una mangiatoia,
non era che un Giuseppe in cerca di una mangiatoia.

E poi, sporgendosi al tuo davanzale,
un giorno ti dirà che sei stata tu
a indebolirlo col tuo amore, e il calore, e il rifugio.
Tirerà fuori dal portafoglio
un vecchio orario dei treni, e ti dirà:
Te l'avevo detto, al mio arrivo, che ero un estraneo
Te l'avevo detto, al mio arrivo, che ero un estraneo.

Ma ora sembra che un altro estraneo
voglia che tu ignori i suoi sogni
come fossero il fardello addosso a un altro.
L'hai già visto prima, quell'uomo
che dava le carte col suo braccio d'oro
ora arrugginito dal gomito alle dita,
vuole scambiare la sua mano di carte con un rifugio,
scambiare la mano di carte conosciuta con un rifugio.

E detesti vedere un altro uomo stanco
posare giù le sue carte
come abbandonasse il sacro gioco del poker.
E mentre dice ai suoi sogni di andare a dormire
ti accorgi che c'è una specie di autostrada
che si snoda come fumo sopra la sua spalla,
e all'improvviso ti senti un po' più vecchia.

E gli dici di entrare, di mettersi a sedere
ma c'è qualcosa che ti fa voltare,
la porta è aperta e non puoi chiudere il tuo rifugio.
Provi la maniglia della strada,
si apre, non avere paura,
e sei tu, amore mio, che sei l'estranea,
e sei tu, amore mio, che sei l'estranea.

Bene, ti aspettavo, ero sicuro
che ci saremmo incontrati tra i treni che attendevamo,
credo sia tempo di prenotarne un altro.
Ti prego di capire, non ho mai avuto una mappa segreta
per arrivare al cuore di questa o quella cosa;
e quando ti parla così non sai che stia cercando,
non t'importa nulla di che cosa stia cercando.

Incontriamoci domani, se ti va,
in riva al mare, sotto il ponte
in costruzione su qualche fiume infinito.
Poi lascia il binario
per il calore d'un vagone letto
e capisci che non fa che réclame a un altro rifugio,
e capisci che non era mai stato un estraneo,
e dici, Va bene il ponte o un altro posto, dopo.

Poi, raccattando tutti i jolly che s'è lasciato dietro,
scopri che non t'ha lasciato molto, neanche le risate.
Da buon giocatore stava cercando quella carta
così alta da esser buona per ogni giocata,
da non dover mai più giocarne un'altra.

E sporgendosi al tuo davanzale,
un giorno ti dirà che sei stata tu
a indebolirlo col tuo amore, e il calore, e il rifugio.
Tirerà fuori dal portafoglio
un vecchio orario dei treni, e ti dirà:
Te l'avevo detto, al mio arrivo, che ero un estraneo
Te l'avevo detto, al mio arrivo, che ero un estraneo.

Leonard Cohen, 1967.

Quella sera, eterna sera


Ho una cinquantina di canzoni che vorrei che mi seguissero nella famosa tomba. Certo che quella tomba, a sentire le cose che dichiaro periodicamente di volermici portare, dovrebbe rassomigliare più al magazzino d'un emporio che a un sepolcro. Fra canzoni, libri, oggetti e ogni altra cosa, ci vorrebbe quantomeno una tomba tripla; non so se la cosa mi verrà concessa. Magari gli altri morti si potrebbero pure incazzare.

Così, delle cose che si vorrebbero portare nella tomba è sempre meglio parlarne in vita, ché non si sbaglia mai a essere vivi prima di morire. Questa canzone, appunto. Un'altra canzone di Piero Ciampi che parla di quella che era la sua città, ed anche la mia per cinque anni. E di quei cinque anni, questa canzone sarà una delle cose che mi resterà per sempre.

Non solo perché a tre passi dalla casa in cui Piero Ciampi era nato, io ci abitavo. Non solo perché uscivo di casa e la statua nella piazza ce l'avevo davanti agli occhi dopo un minuto di passi. Via Garibaldi, piazza Garibaldi. Era diventato una specie di pellegrinaggio notturno, durante le mie camminate senza nulla e con uno sguardo come un coltello; anche se avevo deciso di andare nel senso opposto, verso via Palestro o verso il Cisternone, prima passavo da piazza Garibaldi a dare un'occhiata alla statua. Che faceva cacare, come quasi tutte le statue (sarà per questo che sono così amate dai piccioni?); ma era quella statua.

Quando ripenso a quella mia specie di identificazione con Piero Ciampi, qualche volta mi scappa da ridere; anche perché cosa cazzo vuoi identificare. Lui era altissimo, ma anche magrissimo; io magrissimo lo sono stato solo a tredici anni. Sapeva perlomeno suonare uno strumento, io non so suonare nemmeno il campanello di casa. Sul passaporto ci aveva scritto "poeta", e io ci ho scritto "interprete e traduttore". Lui amava giocare ai cavalli, io non compro nemmeno i gratta e vinci. Insomma, lui aveva tutte le carte in regola per essere un artista, io ce le ho tutte quante per essere una gran testa di cazzo. E ci sto pure riuscendo!

Qualche cosina in comune, però, magari ce la avevamo davvero; o almeno così mi garbava di pensare. L'odio verso il lavoro. Il bere, sebbene neanche in quei cinque anni di alcool mi sia mai permesso di pensare di poter competere con lui. Un'espressione degli occhi che lui aveva fissa, e che a me viene soltanto poche volte: lo sguardo perso elegantemente e con una dura dolcezza nel vuoto dell'oltre (ci si rende conto degli sguardi che si ha, se ci si fa l'abitudine ma a condizione di coglierli e basta, e di non forzarli per alcuna ragione). E quelle camminate senza nulla. Questa canzone parla di una di quelle camminate. Lo metterò il testo, da qualche parte. Ora ve la voglio raccontare, con parole mie. Si chiama come la città. Livorno.

Comincia subito male per me, perché c'è un pianto che si scioglie. Non sono quel che si definisce un lacrimatore. Non mi piace averci la gola secca, ma non mi curo molto delle ghiandole lacrimali. Non dico di non avere mai pianto, sarebbe una menzogna. Ma con molta parsimonia. Il beneficio, è che mi ricordo di tutte le volte che l'ho fatto; però, subito dopo, viene la statua nella piazza.

Di fronte alla piazza della statua, ci sono i fossi e gli Scali delle Cantine. La scala che scende al fosso con le barche ancorate, i gatti randagi ai quali una volta, senza nessun pentimento, sacrificai un maglione di gran marca, uno dei pochi che abbia mai avuto, per avvolgere e mettere al caldo una cucciolata. Era una delle scuse per uscire, quella, portare da mangiare ai gatti. A volte ci mettevo cinque ore. Tanto che c'ero ci potevo mettere dodici anni, mica è detto che debba essere sempre per comprare le sigarette. E sono immagini quasi sempre invernali. Per quanto mi sforzi, Livorno continuo a rivedermela d'inverno, intabarrato nel mio spigato perduto in altre nebbie (e anche quello avrebbe dovuto seguirmi nella tomba).

Questa canzone parla di un uomo abbandonato. Non solo da una donna, abbandonato da tutti e da ogni cosa. Chi prova questo tipo di sensazione, anche soltanto per un periodo della sua vita, si mette immediatamente a camminare da solo. Cerca di incontrare qualcuno. Gli rimane solo la speranza nell'incontro casuale che possa cambiargli la vita. Può accadere in qualsiasi momento, è dietro l'angolo; è così si fa una collezione interminabile di angoli che non hanno proprio nessun dietro.

La vita che si sceglie è il sogno di una pazza, dice la canzone. Chissà cosa sognano le pazze. Magari fanno sogni normalissimi, oppure i sogni sono semplicemente pazzi per definizione, anche quelli delle persone sane di mente. Si sceglie? O ogni cosa che si crede scelta è un'illusione? Oppure l'unica cosa che si sceglie veramente, è illudersi? Fatto sta che ci si mette a camminare, una volta calata la sera. Mai di giorno, e mai d'estate; se si deve incontrare qualcuna come te, bisogna che sia in una sera d'inverno, con l'umido di Livorno al posto di quella che in altre plaghe sarebbe stata la nebbia.

Poi c'è il ritornello, quello che mi cantavo sempre. Ci avevo una persona, una persona ben precisa in testa. Una persona persa già allora da non so quant'anni, e ce n'è voluto di tempo perché se ne andasse via dalla mia mente, c'è voluto l'incontro con qualcuna più di lei. Triste triste quella sera. Tristi tristi tutte le sere, o quasi; tristi e lunghissime. Sere che diventavano notti profonde, a camminare, chilometri, i portici di via Grande, le strade della Venezia, il porto, il viale Italia fino ai cantieri Orlando; e risalire per il centro, per Corso Amedeo, per il Borgo Cappuccini, e tutti gli stratagemmi di distrazione. Chissà quali saranno stati quelli di Piero Ciampi. Io avevo, ed ho, tutto il mio set. Imparare a memoria i nomi delle strade, dopo cinque giorni che abitavo a Livorno ero già in grado di dare indicazioni stradali ai livornesi. Le targhe delle macchine, ma quelle vecchie con la sigla e le sei cifre; quelle nuove mi fanno schifo. I numeri strani. Mi ricordo di quando in via della Pina d'Oro vidi la targa LI 444444, quasi un momento di gloria.

E la tristezza. Ho sempre amato gli ossimori e le agudezas. La tristezza arriva a un certo punto a traboccare nel divertimento. Quando sei talmente triste da superare il momento dell'inconscio per renderti invece conto dei disastri che stai vivendo, subentra una sorta di gioco, il gioco del vedersi triste e di compiacersene con tutti i suoi corollari. E' quello che accade quando si passa all'ironia, al prendersi in giro, ai sorrisi solitari e più o meno amari. Questi sono segni inequivocabili. Quando si è inconsciamente tristi, senza ancora nessun tipo di gioco, non si è per nulla ironici. Si è cupi. Ci si incazza per un nonnulla.

Successe che a forza di cantarmela, questa canzone, ogni sera, lunga sera, non seppi nemmeno più se fosse tutto vero o se stessi recitando. Ho trovato una nave che salpava, dice; questione di pochi metri, a Livorno. Di navi che salpavano ce n'erano quante ne volevo, anche a sera e a notte. Mi mettevo a guardarle e a immaginare storie, e non so neppure io quante delle storie che ho raccontato, anche senza mai scriverle, sono nate in quei momenti. Sono la mia fonte inesauribile. Anche stanotte. Di scrivere qualcosa su questa canzone l'ho immaginato allora.

Però non ho mai potuto seguirla fino in fondo. Non ho mai chiesto a nessuno dove andasse quella nave che salpava, nessun capitano mi ha mai risposto in Corsica, in Tunisia, all'Elba, a Genova, in Giappone. Nessun porto delle illusioni. Stavo soltanto lì a guardare, e quelle navi dovevano forse essere un modo per comunicare. Una sera, poco prima della Piola del 30 marzo 2002, quella cosa che da Livorno mi portò via, durante una delle mie ultime camminate incontrai una donna. Curiosamente si chiamava come la mia ex moglie, lo stesso nome. La incontrai persino allo stesso locale dove, qualche giorno dopo, si sarebbe svolta quella cosa. Beveva come una spugna pure lei. Avevo addosso lo spigato. Le parlai del Western Pearl e rideva dicendomi dé ma allora se' proprio ir mi' topo. Si finì a fare l'amore dietro a un portone, in via Tonci, in piedi. E non l'ho mai più rivista.

Può essere che la cerchi pure io, la chimera. Anche senza camminare. Mi trovo in un periodo che avrebbe tutte le carte in regola per essere come quello. Ma non cammino più. Perlomeno non a quel modo. Sto tranquillo. Bevo pochissimo, a parte una sera ogni sette o dieci giorni in via del Ponte alle Mosse. Niente più giocare alla tristezza, forse sono cambiato e non mi voglio nemmeno chiedere se sia un bene o se sia un male. Non voglio incontrare qualcuna come te, non me ne frega un cazzo. Tocca a te, stavolta, incontrare qualcuno come me. Mi sono rotto i coglioni di consumarmi le suole, le scarpe costano un occhio della testa e porto il 48 di piede.

Ma la chimera c'è sempre. Anche senza porto. Anche senza navi. Anche senza statue nelle piazze. Sai, Livorno di Piero Ciampi, una volta m'è capitato di cantarti guardando dalla finestra. Davanti a me c'era un amico che mi ascoltava senza dire nulla. Ero nella cucina di casa. Qualche volta ti canto ancora, tipo stasera, proprio mentre sto scrivendo questa cosa. Ti canto come si canta una sorella. Qui vicino a questa che sarà ancora per poco la mia casa, hanno pensato bene di fare una strada nuova; l'hanno chiamata via della Chimera. Si vede che ci sei, da qualche parte. Si vede che, prima o poi, una sera, un'eterna sera, ci troveremo. Magari scopriremo persino che abbiamo la stessa faccia.

sabato 8 dicembre 2007

Pacchetti


A Torino si muore in fabbrica. A Cassino si muore in fabbrica. In Irpinia si muore in fabbrica. E ovunque si muore sulla merda del lavoro, nei cantieri edili, nelle cave, nei laboratori, nelle acciaierie, nelle raffinerie. Si muore in modo orrendo. Si muore operai. Si legge di estintori semivuoti, di idranti senz'acqua, e tutto questo in una fabbrica dove già cinque anni fa aveva preso fuoco un treno di laminazione non provocando una strage solo per puro caso. Stavolta la strage c'è stata. Ma è una strage quotidiana.

Intanto lorsignori si approvano i loro "pacchetti sicurezza". Litigandoci pure sopra, persino quella che chiamano "sinistra radicale". E' una curiosa parola, questa "sicurezza", e ci sarebbe da ragionarci sopra un bel po'; ma stasera non me la sento proprio. Dico solo che ci avrei una gran voglia di pigliarlo, quel loro "pacchetto", e di ficcarglielo nel culo avvolto nella carta vetrata. Non sarebbe più tempo di discussioni o di gentilezze, questo. Tempo scaduto. La "sicurezza" che questi farabutti ammanniscono è quella che trasforma le nostre città e la nostra vita in un'immensa sorveglianza, in un'infinita polizia. La sicurezza di chi lavora non rientra in questi ambiti.

Cosa fanno, poi? Non hanno neppure il pudore di non prendere per il culo. Vanno a vedere la prima alla Scala e fanno il "minuto di silenzio". Napolitano che prima dice "fermiamo la strage!" per poi lanciarsi in sperticati elogi alla bravura del direttore d'orchestra e dei cantanti lirici. Napolitano! I cordogli! La Scala! Pensate come sarebbe stato, stasera, un bel lancio di uova marce! Le fasce nere al braccio durante i "tre giorni di lutto". E anche in quei tre giorni, come nei restanti trecentosessantadue, si para il sedere al Covdevo di Montestronzolo e al padronato. Io mi chiedo: ma ancora si ha il coraggio di credere a questa gente? Ancora si ha il coraggio di credere allo stato, di domandargli qualcosa, di chiedergli "giustizia", di andare a avallare la sua merda con il voto?

Ma non mi riesce augurarmi più niente, né sperare in qualcosa. Neppure che i compagni di lavoro di quei quattro ragazzi morti a Torino (la "fabbrica dei ragazzi", la chiamano), invece di mettersi le fasce nere al braccio, si dedichino a distruggergliela, quella fabbrica di morte. Non lo faranno. Torneranno a lavorare ai treni di laminazione finché qualcun altro non sarà trasformato in una torcia umana. Bisogna lavorare. Bisogna concertare. Bisogna delegare a sindacati che non hanno più nemmeno una finzione di lotta.

Accade in questo paese schifoso, in questo paese di precariato senza speranza, in questo paese razzista dove ci sono i consiglieri comunali che invocano i metodi delle SS, persino davanti a altri consiglieri "sinistri radicali" che ascoltano e tacciono. In questo paese dove si ragiona di governi e governicchi, di "leggi elettorali" tedesche, spagnole o neozelandesi. In questo paese dove alla "politica" di questi figuri si contrappone l' "antipolitica" dei beppigrilli. In questo paese dove l'unica "giustizia" riconosciuta è quella infinita dei parenti di certe vittime.

I sindacati confederali che annunciano per i prossimi giorni "importanti iniziative per la sicurezza, affinché questa strage finalmente si arresti". Si arrestino invece le fabbriche, le catene, i treni di laminazione, tutto quanto. Si spenga tutto. Si ricominci a far venire sudori freddi al signor padrone, invece di "concertare". Si crei e si metta in atto un pacchetto insicurezza, l'unica garanzia vera per fermare la morte. Si riprendano le città. Si capisca una volta per tutte che questi sono la morte, che ci stanno ammazzando tutti. Si riprenda la vita, e la si riprenda con la forza.



lunedì 3 dicembre 2007

L'amico eschimese


Stanotte m'è toccato di farla bianca, ma non certo nel senso delle kermesses che da qualche tempo si svolgono nelle grandi città europee. Lavorare. La famosa "consegna mattutina urgente" di un'appassionante traduzione di tredici certificati di collaudo di tubi d'acciaio. E così, ecco di nuovo il necessario corredo del traduttore notturno: caffettiera piena, tabacco, e un po' di musica a volume bassissimo a tenere compagnia. Ci ho fatto le sette e mezzo di mattina; e quando si fa quell'ora senza dormire, a letto è meglio non andarci. Si tiene almeno fino al pomeriggio; alle quattro e un quarto ci sono andato. E i sonni pomeridiani sono cose strane. Mi devo essere addormentato subito, sfinito. E ho sognato l'inizio di un nuovo amore, senza più volti consueti, ma in quella specie di meravigliosa e indefinibile ebbrezza che si vive in quei momenti. Nei minimi particolari, a conoscenza avvenuta da poco tempo, durante un momento di una quotidianità di cui è raro accorgersi quando la si vive, e che si rimpiange quando non la si vive più.

C'erano tutti gli ingredienti necessari per la ricetta. I sorrisi e gli slanci, le parole e gli sguardi, la reciproca voglia di conoscere i luoghi cari all'uno e all'altra, i progetti di andarli a vedere in vacanze che già s'immaginano bellissime, insieme, a godere delle piccole e grandi meraviglie di due vite che la sorte ha fatto incontrare. È qui, è in questo scenario, che è intervenuta l'imponderabile bizzarria; una canzone. In tutto questo sogno anelante alla novità, si è introdotta una vecchia canzone, e non una qualsiasi. Una specie di simbolo di cose passate, anche se talmente recenti da sembrare oramai vecchie di secoli.

Ce ne stavamo, io e questo mio nuovo amore onirico, a sedere su un muretto di campagna che poi, da sveglio, ho individuato alla perfezione: quello che sta sotto a un'antica torre nei dintorni di Mercatale val di Pesa. Luciana si chiama quel posto, come mia madre; un luogo che, per me, è una notte di San Lorenzo passata steso su un prato assieme ad un amico, a ragionar di niente, di tutto e d'altre stelle; e anche un pomeriggio di luglio in cui, proprio su quel muretto, mi capitò di farci un'altra cosa, nemmeno stavolta da solo. Nelle cose nuove, insomma, erano comunque intervenuti la propria vita e i propri ricordi.

Ora, si dà il caso che, da sveglio, io conosca alla perfezione quella canzone, che la sappia cantare a memoria, compresa la sua parte in finlandese. E' una canzone di Damien Rice, Eskimo, il cui ritornello è formato dalla semplice ripetizione di una frase in crescendo: I look to my Eskimo friend, ricorro al mio fratello eschimese. Io e quel mio nuovo amore che non c'è ce ne stavamo a chiacchierare appoggiati al muretto, quando ho cominciato a cantare. Un mio gesto normale, perché io canto ovunque, senza nessun timore. In mezzo di strada, in coda alla cassa del supermercato, mentre cammino. Nonostante tutto, o nonostante niente, mi canta ancora dentro; a diciassette anni e mezzo non solo non si è mai troppo seri, ma si canta. Di continuo. Spudoratamente. Fregandosene d'ogni cosa.

Il sogno si occupa anche di mettere in atto una delle cose più tipiche di amore che nasce: la scoperta, la sorpresa. Ma stai cantando Eskimo di Damien Rice!, dice lei illuminandosi. Lo conosci?, dico io con una faccia quasi buffa. Lo adoro…dai cantamela tutta. Tutta quanta; e obbedisco più che volentieri, sbagliando il ritornello. Nel sogno; ma che era un sogno lo si sa sempre dopo, quando è finito, quando si è magari alla tastiera di un computer a raccontarlo. In quel momento ho sbagliato il ritornello. Cantavo I hope in my Eskimo friend, spero nel mio amico eschimese, e lo ripetevo anche; e sono stato corretto. Con aria interrogativa, lei mi dice: Ehi, Riccardo, non dice così. Dice I look, non I hope. I look to my Eskimo friend. Hai ragione, perdio. Mi interrompo. Ma non ricomincio a cantare, non ce la faccio. Il sogno mi aveva comandato di sperarci, nell'amico eschimese, non di ricorrervi. Lei si accorge del mio strano imbarazzo e mi abbraccia. Mai mi era capitato, a mia memoria, di sbagliare in un sogno il verso di una canzone; in sogno ho cantato una volta, e con la perfezione dei sogni, tutta A coloro che verranno di Bertolt Brecht su una musica inesistente, composta dal mio sonno, che poi non mi è mai più riuscito di ricordarmi. Il sogno se l'è voluta tenere.

Mi sono svegliato poco dopo, anche se il tempo dei sogni non lo si calcola mai esattamente. Ma il ricordo del sogno è finito lì. Ho acceso la lampada con gli occhi ancora impastati. Accanto a me il libro che stavo leggendo prima di addormentarmi, perché, seppure sfinito, ho sempre bisogno di leggere tre righe prima di addormentarmi. Capita di ridestarsi nella delusione, quando il sogno ti ha portato cose belle; il vantaggio di un'età un po' più matura è quello di trarne, o di cercar di trarne, qualcosa che stemperi la delusione nel presagio o nella speranza. Probabilmente è proprio questo, ciò che voleva dirmi il mio amico eschimese. Di sperare, sempre. Mi è venuto a far visita in quelle lande nitidamente nebulose mandandomi un bel sogno di speranza, anche a costo di farsi sbagliare la sua canzone. È come la famosa caramella Big Frut. Non basta, ma aiuta.