Ho una cinquantina di canzoni che vorrei che mi seguissero nella famosa tomba. Certo che quella tomba, a sentire le cose che dichiaro periodicamente di volermici portare, dovrebbe rassomigliare più al magazzino d'un emporio che a un sepolcro. Fra canzoni, libri, oggetti e ogni altra cosa, ci vorrebbe quantomeno una tomba tripla; non so se la cosa mi verrà concessa. Magari gli altri morti si potrebbero pure incazzare.
Così, delle cose che si vorrebbero portare nella tomba è sempre meglio parlarne in vita, ché non si sbaglia mai a essere vivi prima di morire. Questa canzone, appunto. Un'altra canzone di Piero Ciampi che parla di quella che era la sua città, ed anche la mia per cinque anni. E di quei cinque anni, questa canzone sarà una delle cose che mi resterà per sempre.
Non solo perché a tre passi dalla casa in cui Piero Ciampi era nato, io ci abitavo. Non solo perché uscivo di casa e la statua nella piazza ce l'avevo davanti agli occhi dopo un minuto di passi. Via Garibaldi, piazza Garibaldi. Era diventato una specie di pellegrinaggio notturno, durante le mie camminate senza nulla e con uno sguardo come un coltello; anche se avevo deciso di andare nel senso opposto, verso via Palestro o verso il Cisternone, prima passavo da piazza Garibaldi a dare un'occhiata alla statua. Che faceva cacare, come quasi tutte le statue (sarà per questo che sono così amate dai piccioni?); ma era quella statua.
Quando ripenso a quella mia specie di identificazione con Piero Ciampi, qualche volta mi scappa da ridere; anche perché cosa cazzo vuoi identificare. Lui era altissimo, ma anche magrissimo; io magrissimo lo sono stato solo a tredici anni. Sapeva perlomeno suonare uno strumento, io non so suonare nemmeno il campanello di casa. Sul passaporto ci aveva scritto "poeta", e io ci ho scritto "interprete e traduttore". Lui amava giocare ai cavalli, io non compro nemmeno i gratta e vinci. Insomma, lui aveva tutte le carte in regola per essere un artista, io ce le ho tutte quante per essere una gran testa di cazzo. E ci sto pure riuscendo!
Qualche cosina in comune, però, magari ce la avevamo davvero; o almeno così mi garbava di pensare. L'odio verso il lavoro. Il bere, sebbene neanche in quei cinque anni di alcool mi sia mai permesso di pensare di poter competere con lui. Un'espressione degli occhi che lui aveva fissa, e che a me viene soltanto poche volte: lo sguardo perso elegantemente e con una dura dolcezza nel vuoto dell'oltre (ci si rende conto degli sguardi che si ha, se ci si fa l'abitudine ma a condizione di coglierli e basta, e di non forzarli per alcuna ragione). E quelle camminate senza nulla. Questa canzone parla di una di quelle camminate. Lo metterò il testo, da qualche parte. Ora ve la voglio raccontare, con parole mie. Si chiama come la città. Livorno.
Comincia subito male per me, perché c'è un pianto che si scioglie. Non sono quel che si definisce un lacrimatore. Non mi piace averci la gola secca, ma non mi curo molto delle ghiandole lacrimali. Non dico di non avere mai pianto, sarebbe una menzogna. Ma con molta parsimonia. Il beneficio, è che mi ricordo di tutte le volte che l'ho fatto; però, subito dopo, viene la statua nella piazza.
Di fronte alla piazza della statua, ci sono i fossi e gli Scali delle Cantine. La scala che scende al fosso con le barche ancorate, i gatti randagi ai quali una volta, senza nessun pentimento, sacrificai un maglione di gran marca, uno dei pochi che abbia mai avuto, per avvolgere e mettere al caldo una cucciolata. Era una delle scuse per uscire, quella, portare da mangiare ai gatti. A volte ci mettevo cinque ore. Tanto che c'ero ci potevo mettere dodici anni, mica è detto che debba essere sempre per comprare le sigarette. E sono immagini quasi sempre invernali. Per quanto mi sforzi, Livorno continuo a rivedermela d'inverno, intabarrato nel mio spigato perduto in altre nebbie (e anche quello avrebbe dovuto seguirmi nella tomba).
Questa canzone parla di un uomo abbandonato. Non solo da una donna, abbandonato da tutti e da ogni cosa. Chi prova questo tipo di sensazione, anche soltanto per un periodo della sua vita, si mette immediatamente a camminare da solo. Cerca di incontrare qualcuno. Gli rimane solo la speranza nell'incontro casuale che possa cambiargli la vita. Può accadere in qualsiasi momento, è dietro l'angolo; è così si fa una collezione interminabile di angoli che non hanno proprio nessun dietro.
La vita che si sceglie è il sogno di una pazza, dice la canzone. Chissà cosa sognano le pazze. Magari fanno sogni normalissimi, oppure i sogni sono semplicemente pazzi per definizione, anche quelli delle persone sane di mente. Si sceglie? O ogni cosa che si crede scelta è un'illusione? Oppure l'unica cosa che si sceglie veramente, è illudersi? Fatto sta che ci si mette a camminare, una volta calata la sera. Mai di giorno, e mai d'estate; se si deve incontrare qualcuna come te, bisogna che sia in una sera d'inverno, con l'umido di Livorno al posto di quella che in altre plaghe sarebbe stata la nebbia.
Poi c'è il ritornello, quello che mi cantavo sempre. Ci avevo una persona, una persona ben precisa in testa. Una persona persa già allora da non so quant'anni, e ce n'è voluto di tempo perché se ne andasse via dalla mia mente, c'è voluto l'incontro con qualcuna più di lei. Triste triste quella sera. Tristi tristi tutte le sere, o quasi; tristi e lunghissime. Sere che diventavano notti profonde, a camminare, chilometri, i portici di via Grande, le strade della Venezia, il porto, il viale Italia fino ai cantieri Orlando; e risalire per il centro, per Corso Amedeo, per il Borgo Cappuccini, e tutti gli stratagemmi di distrazione. Chissà quali saranno stati quelli di Piero Ciampi. Io avevo, ed ho, tutto il mio set. Imparare a memoria i nomi delle strade, dopo cinque giorni che abitavo a Livorno ero già in grado di dare indicazioni stradali ai livornesi. Le targhe delle macchine, ma quelle vecchie con la sigla e le sei cifre; quelle nuove mi fanno schifo. I numeri strani. Mi ricordo di quando in via della Pina d'Oro vidi la targa LI 444444, quasi un momento di gloria.
E la tristezza. Ho sempre amato gli ossimori e le agudezas. La tristezza arriva a un certo punto a traboccare nel divertimento. Quando sei talmente triste da superare il momento dell'inconscio per renderti invece conto dei disastri che stai vivendo, subentra una sorta di gioco, il gioco del vedersi triste e di compiacersene con tutti i suoi corollari. E' quello che accade quando si passa all'ironia, al prendersi in giro, ai sorrisi solitari e più o meno amari. Questi sono segni inequivocabili. Quando si è inconsciamente tristi, senza ancora nessun tipo di gioco, non si è per nulla ironici. Si è cupi. Ci si incazza per un nonnulla.
Successe che a forza di cantarmela, questa canzone, ogni sera, lunga sera, non seppi nemmeno più se fosse tutto vero o se stessi recitando. Ho trovato una nave che salpava, dice; questione di pochi metri, a Livorno. Di navi che salpavano ce n'erano quante ne volevo, anche a sera e a notte. Mi mettevo a guardarle e a immaginare storie, e non so neppure io quante delle storie che ho raccontato, anche senza mai scriverle, sono nate in quei momenti. Sono la mia fonte inesauribile. Anche stanotte. Di scrivere qualcosa su questa canzone l'ho immaginato allora.
Però non ho mai potuto seguirla fino in fondo. Non ho mai chiesto a nessuno dove andasse quella nave che salpava, nessun capitano mi ha mai risposto in Corsica, in Tunisia, all'Elba, a Genova, in Giappone. Nessun porto delle illusioni. Stavo soltanto lì a guardare, e quelle navi dovevano forse essere un modo per comunicare. Una sera, poco prima della Piola del 30 marzo 2002, quella cosa che da Livorno mi portò via, durante una delle mie ultime camminate incontrai una donna. Curiosamente si chiamava come la mia ex moglie, lo stesso nome. La incontrai persino allo stesso locale dove, qualche giorno dopo, si sarebbe svolta quella cosa. Beveva come una spugna pure lei. Avevo addosso lo spigato. Le parlai del Western Pearl e rideva dicendomi dé ma allora se' proprio ir mi' topo. Si finì a fare l'amore dietro a un portone, in via Tonci, in piedi. E non l'ho mai più rivista.
Può essere che la cerchi pure io, la chimera. Anche senza camminare. Mi trovo in un periodo che avrebbe tutte le carte in regola per essere come quello. Ma non cammino più. Perlomeno non a quel modo. Sto tranquillo. Bevo pochissimo, a parte una sera ogni sette o dieci giorni in via del Ponte alle Mosse. Niente più giocare alla tristezza, forse sono cambiato e non mi voglio nemmeno chiedere se sia un bene o se sia un male. Non voglio incontrare qualcuna come te, non me ne frega un cazzo. Tocca a te, stavolta, incontrare qualcuno come me. Mi sono rotto i coglioni di consumarmi le suole, le scarpe costano un occhio della testa e porto il 48 di piede.
Ma la chimera c'è sempre. Anche senza porto. Anche senza navi. Anche senza statue nelle piazze. Sai, Livorno di Piero Ciampi, una volta m'è capitato di cantarti guardando dalla finestra. Davanti a me c'era un amico che mi ascoltava senza dire nulla. Ero nella cucina di casa. Qualche volta ti canto ancora, tipo stasera, proprio mentre sto scrivendo questa cosa. Ti canto come si canta una sorella. Qui vicino a questa che sarà ancora per poco la mia casa, hanno pensato bene di fare una strada nuova; l'hanno chiamata via della Chimera. Si vede che ci sei, da qualche parte. Si vede che, prima o poi, una sera, un'eterna sera, ci troveremo. Magari scopriremo persino che abbiamo la stessa faccia.