mercoledì 16 gennaio 2008

Poesie d'amqualcosa


Ogni tanto bisogna pagare un debito alle poesie d'amore. Sono, probabilmente, tutte quante ridicole come delle lettere d'amore diceva Pessoa; e ancor più probabilmente, non sarebbero d'amore se non fossero ridicole. Ma di un debito si tratta, quando son cose che accompagnano, nel bene e nel male, una vita intera; e i debiti è sempre bene pagarli, prima o poi. Domani pomeriggio, per esempio, o al massimo venerdì mattina, monterò su un treno per pagarne uno; stasera, invece, piglio tre poesie d'amqualcosa che dei miei sgangherati anni sono state parte.

La prima è il sonetto XIV di Louise Labé.

Finché i miei occhi potranno sparger lacrime
A rimpiangere i momenti con te passati,
Finché resistere ai singhiozzi ed ai sospiri
Potrà la mia voce, e un po' farsi sentire,
Finché la mia mano potrà tender le corde
Del liuto sordo per cantare le tue grazie,
Finché lo spirito ce la farà a contentarsi
Di non voler nient'altro ch'esser pieno di te,
Io ancora non desidero morire.
Ma quando sentirò avvizzirmi gli occhi,
La voce rompersi, e la mano impotente,
E la mia mente, in questo viver mortale
Non potrà più mostrar segno d'amore,
Venga la morte, e anneri il giorno chiaro.

Di Louise Labé, nata attorno al 1524 e morta nel 1566, non si sanno molte cose. Qualcuno ne ha messo in dubbio persino la reale esistenza. Fu detta la "bella cordaia" perché figlia di ricchi mercanti di cordame lionesi. Considerata per le sue composizioni una sorta "protofemminista", di lei si diceva che sapesse tirar di scherma e cavalcare come un nobiluomo. Il tizio per il quale Louise Labé scrisse questi versi si chiamava forse Olivier De Magny. Una volta ho preso questa poesia, l'ho trascritta con la mia migliore calligrafia (e la ho, credetemi, molto bella) su un biglietto firmandomi improbabilmente "Dott. Martora". Biglietto spedito, ma non si sa se sia arrivato.

La seconda è, si pensi un po', di Vincenzo Monti. Magari non s'immaginerebbe che il gran traduttor de' traduttor d'Omero potesse scrivere una poesia come questa, e molti anni fa non lo immaginavo neppure io. Poi la lessi. Fa così:

Oh come del pensier batte alle porte
questa fatale immago e mi persegue!
Come d’incontro mi s’arresta immota,
e tutta tutta la mia mente ingombra!
Chiudo ben io per non mirarla i rai,
e con ambe le man la fronte ascondo;
ma su la fronte e dentro i rai la veggio
un’altra volta comparir, fermarsi,
riguardarmi pietosa e non far motto.
Le braccia allargo, e prono in su le piume
cader mi lascio colla bocca e il petto;
ma l’immago dagli occhi non s’invola;
anzi s’accosta, e par che ciglio a ciglio,
gote a gote congiunga, e tal poi meco
reclini il capo e s’abbandoni al sonno.

Fu grande amico di Ugo Foscolo (che il sottoscritto, adoratore delle contrepèteries, chiama regolarmente Fosco Ùgolo); poi l'amicizia finì per motivi impossibili da indagare. E non ci sarebbe comunque nulla da indagare: cose loro. Cominciarono a scambiarsi epigrammi sanguinosi, e nei salotti dell'epoca infuriò la rivalità. Sul finire della vita di entrambi, però, ridiventarono amici. Un tempo, le poesie me le trascrivevo tutte a mano; questa finì su un album di fotografie, mentre una figura scendeva dalle scale di un angiporto di una vecchia città di mare. La foto non c'è più sull'album; è rimasta la poesia. E con lei, per quegli squisiti assurdi della memoria, anche l'immagine esatta di quella foto, impressa, non cancellabile.

La terza, e ultima, è di Dino Campana. S'intitola, in francese, Une femme qui passe.

Andava. La vita s'apriva
Agli occhi profondi e sereni?
Andava lasciando un mistero
Di sogni avverati ch'è folle sognare per noi
Solenne ed assorto il ritmo del passo
Scandeva il suo sogno
Solenne ritmico assorto
Passò. Di tra il chiasso
Di carri balzanti e tonanti serena è sparita
Il cuore or la segue per una via infinita
Per dove da canto a l'amore fiorisce l'idea.
Ma pallido cerchia la vita un lontano orizzonte.

Prima c'erano dei ricordi. Qui non ce n'è uno particolare, tranne una pagina su un libro letteralmente smangiato, scompaginato, distrutto. La poesia quasi non si legge più da com'è ridotta la pagina. A un certo punto ho smesso persino di rimettere in ordine i fascicoli casualmente squinternati di quel povero tascabile; tutto è tenuto legato alla copertina con un elastico. Così in generale; tenuti assieme da un elastico.

2 commenti:

Riccardo Venturi ha detto...

Questo è il testo originale della poesia di Louise Labé. Appare anche nell'immagine, ma magari qualcuno ha difficoltà coi caratteri di stampa cinquecenteschi. E' tratto dalla pagina 118 delle Oeuvres del 1555.

Sonnet .xiiii.
Louise Labé

Tant que mes yeux pourront larmes espandre,
A l'heur passé avec toy regretter :
Et qu'aus sanglots et soupirs resister
Pourra ma voix, et un peu faire entendre :

Tant que ma main pourra les cordes tendre
Du mignart Lut, pour tes graces chanter :
Tant que l'esprit se voudra contenter
De ne vouloir rien fors que toy comprendre :

Je ne souhaitte encore point mourir.
Mais quand mes yeus je sentiray tarir,
Ma voix cassee, et ma main impuissante,

Et mon esprit en ce mortel sejour
Ne pouvant plus montrer signe d'amante :
Prirey la Mort noircir mon plus cler jour.

LAURA ha detto...

come la vita
tenuta insieme da un elastico