martedì 8 gennaio 2008

Sto ridendo ancora



Non so voi; ma, per me, il 7 gennaio è una giornata gloriosa. Finalmente seppellite, anche per questa volta, 'ste maledette "feste di fine anno". Non c'è nulla da fare; le detesto. Non voglio nemmeno andare ad occuparmi dei massimi sistemi, le odio e basta; stamani ho visto con piacere, tornando a casa dal turno di notte al 118, la scomparsa di palle palline festoni alberelli e quant'altro. Ho visto una squadra di operai al lavoro per smontare le stupidissime luminarie stradali; svanita come per miracolo la cosa che in assoluto mi fa più ribrezzo, i babbinatale che danno la scalata alle finestre e alle terrazze. Un normalissimo lunedì, un giorno feriale, un giorno qualsiasi. Adoro i giorni qualsiasi.

Mi è capitato di leggere un bellissimo post dell'amico Redshadow, sul suo blog Minimi Termini, intitolato Pane e cipolla. Sono cose che, almeno a me, fanno bene al cuore. Sono cose che non posso che sottoscrivere "in toto", senza cambiare neppure una virgola. Sono cose scritte come solo Red sa fare e che, a rigore, renderebbero del tutto inutile questo mio post (ma, ora che ci penso, tutti i post di questo blog sono per definizione, interamente e fieramente inutili); vado avanti soltanto così, per raccontare due scemenze, per suggellare il ritorno dei giorni qualsiasi. Riaprono le scuole. Si rivedono i ragazzi e le ragazze con gli zainetti. Si monta sull'autobus, e c'è gente che va a lavorare. Sì, lo so che tutto questo è in palese contraddizione con tutto ciò che vado dicendo a proposito del lavoro; ma almeno per il giorno che si porta via 'ste feste del cazzo, lasciatemene essere contento.

Così come sono contento di aver rivisto il mio "ufficio" (chiamiamolo così) oramai in via di smobilitazione; di aver rivisto il bar dell'angolo, la stazione di Rifredi, persino una buffa "trasferta" abortita a Prato, dato che mi avevano convocato senza premurarsi di avvertirmi che l'interpretariato richiesto era stato annullato. Pazienza. E chi se ne frega. Una giratina in treno a Prato, venti minuti per andare e venti per tornare; e poi in ufficio da solo, a non fare beatamente nulla perché in realtà nulla c'era da fare, o quasi. Tre paginette di una boiata che avrei fatto anche a casa; eppure oggi ci sono voluto andare, a ripigliare una boccata di quotidianità come si piglia un'aspirina.

Chiaro che penso all'operaio che stamani è tornato in fabbrica, e che se ne stava sicuramente meglio a casa, o comune non peggio, durante il dì di festa. Chiaro che penso a tutti coloro per i quali le "feste" sono attese come un momento di stacco, di riposo, di fare altre cose che non siano il fottutissimo sgobbo quotidiano; ci penso perché non ritengo di essere uno stronzo e un egoista. Lo so benissimo di essere, a modo mio, un privilegiato. Oggi ci sono andato, sì, in ufficio, ma avrei potuto benissimo non andarci. Comunque ci sono andato a mezzogiorno. Alle sei e mezzo ero di nuovo sul treno per tornare a casa, a quella che sarà casa mia ancora per pochi giorni (o almeno spero). In ufficio, "trasferta abortita" a parte, mi ero portato il computer da casa, perché quello che c'è ora in dotazione è un'ignobile carretta; finite le tre paginette sono stato a fare "canzoni contro la guerra"; balocchi, insomma, o roba del genere. Va bene così, porcaccio mondo. So tutto quanto, ma oggi stavo uno straccetto di bene. Forse neppure me lo merito, ma, come disse Dante Alighieri nel De masturbatione mentali, "m'importa una sega".

Uno straccetto di bene che non m'è stato impedito neppure da un gesto automatico, quello di acchiappare la cornetta e di cominciare a fare un certo numero di telefono. "Ops", mi sono detto. Che minchia stavo facendo. Un attimo di distrazione, l'imprinting di anni, la scemissima voglia di voler raccontare cretinissimi avvenimenti di tutti i giorni e di sentirne di altrettanto cretini. Bene, Riccardino: 'sta cosa non c'è più. C'è voluto un crollo nervoso di quelli mediamente seri a fartelo entrare in quella testaccia dura. C'è voluto rivederti come un mezzo zombie allo specchio. C'è voluto farti leticare con mezzo mondo per delle stronzate atroci per capire che non andava più nulla, che bisognava darci un taglio. Alla facciaccia tua, Venturi.

C'è voluta la pazienza di alcune persone che ti vogliono bene, e bene sul serio, per farti apprezzare -tra le altre cose- questo sette di gennaio, che sarà poi una giornata di merda come quell'altre, ma che almeno t'ha portato una specie di liberazione. Ce n'è vorsùto, per arrivarci!

Certo, una liberazione che costa caro, come tutte le liberazioni. La si paga salata. La si paga anche imponendosi di riattaccare immediatamente quell'accidente di cornetta, perché tanto sarebbe del tutto inutile; quel che stato è stato, e quel che sarà, sarà. Giusto andare ognuno per la propria strada; se poi queste strade s'incroceranno ancora, si starà a vedere. Sarà il caso, e il destino, a dirlo.

Sì, mi faceva piacere vedere la gente sul treno, e non mi dava fastidio nessuno. Mica erano tutte facce allegre; tutt'altro. Pensavo a quante persone l'avranno magari trovato, un simulacro di felicità, durante queste "feste"; pensavo anche a chi, come me, e per dieci milioni di motivi differenti, dal più apparentemente serio al più apparentemente banale, hanno fatto un giretto nel baratro. Pensavo a chi ne è uscito; pensavo a chi non ce l'ha fatta a sortirne. Vedevo scorrere le case e pensavo anche a quando avevo voglia di raccontare persino delle case viste scorrere dal finestrino di un treno, al telefono, la sera. Pensavo ai codici intervenuti e consolidati. Pensavo a quanto mi mancano queste cose; e pensavo a un giorno in cui, forse, torneranno. Chissà quando. Chissa come.

E mi faceva piacere salire le scale della passerella del Campo di Marte, sotto una pioggerellina assuppaviddrano, e scenderle, e la fermata del 10, e guardare la gente che andava e veniva. Qualcosa che, forse, rassomiglia al pane e cipolla di Redshadow, o al contentarsi di vedere la gente di Pasolini. Solo, e basta. E con uno strano miscuglio di allegria e di tristezza, di paura e di coraggio, di delusione e di speranza, di rassegnazione e di rabbia, di passato e di futuro.

E poi si sa che torneranno, ste "feste". So anche quando: fra circa un anno. Mi è venuto da pensarci, rapidamente, nei duecento metri di via Tozzi. Torneranno le luminarie, i babbinatali scalatori, gli alberi finti, tutto quanto; e, magari, fra un anno starai pure ad aspettarlo con gioia. Magari scriverai il panegirico delle feste di fine anno. Magari andrai persino a scegliere qualche regalo! E a quest'immagine mi sono fermato, davanti al parrucchiere unisex; e mi è presa una risata cosmica. Irrefrenabile. Terrificante. Sto ridendo ancora!

3 commenti:

redshadow ha detto...

Dopo il movimento della "liberazione dei nani da giardino", di qualche anno fa, propongo di istituire quello degli "abbattitori di Babbi Natali scalatori".
Fucile a pallini, sacco nero per nascondere il cadavere e via.
Abbiamo un anno di tempo per organizzarci!

Ciao Ric, e grazie;

Riccardo Venturi ha detto...

Compagno, in prima fila e metto a disposizione la mia armeria. Disgraziatamente consiste soltanto in fionde, ma credo che anche con un buon colpo di fionda il destino dei maledetti babbinatale scalatori sia segnato; il mio sogno, devo dirtelo, è riuscire a decapitarne qualcuno!
Un abbraccio forte e riunione operativa al più presto!

k.d. ha detto...

Per la precisione sarebbe il Movimento per la Liberazione dei Balconi dall'Invasione dei Babbinatale Scalatori.
Il MoLBIBaS (?!)
Comunque sia, mi armerò di bolas :-)