giovedì 4 novembre 2010

Evler


Sto qui, in casa mia, da solo. È una giornata assolutamente radiosa, da starci in maniche di camicia; non sembra nemmeno novembre, o forse lo sembra eccome. Sto in piedi, cammino e guardo; dopo quasi tre anni che ci abito, avrebbe proprio bisogno di una rinfrescatina. Il pezzo di parete sotto il tavolo da lavoro è ridotto a un concio dai segni delle pedate; e pare che da un po' di tempo, intere famiglie di aracnidi si siano date convegno in via dell'Argingrosso al sessantacinque cì. In un impeto vindice, pochi giorni fa mi sono comprato al supermercato un ragnatore; sapete, di quegli aggeggi col manico e col bruschino triangolare, che servono a levare las telarañas. Bella 'sta parola castigliana, rovesciata rispetto a quella toscana; noi ragnatele, e loro telaragne. Le lingue, le lingue.

E guardando, mi viene fatto di pensare che, con tutte le sue telaragne, le pedate sui muri, i manifesti degli anarchici bretoni e la marmotta che, se la pigi, ronfa a pile, questa è casa mia. C'est à moi, merde à Dieu. Ci amo e ci caco. Ci rido e ci piango. La apro e la chiudo quando ne ho voglia. Ci arrivo e ci parto. Avete mai provato a vivere in una casa che non è vostra? Sì che ci avete provato. Tutti. Tutte. In una casa non nostra ci viviamo fin da quando nasciamo. È la casa della famiglia, di chi ti ha messo al mondo, e tutto il resto; per un po', forzatamente, non ce ne rendiamo conto. Arriva poi un momento in cui la cosa appare chiarissima. Non è casa tua. Gli spazi che hai, se li hai, ti sono stati concessi. È una casa dove niente, in realtà, è tuo. Devi sottostare a regole e intrusioni; e se non ti stanno bene, c'è sempre qualcuno che ha l'autorità di dirti che le devi rispettare per forza, de iure. È la minorità, che si protrae anche ben dopo che la legge t'ha detto che puoi votare, fare testamento e andare nelle galere dei grandi; è l'anticipo di galera che è la famiglia, in sé. Naturaliter. A un certo punto vorresti scappare; ma dove vai? Non hai un reddito, non hai possibilità, non hai niente.

Arrivi a un punto che, comunque, fuggi. Nei modi consueti, vale a dire con fughe verso altre galere; ti sposi, ti fai la tua famiglia -sempre che ti sia permesso-, vai a lavorare altrove, conosci la bella fanciulla che ti ammalia. Una mattina, fai le valigie e parti; e lo sa chi è partito con un biglietto di sola andata, oppure col portabagagli pieno di simboli e ricordi di una vita. Perché non si parte mai carichi di cose "utili", di pentole e stracci; si parte col pupazzetto di vent'anni prima, con il libro sfogliato in quel dato momento, con gli oggetti che definiscono. Ti fai il viaggio, e sbarchi in un'altra casa non tua. Magari in un bugigattolo che, a sua volta, non è neppure di chi vi abita; approdi in affitti di periferie malsane, in monolocali ai piedi della montagna, in confusioni zingaresche. E lo sai bene. Piano piano, forzatamente, cerchi di ritagliarti un tuo mondo, magari in un ingresso angusto, magari in un semplice angolo d'una camera. Cerchi, ingenuamente e disperatamente, di crearti una casa. Ma non c'è. Ci stipi i tuoi libri, le cose che sei riuscito a portarti, ci appiccichi roba al muro; ma niente è tuo. Non puoi fumare. Non puoi tirarti una sega in santa pace. Se c'è da pulire devi uscire. Se qualcuno viola le tue fissazioni, devi stare zitto perché non sei in casa tua. Ogni convivenza, forzata o meno, ha in sé i germi del ricatto; cosa che non tarda, del resto, ad esplicarsi con parole più che chiare. Al primo gesto di fastidio, alla prima cosa che non va, al primo anelito di ribellione, ti viene messa in faccia la realtà. O fai così, o te ne vai. A volte non c'è neppure il primo elemento dell'aut-aut: te ne vai e basta. Ed è una cosa che mi è capitata, questa. Nemmeno una volta sola. Mi è successo persino di sentirmelo dire in lingue diverse dalla mia, e fa un effetto strano. Alors, tu remballes tes trucs, et pars. Le lingue non s'imparano proprio sui libri, credetemi. S'imparano con la vita, con le sue gioie e i suoi dolori. E quando le impari anche nel dolore, le hai imparate bene. Una frase come quella prima, non la si impara nelle poesie di Victor Hugo e nemmeno di Rimbaud, proprio mentre un manifesto con Rimbaud ti guarda da una parete.

Treni, automobili altrui, biglietto di solo ritorno. Alla fine, in un autogrill, scopri che il tempo è passato. E prendi la decisione del Corvo di Edgar Allan Poe: Nevermore. Basta. Comunque vada, ti metti all'opera. È ora che nessuno, sia pur con le motivazioni più giuste e comprensibili, ti cacci via da casa sua, o semisua. È ora che nessuno più ti ricatti e ti chieda di remballer tes trucs. Ci avrai da penare. Ci avrai da sperare nella buona occasione. Ci avrai, a volte, persino da attendere che qualcuno passi dall'altra parte e ti lasci un po' di soldi. Brutta, bruttissima cosa da dire; però è così, e è così e basta. Quando si pensano certe cose, si augura sempre una lunga vita con la speranza che sia invece passabilmente breve.

Mi è successo. È la casa che guardo, quella da dove nessuno mi chiederà mai più di ripartire. È piccola, è un ex garage, ci sono generazioni di ragni e le grammatiche aramaiche (l'aramaico fa sempre scena). E ci sono io. E poiché sono un paradosso semovente, casa mia non è mai chiusa a nessuno. Spalancherei la porta anche al mio peggior nemico senza buttarlo fuori. Ci fuma chi vuole, persino due della DIGOS che sono venuti una quindicina di giorni fa a consegnarmi qualche rimostranza e un invito a presentarsi. Ci entra e ci esce chi vuole. La lascio a chi vuole starci per qualche giorno, e me ne vo a dormire altrove; capirai che problema. Ho dormito in tutti gli altrove del mondo, e sono stato un altrove io stesso. Casa. Case.

E allora si capiscono immensamente meglio diverse altre cose. Si capisce quando ti arriva un esercito di invasori in casa, con le sue ruspe e la sua dinamite, e te la distrugge. Si capisce il dissesto idrogeologico che ti reca la morte mentre sei alla televisione. Si capisce L'Aquila, si capisce l'Irpinia, si capisce il Belice. Si capiscono le tendopoli eterne che devono farti da casa. Si capisce chi una casa non ce l'ha, e non può averla perché magari il borgomastro ci ha da contentare gli stronzi che lo hanno eletto. Si capiscono gli odori forti e la tv accesa 24 ore su 24 di una baracca o di una cascina nel putridume invernale di una periferia bresciana. si capisce quando uno stato assassino ti viene a strappare da casa tua all'alba, e ti associa ad un'altra casa, ma circondariale. Si capiscono alla fine anche i ragni e le pedate sui muri, sotto il tavolo dove sta il computer dal quale sto scrivendo, in questa radiosa giornata di novembre che non sembra novembre e lo sembra, seccamente, tutto.

Il titolo del post significa "case" in lingua turca. La ragione è una canzone nella quale sono immerso da ieri sera. Parla di spegnere le luci e chiudere la porta. Ora provate, se volete, a rileggere questo post ascoltandola. Ci provo anch'io perché non l'ho ancora fatto.