lunedì 1 novembre 2010

Strade larghe


Alle nove e mezza del mattino del 1° novembre 1755, l'intera città di Lisbona fu rasa al suolo da uno dei terremoti più disastrosi della storia. All'epoca dicono contasse circa 250.000 abitanti: ne morirono, secondo le stime, novantamila.

Il sisma si era formato in mare, circa a cinquecento chilometri di distanza dalla costa portoghese. Fu un disastro di dimensioni incalcolabili. Non soltanto Lisbona: il porto di Setúbal semplicemente scomparve, inghiottito nel mare. Ad Algeri si ebbero altri diecimila morti. Una cittadina di ottomila abitanti presso Marrakech, in Marocco, fu inghiottita invece dalla terra assieme a tutto il bestiame; poco dopo, la voragine si richiuse. La scossa fu avvertita fino in Norvegia e in Finlandia; alcuni laghi svizzeri e il Loch Lomond, in Scozia, ebbero paurose variazioni di livello.

Mente Lisbona crollava e bruciava sotto una lunghissima scossa (durò, secondo le testimonianze dell'epoca, sei minuti), accadde un fatto curioso. Il mare, nella zona del porto e dei moli, si ritirò completamente. Comparve il fondale, con tutto quel che c'era dentro: navi, battelli, scheletri e casse di ogni genere. E nelle casse in fondo al mare, di solito, ci sono dei tesori. Un migliaio di persone, del tutto incuranti di quel che stava accadendo, si precipitarono allora nel fondale del porto messo a nudo per impadronirsi di tutto quel che potevano arraffare. Nemmeno dieci minuti dopo, uno tsunami di quindici metri si abbattè su di loro e sui resti della città, mentre franavano completamente anche le colline che la circondano. Di Lisbona non rimase niente.

Si salvarono il re e il primo ministro. Il re fu salvato da un capriccio della regina, che proprio quella mattina aveva insistito per partire in una villeggiatura fuori stagione. Anche il palazzo reale fu polverizzato; e il re ne riportò una claustrofobia inguaribile. Passò il resto della sua vita in una lussuosa tendopoli approntata per lui e per la sua famiglia. Il primo ministro, invece, sopravvisse per puro caso, non avendo lasciato la città. Si chiamava, con uno di quei famosi nomi chilometrici portoghesi che non sono affatto prerogativa dei nobili, Sebastião José de Carvalho e Melo de Oeiras; ma è più noto come Marchese De Pombal.

Poche ore dopo il disastro, qualcuno gli chiese: "E ora che facciamo?"; senza scomporsi, con la massima calma, rispose: "Seppelliamo i morti e diamo da mangiare ai vivi". Lo fece, con un'efficienza e un pragmatismo che ancora sono degni di essere ricordati. Nemmeno un anno dopo, a Lisbona non c'era più traccia di macerie, non si era verificata nessuna epidemia e la città era già in ricostruzione. La volle rifare con strade diritte e larghe, e con i primi edifici antisismici della storia. L'intelaiatura delle nuove case e dei nuovi palazzi fu provata rigorosamente facendo marciarvi sopra dei soldati per simulare un terremoto; per la ricostruzione, il marchese De Pombal mise infatti all'opera l'esercito intero. È la Lisbona che si vede oggi, settecentesca, ariosa. La Baixa Pombalina. Durante la ricostruzione, il marchese de Pombal fece redigere un questionario e lo distribuì a tutte le parrocchie del paese: vi si leggevano domande come "Il livello dei pozzi si è abbassato?", oppure "I cani ed altri animali si sono comportati in modo anomalo prima del terremoto?". Questo perché il terremoto di Lisbona fu il primo caso nella storia in cui fu notato il comportamento dei cani nelle ore precedenti il sisma. Moltissimi scapparono, andando a rifugiarsi nelle zone più alte. Furono fatte recensire tutte le abitazioni e le costruzioni distrutte; gli scienziati portoghesi furono così in grado di ricostruire l'evento, facendo nascere la moderna sismologia.

Il Marchese de Pombal era un uomo rapido, preciso e conciso. A chi gli contestava la larghezza delle nuove strade che stava facendo costruire, rispose glaciale: "Un giorno le troveranno strette". Acquisì un potere immenso, trasformandosi de facto in un dittatore; ma un anno e mezzo dopo, nella nuova Lisbona non restavano tracce del terremoto, a parte un convento in rovina e poche altre cose. Schiacciò nel sangue una congiura nobiliare per uccidere il re, fece espellere i Gesuiti dal Portogallo (e ne confiscò i beni), e governò il Portogallo con potere assoluto fino alla morte del re Giuseppe I. La Regina che gli succedette, Maria I, lo detestava: era imparentata con la famiglia che aveva guidato la congiura di anni prima. De Pombal fu licenziato, e fu emanato un decreto con il quale gli si imponeva di restare sempre a una distanza minima di venti miglia dalla famiglia reale.

Fu nelle strade larghe fatte costruire dal marchese de Pombal, sul suo Terreiro do Paço e vicino alle rovine del convento do Carmo, che 219 anni dopo tornarono a marciare i soldati, e assieme a loro un popolo intero che si liberava da una dittatura di cinquant'anni. Non so se la profezia del marchese si era avverata, e se i portoghesi del 25 aprile 1974 trovavano quelle strade, che avevano invaso al grido di Vitória! Vitória!, ancora larghe oppure strette. Larghi erano i gesti del capitano Maia Salgueiro, che ritto su un carrarmato in tutto il suo metro e cinquantacinque di statura, rispose ad un giornalista che gli aveva chiesto che cosa intendessero fare: Estamos aqui para derrubar este governo de merda. Derrubar non significa "derubare", ma abbattere. E ogni volta che rivedo quelle immagini, ho un groppo alla gola.



Arrivato in fondo, perché in fondo sono arrivato, non so nemmeno perché. Il terremoto si confonde con la rivoluzione. Il marchese con il capitano. L'esercito che marcia sui palazzi da ricostruiti, e l'esercito che marcia per una libertà ricostruita. Soldati ragazzini. Ragazzini nella gente. Ragazzi che non volevano più morire lontani, per un impero coloniale cui il terremoto di 219 anni prima aveva già dato un colpo mortale. E marciavano per quelle strade, strette o larghe che fossero, facendo il loro terremoto e il loro tsunami che si abbattevano sul fascismo. Tutto il mondo era lì, compreso chi non era ancora nato.