mercoledì 1 dicembre 2010

Dicembre


Ci doveva essere qualcosa, sotto quella lunga striscia di asfalto bagnata da una pioggerella dell'ultima notte di novembre, o della prima di dicembre; eppure non sembrava diversa dal solito, via dell'Argingrosso deserta. A costeggiare i palazzi prima, per perdersi poi nel campo nomadi e, a sinistra, verso la Greve maleodorante e gonfia. I riflessi lugubri dell'illuminazione pubblica, e una specie di rumore quasi inavvertibile, sordo, vagamente minaccioso. L'inquietudine, o desassossego; scuotevo lievemente il capo, guidando verso casa. Sembrava che un altro me stesso mi chiedesse dov'ero; sembrava che si alzasse un vento dal nulla.

Muoveva, quel vento, le acque del fiume nero; e il paesaggio consueto diventava nuovo all'improvviso. Eppure nulla poteva indicarlo; ed è strano come i cambiamenti si innestino alla perfezione su quel che c'era prima. Ne assumono le forme, ma si percepisce che non è più la stessa cosa. Non c'è più niente di stabile. Si muove qualcosa, là sotto, e ci si ritrova sulla strada di casa ad osservare il più minuto particolare. Si scende. Si va a caso, verso un punto qualsiasi; e ci si mette in comunicazione con il mondo quasi intero.

Sorriso. Ciac, si gira! È il film di una nuova alba. Quando si smette di crederci, in un'alba nuova, si è catturati dalla notte e dalla morte. Il vento non si fa mai impetuoso; è costante, paziente, implacabile nella sua levità. Si recita? Certo che sì. Scendere dalla macchina, guardare il fiume e l'asfalto, accendersi la sigaretta e cogliere i dettagli del moto in un fotogramma; si recita in qualcosa che si desidera. In qualcosa che deve accadere. In qualcosa che si condivide con gli ignoti che, nel medesimo istante, esercitano l'elementare bisogno della trasformazione dell'illusione in realtà. Non si torna indietro. Derisione. Fantasmi pallidi che bofonchiano di passati e morti, e quando quei morti morivano loro erano sempre altrove. Allora si sente, si prova, si innalza il primo segno dell'essere andati oltre: non si ha più la minima paura né di amare, e né di odiare. E chi maledice l'odio maledice anche l'amore. Chi dice di respingere l'odio, odia tutto.

E gira, gira. Il film non prevede soste, e il suo regista siamo tutti. La pioggia s'infittisce. Potrà essere un sommovimento provocato dallo strisciare d'un verme sotto terra. Potrà essere una strada che sommerge chi l'ha riempita di occhi senza vita. Potrà essere il palazzo del Potere che sprofonda in una voragine senza fine. Potranno essere gli sguardi di una bambina o di un cane. Potranno essere i calci assestati in esangui deretani di false rabbie che travestono l'immobilità. Potrà essere il cartello giallo della pizzeria che fa due o tre giravolte, e nel forno cuoce una pasta amarissima e necessaria. Potrà essere il funzionario che smette di funzionare, s'infila una maglietta a righe orizzontali e corre a perdifiato tra i vicoli per raggiungere la piazza. Potrà essere uno scarno comunicato. Potrà essere che un giorno io bussi alla tua porta e ti riempia di cazzotti, senza darti nemmeno il tempo di finir d'aprire. Potranno essere i Dodici, i Quindici con le illustrazioni, i poeti e i muratori. Potranno essere pentole di pasta e ceci. Potrà essere un biostato regolato su una data dove tutto va a cominciare. E di finire non se ne parla.

Senza futuro, senza speranza, senza possibilità, senza motore, senza niente, senza persino il senza. Senzani. Rifugi, isole, libri, litri, fughe, fighe, rispetti, racconti, valigie, pioggia. È tempo di rientrare in macchina; è dicembre, декабрь, e il rumore non cessa. Porta il primo germoglio della primavera; o di là, o di qua. Chi rimane nell'inverno, inverno avrà. Chi accetta di non fermarsi a marcire e a dissolversi nella propria distruzione, sconfiggerà gli inverni, sconfiggerà il culto della sconfitta, sconfiggerà lo spettacolo e la sua società. Non ci credete? Fottetevi!

Dicembre vola corto.
Dicembre scarpe e passi.
Dicembre vento e sassi.
Dicembre zappa l'orto.