Non mi sento particolarmente un "ganzo" o roba del genere perché di Alexis me ne ricordo, e gli voglio pure lanciare un saluto, un γειά σου. Avrebbe compiuto, quest'anno, diciassette anni. Diciassette anni per me sono un'età particolare, e non nascondo che me ne sono servito spesso per provare a respingere un po' il tempo che passa; poi c'è stata, certo, di mezzo anche una canzone che parla di tornare a diciassett'anni:
Inutile. Non ci si torna affatto, comunque la si metta. E Alexis si è fermato prima. Non può più tornare, né avanzare. Immobilizzato. E non è affatto vero, come dicevano certi suoi antichi conterranei, che muor giovane colui che agli dèi è caro. Gli dèi non ci sono, e lui era caro ai suoi amici, alla sua famiglia, alla sua vita di ragazzo. Non è stato caro a uno che va in giro armato fino ai denti per conto di uno stato; è morto giovane, giovanissimo. E basta. Un altro nel calderone dell'oblio e a far da articoletto tra milioni su Wikipedia. È sottoterra. Era il sei dicembre di due anni, di due schifosi anni fa.
Non gli vuole bene il sei di dicembre, ai ragazzi. Nemmeno a quelli in tuta da lavoro, ché la fabbrica rimane fabbrica anche in tempi di precariato dove tanti aspirerebbero a finirci dentro. In questi ultimi anni mi sono formato, certo, la convinzione profonda che la società del lavoro è il principale schifo che dovrebbe essere abbattuto; una critica radicale, o come la si vuole chiamare, che ha i suoi teorici e i suoi fautori. Però, ogni giorno, con la società del lavoro si ha a che fare. I critici radicali sono pochi, e senza molta voce; e càpita di dover andare a lavorare, e di lavorare in condizioni sempre più orribili, e di morire. Morire e morire. Tonnellate di morte. E anche di questa morte, alla fine, succede di non parlarne più o quasi nella sua quotidianità che viaggia spedita verso l'indifferenza. Tutto diventa una generica rabbia. Ci sono, a volte, dei "processi"; sappiamo tutti bene come termineranno. Suonano le sirene, la fabbrica è stata magari delocalizzata, e altri ragazzi, uomini e donne vi entrano tutti i giorni, benedicendo magari quell'ingresso. E devono essere capite e capiti, perché forse, nel loro tempo libero, vanno in una qualche discoteca più o meno squallida della cintura torinese, e non a leggere il Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. Che andrebbe letto, certamente, e bene; ma mi sono a volte chiesto come campino i teorici di quel gruppo. Faranno traduzioni precarie e malpagate? Saranno sepolti in qualche impiego statale dal quale abbattono e distruggono teoricamente? Oppure qualcuno, perché no, sarà entrato in polizia? E chi lo sa. Intanto, in fabbrica succede che un treno di laminazione esploda; e che "faccia notizia", proprio magari mentre, in quel preciso momento, un edile al nero voli giù da un'impalcatura a centinaia di chilometri di distanza, oppure anche a duecento metri. E succede che dei ragazzi salgano poi su una gru, e che sotto ci sia il vicequestore (senz'altro figlio del popolo) che impartisce ordini alla truppa. E succedono migliaia di altre cose; una di queste il 6 dicembre 2006. Di quello, ancora, se ne ricordano in parecchi; sarà sì per il numero di ragazzi al lavoro che sono morti, e forse anche perché "Thyssen Krupp" si ricorda meglio, che so io, di "Laminatoio Mario Rossi". Quanto costerà la loro vita alla produzione? A che cosa serve, esattamente, quella produzione? Domande, forse oziose, da sei dicembre. Hanno anche qualche risposta, ad esempio un numero: dodici milioni e novecentosettantamila euro. È il risarcimento offerto dalla Thyssen Krupp ai loro familiari, da dividere per sei ragazzi cui è stata laminata la vita. I familiari hanno accettato, rinunciando in cambio a costituirsi parte civile nel processo ai dirigenti dell'acciaieria tedesca; e non devono essere fatti oggetto di alcun giudizio, da parte di nessuno. Era il sei dicembre di quattro anni, di quattro merdosi anni fa.
Studiate ragazzi! I veri studenti stanno in classe a studiare! Non mi ricordo bene chi lo abbia detto, ma mi sembra che abbia a che fare con Gògol, con Romolo e Remolo, con le barzellette e con un discreto numero, giustappunto, di studentesse (o comunque di ragazzine in età scolare). Ora vi voglio raccontare una storia, che parla proprio di ragazzi e ragazze che studiavano. Anzi, erano addirittura in classe a studiare. E siccome un certo giorno non vuole bene ai ragazzi, era proprio un sei di dicembre. Stavano imparando l'inglese, in classe. L'inglese è importante, è la lingua del mondo e bisogna parlarlo e scriverlo, sennò sei di serie B. Il signore che ora dice che i veri studenti stanno in classe, e non a manifestare e occupare, allora non era sceso ancora in campo. Tra le sue "tre I" c'era sicuramente l'Impresa, ma di Internet sapevano soltanto pochi addetti ai lavori. Però esisteva l'Aeronautica Militare. La mattina del 6 dicembre 1990, mentre studiavano l'inglese nella loro classe, la II A del Liceo Salvemini di Casalecchio di Reno, provincia di Bologna, entrò un valoroso pilota. Dentro la classe. Anzi no, pardon: lui non c'entrò affatto; c'entro, invece, il suo bell'aereo militare. Non si sa esattamente che cosa facesse. Industria italiana: si trattava di un Aermacchi MB-326, un aviogetto da addestramento partito dall'aeroporto di Verona-Villafranca; lo pilotava tale Bruno Viviani il quale, si dice, accortosi che l'aereo era fuori controllo azionò il dispositivo di espulsione di emergenza salvandosi così, eroicamente, la pelle. Pelle che non salvarono dodici studenti e studentesse un'insegnante della II A. Avevano sui quindici anni, come Alexis Grigoropoulos. La scuola intera prese fuoco. Solo quattro studenti si salvarono, di quella classe dove stavano a studiare. Senza scampo. Non stai in classe, e ti manganellano o ti ammazzano; stai in classe, e ti ammazza l'aviazione.
Processo, processo! Il pilota e i suoi superiori difesi dall'Avvocatura dello Stato, cosa che non spettò agli studenti e alle loro famiglie, "parti civili", nonostante una scuola sia pure un organismo statale; il Ministero della Pubblica Istruzione "non lo richiese". Primo grado: condanna per disastro aviatorio colposo e lesioni, e risarcimento. Appello: tutti assolti e nessun risarcimento. 26 gennaio 1998: la "Corte di Cassazione" di Roma, come dice il suo nome, cassa tutto. Assoluzione perché "il fatto non costituisce reato". Fatale incidente. Otto giorni dopo esatti, un altro fatale incidente trancia due o tre fili di una funivia, in Trentino. Va bene. Vorrei solo che i ragazzi di adesso se ne ricordassero, specialmente quando nei loro licei vedono, tra un'ordinanza-lager del preside di turno e l'altra, affissa in bacheca qualche propaganda dell'Aeronautica Militare che l'invita a scegliere quella "via per il futuro". Belle divisine blé, sorrisi, accademie, aeroplanini. Ogni tanto, magari, viene pure qualche ufficialotto tutto azzimato a magnificare com'è bella l'Aviazione. Sembra uscito da un libriccino di Liala. Immaginate se qualche ragazzaccio gli dicesse di andare a farsi fottere, a lui e a tutta l'Aeronautica, e gli ricordasse quei dodici ragazzi e ragazze di Casalecchio morti per un fatale incidente. Era un sei di dicembre di venti, di venti inutili anni fa.
No, davvero. Il sei di dicembre non vuole bene ai ragazzi; e, a pensarci bene, nemmeno tutti gli altri e trecentosessantaquattro giorni, trecentosessantacinque nei bisestili. La loro unica funzione è di far vendere roba. Non sanno lottare. Non hanno lo status di generazione. Non hanno ideologie. Non sono niente, insomma. Possono scegliere tra morire male (per la strada, al lavoro, a scuola, le ragazze ammazzate dal fidanzatino geloso, dal babbo, dallo zio, dal branco, dalla cugina, dallo stalker...) e un futuro che non c'è. Scritto un sei di dicembre; ma mi vorrei illudere che da qualche parte, in culo a tutti, ci siano un ragazzino con la maglietta, sei ragazzi in tuta da lavoro e dodici ragazzi con gli zainetti e i libri d'inglese che preparano un dispetto terribile a tutti i poliziotti, i padroni e gli aviatori militari di questo mondo.