lunedì 27 dicembre 2010

Nikos il Marabù


Nikos Kavvadias era un greco nato in Manciuria, nel 1910. Passò la vita a fare il marinaio sui mercantili, a giro per gli oceani; in particolare, faceva il radiotelegrafista. Dopo una vita di puttane di tutti i continenti, quasi al momento di sbarcare, oramai più che sessantenne, trovò l'amore compiuto e totale in una studentessa che si chiamava Thanò Sounà; che nomi incredibilmente belli hanno i greci. Aveva, il marinaio Nikos, un vizio peggiore del bere e del fumare: la poesia. Sulle navi, forse per il suo aspetto sgraziato, lo chiamavano "Il Marabù"; un uccello goffo e di nessuna attrattiva. Un giorno del 1933 scrisse questa sua storia, dedicandola a un tale Memas Galiatsatos e introducendola con dei versi del "poète maudit" Tristan Corbière: "Rien n'est plus beau comme ça, matelot, pour un homme":

Dicon di me i marinai con cui faccio comune vita
che un tipaccio son io, ostico e pervertito,
che detesto le donne in misura atroce
e che a letto con loro non ci vado mai.

E ancora, dicono che tiro hashish e cocaina,
che mi possiede una qualche orribile passione,
e che di strane figure sporche da fare schifo
fino alle carni le mie membra ho istoriate.

E ancora, esagerate cose dicono e tremende,
che sono invece menzogne rozze e artificiose,
e quello che valse a me ferite da morirne
nessuno mai lo seppe, ché mai lo rivelai.

Ma stasera, che è scesa l'ombra tropicale
e ai loro occidenti vanno dei marabù gli stormi,
un che mi preme e spinge a scriverne su un foglio,
quello che che diventò per me segreta eterna piaga.

Ero in quel tempo allievo su un postale scintillante
in viaggio sulla rotta Egitto - Francia del Midi.
Allora la conobbi - pareva un fiore delle Alpi,
e di fraternità l'un l'altra ci trovammo avvinti.

Aristocratica era, melanconica e sottile,
figlia d'un egiziano ricco che si era suicidato,
in paesi lontani trascinava il suo dolore,
chissà che in quelli non le accadesse di scordare.

Teneva sempre in mano il Journal della Baschkirtseff
e appassionatamente amava di Avila la Santa,
versi di Francesi citava, pieni di dolore,
e la distesa blu amava a lungo contemplare.

E io, che solo di puttane avevo appreso i corpi,
e la mia anima abulica era oppressa dagli oceani,
davanti a lei ritrovavo la gioia dell'infanzia
e, come fosse un profeta, estatico l'ascoltavo.

Passai dal mio collo al suo una crocettina
e lei mi diede a sua volta un grande portafoglio
e mi sentii poi l'uomo più felice della terra
giungendo alla città da cui doveva ripartire.

La pensavo sovente dalle navi mercantili,
al pari di una scorta e di un angelo custode,
e una foto di lei tra proravia e me valeva
un'oasi che s'incontra nel cuore del deserto.

Penso, dio mio, che dovrei fermarmi qui.
La mano trema, il vento caldo mi accende un fuoco.
C'è un profumo dal fiume di stupendi fiori australi
e un marabù insulso grufola un po' discosto.

Andrò avanti!... Una sera in un porto straniero
di whisky, birra e gin mi ero infradiciato
e verso mezzanotte, dondolandomi pesante
presi la via delle perdute, luride case.

Là donne impudiche attiravano i marinai,
una, ridendo, strappò d'un tratto il mio berretto
(vecchio uso francese nella strada dei bordelli)
e, pur senza averne voglia, io le tenni dietro.

Una cameretta angusta, fetente come tutte,
dalle cui pareti l'intonaco cadeva a pezzi,
e lei un vero straccio umano dalla voce roca,
e dagli occhi ottenebrati, indemoniati, strani.

"Spegni la luce", dissi, e spense. Ci stendemmo insieme.
Con le dita le contavo senza un errore le ossa.
Esalava assenzio. Mi destai, dice il poeta,
"quando Aurora spargeva i suoi petali di rosa".

Quando la vidi, alla luce fioca del mattino,
mi apparve tanto triste e così, così reietta
che con strano rispetto, una paura perfino
per pagarla il portafoglio cavai in tutta fretta.

Dodici franchi francesi...Ma quella cacciò un verso,
e sguardi feroci mandar la vidi in parte a me,
e in parte al portafoglio...Ma io, come ci restai,
quando una croce le vidi pendere sul petto.

Scordandomi il berretto uscii come fossi pazzo,
come un pazzo che barcolla senza trovar pace
portandomi dentro il sangue un malanno atroce
che ancora con tormento mi affanna e mi punisce.

Dicono i marinai che con me ebbero a che fare
che io con le donne da anni non ci voglio andare,
che non sono un buon soggetto e che tiro cocaina.
Scuserebbero certo, sapendo la mia vita.

La mano trema. La febbre. Sovente mi abbandonai
a guardare un marabù immobile sulla riva.
E così, quando a suo turno lui mi guarda fisso
penso che, solitario e imbecille, ben gli somiglio.

Poche volte m'è capitato di ascoltare una storia come questa. L'ha tradotta, assieme a tutte le altre sue poesie, un amico che si chiama Gian Piero Testa; uno con cui condivido quella particolare cosa che si ha nei confronti della Grecia, dei greci e della lingua greca e che molto difficilmente può essere definita; e così non la definirò affatto. Dico soltanto che, al cospetto di Nikos Kavvadias, della sua vita incredibile e durissima e delle sue poesie redatte in un difficilissimo gergo marinaresco, Gian Piero Testa si è fatto un'edizione privata che spedisce qua e là, agli amici, nel più puro "otium" che nulla desidera che puzzi di denaro ancorché da lontano. E questa è la mia gente, e sempre e lo sarà: "uno che sta bene con poca gente, in pochi posti e con poche cose". Anche per questo, da oggi il mio profilo è redatto anche in greco.

Nikos Kavvadias sbarcò dai mercantili nel 1974, innamorato finalmente, dopo una vita intera. Durò poco. Morì all'improvviso il 10 febbraio 1975 a Atene, lui greco che in Grecia aveva messo piede poco o punto. Per anni fece base a Genova. Era nato un undici gennaio, peraltro; coincidenze. Un'altra sua poesia sulle gatte dei mercantili la affido alla mia amica Pampalea; dopo la sua morte, come sovente accade, se ne accorsero i musici e i cantanti. Mariza Koch mise in musica questa sua poesia: