lunedì 21 gennaio 2013
Quattordici galeotti (L'eccidio di Procchio)
Molti anni dopo,
davanti al plotone di esecuzione...
comincia così, se ben mi ricordo, uno dei romanzi più famosi della
letteratura di tutti i tempi. Ciò che segue non è famoso, anzi è
quasi del tutto sconosciuto. Non è neppure un romanzo. L'unica cosa
che rimane, è un plotone di esecuzione; è già passato il tramonto
di mercoledì 13 ottobre 1943. Schierato, il plotone di soldati
tedeschi, sulla spiaggia di Procchio, all'Isola d'Elba; di fronte,
quattordici uomini che sono stati costretti a scavarsi la fossa da
soli. Quattordici uomini; quattordici carcerati. Quattordici uomini,
quattordici galeotti. Quattordici uomini e basta. E' già calata la
sera di un giorno, qualcuno dice, ancora caldo.
Procchio.
Di recente, Procchio è andata nelle cronache; ma non è “salita”
a nessun “onore”, come si suol dire in una delle tante frasi
fatte che popolano 'sto mondo. Un “ecomostro”, stracarico dei
soliti intrallazzi affaristici, che sta ora a disfarsi in pieno
paese, e una parte della rovinosa alluvione del 7 novembre 2011.
Paese, già; perché Procchio, con quella popo' di spiaggia
meravigliosa che s'è ritrovato, negli ultimi trent'anni è diventato
un paese vero e proprio; io me lo ricordo ancora in forma di dieci
case, dieci magazzini, e un bivio stradale. La strada che si biforca;
venendo da Campo, a diritto si va a Portoferraio e a sinistra si va
alle due Marciane, quella marina e quella alta. Alberghi e campeggi,
campeggi e alberghi; il minimarket, i negozi di souvenir, il noleggio
di biciclette e motorini e il parco di divertimenti per due o tre
mesi d'estate; il resto dell'anno, un niente che si rispecchia in
mare. Arrivi da Portoferraio e, dall'alto della strada, il panorama
su Procchio riesce ancora a essere mozzafiato; figurarsi per chi
chiude un millisecondo gli occhi e se lo rivede com'era da bambino.
Il nome è antico, addirittura latino; pare derivi dall'avverbio
procul, che significa
“lontano”. Secondo altri deriverebbe invece da tale Proculus,
un nome proprio che, comunque, è imparentato con l'avverbio.
Mia
madre aveva, nel 1943, dieci anni. Li avrebbe compiuti dopo tre
giorni, anzi, essendo nata il 16 ottobre del 1933. Nonostante abbia
sentito da lei ogni sorta di racconti, faccio ancora fatica ad
immaginarmi l'Elba di ottant'anni fa, perché ottanta saranno a
ottobre di quest'anno. La guerra, poi; sì, certo, so tutto dello
sbarco alleato dato che, come mi diverto spesso a dire, pochi hanno
avuto la sorte di venire da una famiglia che s'è ritrovata un intero
sbarco alleato direttamente in casa. Eppure non racconto storielle:
la mia famiglia, mia madre compresa, abitava tutta sulla spiaggia di
Fonza; e all'alba 17 giugno 1944 le truppe coloniali dei tirailleurs
senegalesi, comandate
dall'ammiraglio De Lattre De Tassigny, scelsero proprio la spiaggia
di Fonza come primo punto di sbarco ricognitivo, prima di lanciare la
testa di ponte sulla grande spiaggia di Marina di Campo. Non sarà
stata la Normandia, e Fonza non somiglia manco un po' a Omaha Beach;
però voialtri gli sbarchi alleati ve li siete visti al cinema, io li
ho sentiti raccontare in diretta da mia madre e dai miei zii, che
erano lì. Ma questa è storia di quasi un anno dopo. La fine
dell'occupazione tedesca dell'Isola d'Elba, cominciata col
bombardamento di Portoferraio e con il siluramento del piroscafo
Sgarallino (un morto per ogni famiglia elbana, si dice tuttora). Qui
bisogna tornare all'inizio, perché questa storia non comincia
all'Elba, ma in un'isola vicina. L'isola di Pianosa.
Pianosa
significa galera. Ancora oggi, che la galera è stata chiusa. Ma sta
ancora là. Le isole che sono state galera, e galera e basta, non se
ne staccheranno mai. Hai voglia a farci i “parchi”, le “oasi
ecologiche” e quant'altro; se dici Pianosa, dici carcere. Li
mettevano sulle isole in mezzo al mare, e ce li mettono tuttora,
perché da un'isola non si scappa; non a caso la galera più famosa
del mondo, Alcatraz, era anche lei su un'isola. Non si scappa, però
ci si prova lo stesso; bisogna provarci. Persino da Alcatraz, come ci
ha raccontato anche un famoso film; sulle fughe, o tentate fughe, da
Pianosa, invece non c'è manco un cartone animato bulgaro. Brutta
cosa essere Pianosa, che nelle giornate limpide sembra quasi di
poterla raggiungere a nuoto da Cavoli o da Fetovaia; a esserci voluti
scappare, non ti tocca soltanto il plotone di esecuzione, ma l'oblio
completo. Eppure l'occasione era ovvia: l'otto settembre 1943. La
dissoluzione del paese chiamato “Italia”, in tutte le sue
strutture e istituzioni. La notizia, sembra dopo qualche giorno,
arriva anche alla galera di Pianosa, che peraltro è stata già
occupata da un presidio tedesco; scoppia una rivolta tra i detenuti.
Qui
bisogna, pare, affidarsi alla “voce popolare”. All'Elba,
vicinissima ma lontanissima al tempo stesso (seppure essa stessa, in
parte, una galera con l'ergastolo di Portolongone), si dice che in un
giorno compreso tra l'otto e il ventitré di settembre, in Pianosa
sia accaduto qualcosa di tremendo. Non se ne sa di più, anche perché
gli elbani sono occupati a piangere e a seppellire, quando possibile,
i trecentotrenta figli suoi silurati sullo Sgarallino davanti a
Nisportino. Figurarsi se si potevano dannare più di tanto l'anima
per dei carcerati; ma essere carcerato nel 1943 non può essere,
credo, immaginabile. Detenuti in una delle galere più dure e
inaccessibili d'Italia, e in regime ancor più duro visto che s'era
in tempo di guerra; si capirà perché sto facendo una fatica
tremenda nello scrivere queste cose. Non mi sono sempre reso conto,
scollinando alla curva del Colle di Palombaia, quando all'improvviso
s'apre davanti quel mondo in forma di mare e d'aria costellato di
terre di cui Pianosa è la prima a esser vista (e la sola nelle
giornate fosche), che davanti a me, davanti ai miei occhi che
rimangono ogni volta spalancati di meraviglia anche se quella curva
l'ho passata migliaia di volte, ci sono stati i dannati della terra.
C'erano ancora quando ero bambino. C'erano ancora quando avevo
vent'anni. Ci sono stati fin quando ne avevo quasi trenta. E c'erano
nel settembre del 1943, vent'anni esatti prima che nascessi.
La
rivolta dei dannati di Pianosa era stata domata alla svelta. Non
avevano nulla, dato che uno Stato, seppur dissolto, per i galeotti
rimane in funzione e in armi. Con l'aiuto del presidio tedesco, la
ribellione fu stroncata nel sangue: cinque detenuti furono ammazzati
sul posto. Ma non con le armi da fuoco: furono presi, legati e
bastonati a morte dalle guardie e dai tedeschi. Se ne conoscono i
nomi: Antonio Andreani, Lorenzo Cerrutti, Giuseppe Lo Piccolo, Luigi
Maccioni e Giuseppe Tornatore. Certo, l'ultimo di quei cinque dannati
si chiamava proprio così: omonimo di colui che sarebbe diventato un
famoso regista cinematografico. Siciliano come lui (e come,
probabilmente, Giuseppe Lo Piccolo). Chissà, qualcuno potrebbe
andare a dirgli di girarci un film; potrebbe essere stato anche suo
parente, vicino o lontano.
Facevano
parte, quei cinque, di un gruppo di diciannove detenuti che erano
stati “individuati” come capi della rivolta; in realtà, era una
rivolta senza nessun capo. Una rivolta di disperati senza nulla da
perdere; i quali, peraltro, si trovavano in Pianosa per reati che la
Regia Procura di Lucca (dimenticavo: in uno stato squagliatosi,
continuavano a funzionare anche le procure e i tribunali, tutti
“regi” seppure il “re” avesse tagliato la corda) aveva
appurato “non essere infamanti”. Sì, perché era stata ordinata
un'inchiesta sui fatti, per quanto possa sembrare incredibile, ed
erano persino state messe sotto inchiesta le guardie italiane (non i
tedeschi, ovviamente). Tutte assolte in breve tempo perché gli
avvenimenti erano stati fatti passare come “originati in
conflitto”; la procura di Lucca, però, ad un certo punto cominciò
a dubitare che i diciannove “capi della rivolta”, tra cui i
cinque bastonati a morte, fossero stati presi a caso. Uno qui, uno
là. Il confine tra il bastone che ti ammazza e il restare vivo
affidato al puro caso, o all'ambarabà cicciccoccò di qualche
assassino in divisa. Tutto fu chiuso rapidamente, anche perché il
bagno penale non aveva, dopo di allora, subito altri turbamenti.
Disciplina durissima, pane e
acqua se c'erano, e botte quotidiane elargite in santa comunanza da
italiani e tedeschi. Cinque ammazzati; seppelliti in fretta e furia
sull'isola, con le usuali croci numerate dei carcerati (se ne
conoscono i nomi dai registri). Ne restavano quattordici; feriti,
febbricitanti, senza mangiare e senza bere. Anche di questi, i
registri riportano i nomi. Con la provenienza e l'età di ciascuno di
loro.
Marino
Caceffo, di Verona, cinquantasei anni. Michele Franchina, di
Castell'Umberto, provincia di Messina, quarantacinque anni. Pietro
Albanese, di Petralia Soprana, provincia di Palermo, quarantatré
anni. Gino Lucca, di Firenze, quarantatré anni. Guido Lucca, di
Firenze, fratello di Gino, quarant'anni. Carmine De Rosa, di
Quindici, provincia di Avellino, quarant'anni. Antonino Giarrizzo, di
Adrano, provincia di Catania, quarant'anni. Giovanni Capasso, di
Somma Vesuviana, provincia di Napoli, trentanove anni. Luigi
Chizzoniti, di Radicena, provincia di Reggio Calabria, trentanove
anni. Edoardo Moramarco, nato al Cairo in Egitto, trentanove anni.
Mario Carlo Beraud, di Oulx in Valsusa, provincia di Torino,
trentasette anni. Emanuele Fazio, di Palermo, trentacinque anni.
Giuseppe Polimeni, di Cerosi, provincia di Catania, trentadue anni.
Antonino Violante, di Rosali, provincia di Reggio Calabria, trentuno
anni. Cinque siciliani, due calabresi, due toscani, due campani, un
veneto, un piemontese e un egiziano. Nessuno al di sotto dei
trent'anni, forse perché per finire a Pianosa era improbabile essere
ragazzini. I registri sono depositati all'Archivio Storico del Comune
di Marciana, di cui Procchio fa parte; lo stesso Archivio che
conserva la nota stilata dalla stessa direzione del bagno penale, in
cui si specifica che “I quattordici detenuti furono
prelevati per ragioni ignote anche alla Direzione degli Stabilimenti
Penali di Pianosa”.
Prelevati.
Feriti, ammalati, affamati. Sotto la sorveglianza di un maresciallo
italiano, furono presi dai soldati tedeschi e fatti marciare da un
capo all'altro dell'isola, per trovare un posto dove rinchiuderli
separatamente; non avendone trovati di acconci, furono fatti salire
in catene su un rimorchiatore, e infilati nella stiva come merce.
Ora, però, bisogna pensare che un rimorchiatore, in realtà non ha
nessuna “stiva”; lo spazio interno è occupato dalle macchine,
dai serbatoi di carburante, dai pozzetti dei cavi di rimorchio, con
una temperatura infernale. Furono sistemati lì. Il settembre del
1943 era, inoltre, caldissimo. Rotta all'Isola d'Elba; ad un certo
punto, per non farli morire asfissiati, gli aguzzini stessi li
tolsero da dove stavano e li fecero salire, sempre incatenati, in
coperta. Avevano fatto credere loro che li avrebbero trasportati al
carcere di Portolongone; i detenuti ne furono sollevati, quasi
felici. Rispetto all'inferno di Pianosa, persino Portolongone doveva
apparire come un luogo desiderabile. La cosa singolare è anche anche
i soldati tedeschi, che avevano prelevato i quattordici detenuti
senza nessun motivo, erano -sembra- intenzionati a portarli al forte
di San Giacomo; e, in effetti, vi furono condotti, a piedi, e fatti
entrare nell'androne. Vi rimasero delle ore, finché il direttore del
carcere, che non ne sapeva assolutamente nulla, non decise di
respingerli. Galeotti rifiutati da una galera. Il direttore disse che
non c'era da mangiare per loro. Furono quindi fatti ritornare al
porticciolo e ributtati sul rimorchiatore, che riprese il largo;
rotta non si sa dove. Per giorni e giorni il rimorchiatore vagò un
po' costeggiando l'Elba, un po' spingendosi in mare aperto; tutti,
tedeschi e detenuti, stavano in coperta. Il periplo dell'isola fu
effettuato non si sa quante volte, coi viveri che cominciavano a
mancare; finché non fu deciso, finalmente, l'attracco a Portoferraio
distrutta dal bombardamento di pochi giorni prima. Era il 29
settembre 1943.
Per
rinchiuderli, fu deciso di ricorrere al Forte della Linguella: un
bastione mediceo ottagonale che, decine e decine di anni prima, era
stata la tomba in vita dell'anarchico Passannante, che aveva fatto
una scalfittura a re Vittorio Emanuele II. Tant'è che, ancora oggi,
gli elbani chiamano quel bastione “Torre di Passannante”, e così
anch'io l'ho conosciuta per la prima volta da bambino pensando che
“Passannante” si chiamasse quella zona di Portoferraio. Parecchio
tempo dopo imparai che Passannante, invece, era un anarchico; e che
gli anarchici li pigliavano, li rinchiudevano nelle torri e li
lasciavano lì per dieci o vent'anni nello sterco e in mezzo metro
d'acqua di mare fissa. Finché non diventavano pazzi (anzi, pazzi lo
erano già perché anarchici) e morivano in manicomio criminale, a
Montelupo. Quando morivano, gli staccavano il cervello e lo mandavano
alla Specola o a Cesare Lombroso. In quella torre decisero di
rinchiudere i galeotti rivoltosi di Pianosa, il Caceffo di Verona e i
Lucca fiorentini. Il Giarrizzo di Adrano e il Beraud valsusino. Solo
che la Torre di Passannante, pure lei, era stata bombardata; ed era
mezza crollata. Non c'era posto per quattordici galeotti. Respinti
anche dalla seconda galera; dalla prima per mancanza di viveri, dalla
seconda per mancanza di spazio. Bisognava trovare un'altra galera, ma
di altre galere non ce n'erano a meno di non far ripigliare il mare a
tutti quanti per altre isole lontanissime, la Gorgona o la Capraia.
Basta mare; catene e piedi. Piedi e catene. In fila e marciare mentre
'sto settembre bolle ancora come fosse metà luglio. Mentre
bombardano.
Pianosa
si chiama così perché è piatta come un vassoio. L'Elba, invece, è
tutta una montagna. Piedi e catene, catene e piedi; alla fine,
basta, non possono più andare avanti né galeotti né aguzzini. Di
nuovo al rimorchiatore, e di nuovo in mare. Quella lunare e
spaventosa comitiva, vittime e assassini insieme sulla stessa
carretta, torna a vagare senza meta; a un certo punto finiscono i
viveri a bordo, e tutti si mettono a pescare. Può darsi che le
vittime e i carnefici comincino pure a discorrere, ché la differenza
delle lingue non è mai stata un problema; del resto, fra loro
stessi, sarebbe stato ben difficile che un veronese si capisse alla
prima con un calabrese, o un valsusino con un palermitano. Vorrei
persino spingermi a dire che, in quella situazione pazzesca, senza
una ragione, ad un certo punto del vasto mare tutti si siano
dimenticati del perché stessero su quel battello che arrancava. Che
a tutti fosse presa la voglia di far rotta verso il continente, e
via. Tornare a Rosali, a Firenze, a Radicena, persino al Cairo. O in
qualche ignota plaga della Pomerania o del Mecklemburgo. Al
diciassettesimo giorno di giri nel niente e di galere che non
volevano galeotti, invece, un sottufficiale tedesco pensò che,
forse, era meglio tornare dov'erano partiti. A Pianosa. Non ci volle
molto per tornarci; l'isola era già in vista con la sua galera, e
stavolta non ci potevano essere dubbi che i galeotti sarebbero stati
accolti: per forza. C'erano già. Era il loro carcere di
assegnazione. A meno di un miglio dal porticciolo di Pianosa, però,
il rimorchiatore, dopo diciotto giorni di navigazione quasi
ininterrotta, diede forfait. Un guasto. Che parve riparabile, al
momento; tutti quanti, detenuti compresi, di misero al lavoro per
smontare la macchina in avaria. Però il tempo era cambiato
all'improvviso; il vento s'era messo a maestrale, presagendo
l'autunno. Il rimorchiatore, con la macchina smontata, non era più
governabile e il timone non pescava; e non s'è mai visto un
rimorchiatore a vela. La macchina non veniva riparata e la nave
andava alla deriva; furono alzate le bandiere di soccorso, e arrivò
una motobarca dall'Elba.
Data
la situazione, i detenuti furono riuniti e fatti salire sulla
motobarca di soccorso, sotto stretta scorta armata. Terminato
all'improvviso il barlume di fraternizzazione, se mai c'era stato. Di
nuovo tutti al loro posto: le guardie armate e i dannati sotto
punteria, in catene. La lancia, per le condizioni del mare che
cominciava a ingrossarsi, non poteva arrivare in Pianosa con più di
venti persone a bordo; fece quindi rotta verso il porto più vicino
dell'Elba. Marina di Campo. Dove, in quel momento del 1943, già
erano viventi mia madre, i miei zii, le mie zie, la mia bisonna
Giuseppa. E decine di altre persone che ho conosciuto, con cui ho
parlato, che ho toccato e sentito respirare. C'era già tutta la mia
memoria mentre quei disperati sbarcavano, presumibilmente al molo
dopo aver doppiato punta Bardella e visto la spiaggia di Galenzana.
Ma nemmeno a Marina di Campo esistevano carceri; e tutti
ricominciarono a vagare senza meta. Prima per il paese, poi per le
campagne. Al Crino, al Vapelo, al Formicaio, alla Piastraia; il
sottufficiale tedesco, ad un certo punto, ordinò al maresciallo dei
Carabinieri di trovare una sistemazione per la notte. Fu trovata una
stalla. Probabilmente in quella notte fu deciso il destino di quelle
quattordici persone in catene.
I
tedeschi non ne potevano più. I galeotti si erano addormentati,
sfiniti; probabilmente non avevano la minima intenzione di tentare la
fuga, e non ne avevano più nemmeno la forza. D'altronde, una stalla
non era una galera; bastava tirare un calcio a una porta malandata
tenuta con lo spago; arrivò anche il maresciallo dei Carabinieri,
quello che aveva reperito quel posto. Ci fu, verosimilmente, un
confabulare mentre i detenuti dormivano.
Furono
svegliati all'alba; era il ventesimo giorno dal loro prelevamento
dalla Pianosa. Mercoledì 13 ottobre 1943, una giornata che, dopo un
assaggio di autunno, s'era rifatta calda. I quattordici furono
rimessi in marcia; ma, stavolta, verso l'interno. Uscirono dal paese
e presero la carrareccia per Portoferraio; arrivarono, dopo due ore
di cammino, a Procchio. Qui, finalmente, furono condotti sulla
spiaggia; era quello il posto deciso dopo il confabulare notturno tra
i tedeschi e il carabiniere. Bisognava farla finita. Sbarazzarsi di
quel carico di bestiame il quale era stato portato via non si sa per
che cosa. Una volta sulla spiaggia, però, quei quattordici uomini
pensarono di poter chiedere un altro po' di riposo dopo la marcia nel
sole; fu loro accordato. Quando furono svegliati, nel pomeriggio,
furono consegnate loro delle pale e delle vanghe. Attrezzi di lavoro.
Bisognava scavare; fu fatto loro credere che si trattava di una
trincea. Del resto, uno sbarco era possibile; credettero che, in
mancanza di un carcere, fossero stati assegnati alla guerra. Una
trincea, poi magari dei reticolati, altre opere; lavorare. Finito il
lavoro, furono di nuovo incatenati; ma sul bordo della fossa che
avevano essi stessi provveduto a scavare. Finalmente capirono.
I
soldati furono fatti prima allontanare, poi tornarono con dei mitra e
si schierarono.
Due
raffiche a distesa.
Forse,
se avessero potuto, avrebbero ordinato ai galeotti persino di
ricoprirsi, da soli, i loro cadaveri. Toccò, invece, farlo a loro.
La sabbia della spiaggia di Procchio. Le barche alla fonda. Una
vecchia paranza arenata. La notte.
*
Chissà,
può darsi che vi stiate chiedendo se la storia che ho raccontato è
vera.
Rispondo
che mi piacerebbe che non lo fosse. Che, in una notte di gennaio, mi
sia venuta in mente una storia come ne ho fabbricate altre; no. Non è
così. Lo chiamano l' “Eccidio di Procchio”, e se ne ha da un po'
sommaria notizia persino su Wikipedia (coi nomi dei detenuti
massacrati). Non ne avevo mai saputo niente fino alla scorsa estate,
quando me ne aveva fatto mezza parola un giovane amico e compagno anarchico di terre
lontane, innamorato dell'Elba; cosa avvenuta proprio a Procchio, una
sera d'agosto. Questo giovane amico sappia che io non dimentico nulla di ciò che mi viene detto. Neppure una parola. Mi ci vogliono poi mesi, e a volte anni, per elaborarla e cavarmela fuori dalle viscere; ma vorrei ringraziarlo qui, con un abbraccio e con la promessa di rivedersi presto all'Elba.
Eppure sembrerà
magari strano che proprio il sottoscritto non abbia, fino a pochi
mesi fa, mai saputo nulla di una storia del genere; ma è così.
Mai sentita da nessuno, all'Elba. Rimossa. Non una lapide, non un
ricordo qualsiasi che sia uno, almeno a mia conoscenza; poi, mi
auguro, potrò sbagliarmi. Uno dei tipici casi in cui si amerebbe
parecchio essere smentiti. Del resto, è una storia di carcerati; non
ci sono, qui, partigiani o resistenze. Non ci sono nemmeno i civili
massacrati dalle orde nazifasciste; Procchio non è Marzabotto, non è
Sant'Anna di Stazzema, non è il Padule di Fucecchio. E' una spiaggia
dove furono ammassati quattordici detenuti sul bordo d'una fossa.
Quattordici delinquenti, e delinquenti rimangono anche se
ammazzati dai tedeschi in un giorno del '43.
Raffaello (Raffaele) Brignetti.
Ci
sono dei documenti nell'Archivio Storico del Comune di Marciana,
però. E, soprattutto, c'è la testimonianza di Giulio Caprilli.
Aveva quindici anni quando venne a conoscenza di quel che era
accaduto; scrisse un racconto, in una rara edizione, intitolato: La
ritrattazione. Quel che ho raccontato, quindi, non è quasi in
niente farina del mio sacco, né ho intenzione di farla passare per
tale. Stralci del racconto si trovano qua; se avrete la
bontà di leggere tutto quanto, vedrete pure che qualche parte del
mio racconto è stata ripresa quasi di peso da quello, bellissimo, di
Giulio Caprilli. Il quale fu poi commentato da uno dei più grandi
scrittori che l'Elba abbia avuto: Raffaele Brignetti, detto
Raffaello. Dato che il sottoscritto non corre certamente il rischio
d'essere ricordato come tale, si può permettere anche il lusso, una
sera sfociata in una notte, di fare una specie di “collage” per
parlare d'una cosa che ignorava del tutto fino a ier l'altro. E anche
quello, verso mezzanotte, di pigliare il telefono, chiamare quella
incallita tiratardi di sua madre e di chiederle se, per caso, sapeva
qualcosa di quattordici detenuti della Pianosa che erano stati
ammazzati sulla spiaggia di Procchio un giorno d'ottobre del '43.
Sapeva tutto. Non me lo aveva mai raccontato. E mi dice anche che la
zia Clara sa tutto, che sapevano tutta quanta la storia a Campo, a
San Piero, a Sant'Ilario. Sento, al telefono, i berci di mia zia: “ma
senti te, ma senti te, ma dove l'ha scovata...?”
Non
l'ho scovata; stavolta sono stato scovato io. Ciononostante, penso
che questa specie di “centone” malfatto potrebbe essere di una
qualche utilità; e qui mi tiro un paio di nocchini da solo e ricorro
ad uno dei più triti artifici che esistano per chiudere un racconto.
Quello del “viandante”. Ma dove diavolo esisteranno, al giorno
d'oggi, i viandanti? Eppure, mi toccherà andare a finire così. Se
dunque codesto famoso viandante, che magari potresti anche esser tu
mentre ti fai un bel bagno la prossima estate, si trovasse sulla
spiaggia di Procchio, ci pensi un istante. Pensi a com'è stata vista
quella stessa spiaggia da quattordici dannati, un lontanissimo giorno
d'ottobre. Pensi alla raffica, e alla luce che si spegneva su quelle
onde dove ora un bambino gioca con la sua palla.