Francesco Busacca, detto Ciccio (o meglio, Cicciu), nato a Paternò in provincia di Catania il 15 febbraio 1925, girava la Sicilia, anche nei paesi più sperduti e dimenticati, a bordo della sua vecchia Fiat 600 Multipla col tetto apribile. A bordo aveva poche cose: un paio di chitarre, delle corde di ricambio e il tabellone che illustrava le storie che raccontava in musica. I disegni se li faceva da sé; le storie, a volte, le scriveva assieme alla sorella Concettina. Era un cantastorie, ma non di quelli come oggi si compiacciono (spesso a sproposito) di essere definiti e di autodefinirsi non pochi cantautori. Era un cantastorie di quelli veri, nati nelle campagne di un qualche mondo, e che andavano di paese in paese a raccontare storie vere, “fatti e fattacci” avvenuti a un chilometro di distanza o agli antipodi. Nel mondo rurale (ma, non di rado, anche nelle città) avevano funzione di vero e proprio “giornale cantato”, anche se il “giornalismo” che esercitavano era quello che oggi chiameremmo di bassa lega, da “Cronaca Vera”; ma, in alcuni casi, sviluppavano una passione per la narrativa e per la denuncia civile che li innalzavano a poeti e cantori popolari. Ciccio Busacca era uno di questi; possedeva inoltre, caso non frequente, una grande sensibilità musicale.
Negli anni che verranno incontrerà un grande poeta: Ignazio Buttitta. Da questo incontro scaturirà la composizione più famosa di Busacca, il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali, su versi di Buttitta dedicati alla storia di un sindacalista socialista, Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia nel 1955. Negli anni '70 ebbe una famosa esperienza teatrale con Dario Fo, partecipando allo spettacolo di canzoni popolari Ci ragiono e canto; lo si sentiva non di rado anche in radio, e lo si vedeva alla televisione.
Con la fine degli anni '70, il periodo di interesse nei confronti dei cantastorie popolari (e anche dei cantautori che cantastorie popolari non erano) iniziò inesorabilmente a declinare; si preparavano i funesti anni '80. Ciò non corrispose però affatto a un declino artistico di Busacca e degli altri cantastorie siciliani, che però dovettero letteralmente soccombere alla diffusione della televisione e degli altri mezzi di comunicazione di massa. Non era la fine soltanto dei cantastorie (tra i quali sopravvive, forse, il solo Franco Trincale) ma di un'intera civiltà che, nelle sue forme (tra le quali la diffusione orale delle notizie in musica attraverso l'attività dei cantastorie), era sopravvissuta per secoli. Le notizie di cronaca, oramai, arrivavano alla gente direttamente dai teleschermi, senza nessuna “mediazione” poetica; i cantastorie erano relitti di un passato millenario. Ciccio Busacca muore a Busto Arsizio, in Lombardia, l'11 settembre 1989.
Ce li portò però, sulla Luna, nelle forme usuali dell'emigrante. Mica con l'astronave supercomputerizzata della NASA, che sbarcò sulla Luna guidata da un “cervello elettronico” che aveva la potenza di un attuale telefonino in vendita a 20 euro al supermercato. No, ce li portò con le valigie, senz'altro legate con lo spago anche se la canzone non lo dice. Ce li portò, naturalmente, a far fortuna; parola che, inesorabilmente, fa la rima con “luna” e ci dev'essere. Ce li portò a far soldi, sulla Luna, alla stessa maniera di come se ne andavano a Torino, in America o in Australia. Ce li portò a lavorare in condizioni finalmente giuste, perché -come è arcinoto- sulla Luna si lavora, si guadagna e non c'è nessuno che batte la fiacca. Ce li portò coi canti della propria terra, come dubitarne? Sulla Luna non poteva mica risuonare soltanto la lingua barbarica degli astronauti (anche se sembra che, a un certo punto, uno di loro -forse lo stesso Armstrong, non ricordo- abbia esclamato “Mamma mia!” in italiano, chissà perché); ci volevano anche Vitti 'na crozza e, perché no, anche la storia della ragazza che aveva accoltellato il suo stupratore e quella del sindacalista ammazzato dai mafiosi. E sulla Luna, poi, non c'è nessuno che comanda (forse, chissà, ci avrà trovato anche il conterraneo Alfonso Failla, magari assieme a qualche cavatore di Carrara; chissà quanto marmo ci dev'essere sulla Luna, senza che te lo vengano a prendere le multinazionali). Sulla Luna non ci sono ladroni, ma non esistono nemmeno giudici e tribunali; e non ci sono re, presidenti, stati e ministri. Non c'è la burocrazia. Non c'è la guerra. C'è la vera libertà.
È, me lo si lasci dire, una canzone straordinaria. Ho un ricordo, seppure sbiadito e di ragazzino, di quegli anni della Luna. Anche noi si giocava, alle scuole elementari, a immaginare che cosa avremmo fatto sulla Luna; avevamo passato anche la fase del “voler fare l'astronauta”. Eravamo già astronautati e ci trovavamo già in piena Luna a voler fare, magari, gli elettricisti. O gli ingegneri. O gli operai lunari. E' così che, senza saperlo, abbiamo incontrato tutti quanti Ciccio Busacca, che sulla Luna c'era naturalmente già andato assieme a mezza Sicilia. Girava per il Mare della Tranquillità (che, credo, fosse in provincia di Siracusa) a bordo di una Fiat 600 Multipla, e raccontava storie cantandole.
MI 'NNI VAJU 'NTA LA LUNA
partu 'n cerca di fortuna
aju pronti li valigi
mi 'nni vaju 'nta la luna
'Nta la luna ,'nta la Luna
'nta la luna si travagghia
nunu c'è nuddu ca varagghia
li dinari fazzu 'ddà
'Ddà ci portu tutti i canti
di la bedda terra mia
ca sù tutti puisia
e li fassu pazzià
'Nta la Luna, 'ntà la Luna
nun c'è nuddu ca cumanna
nun ci sunu 'sti latruna
nun esisti la cunnanna
Nun ci sunu 'sti rignanti
nun ci sunu 'sti ministri
nun c'è carta nè registri
tutti uguali semu 'ddà
Semu 'ddà tutti patruna
pirchì è libera la terra
nun c'è nuddu ca fa guerra
c'è la vera libirtà
c'è la vera libirtà
c'è la vera libirtà
ME NE VADO SULLA LUNA
Vi saluto, cari amici,
parto in cerca di fortuna.
Ho già pronte le valigie,
me ne vado sulla Luna.
Sulla Luna, sulla Luna,
sulla Luna si lavora,
non c'è nessuno che poltrisce,
i quattrini ci faccio, là.
Là ci porto tutti i canti
della bella terra mia,
che son tutti poesia
e li faccio divertire
Sulla Luna, sulla Luna
non c'è nessuno che comanda,
non ci sono 'sti ladroni
non esiste la condanna
Non ci sono 'sti regnanti,
non ci sono 'sti ministri,
non c'è carta né registri,
tutti uguali siamo là
Là siamo tutti padroni
perché libera è la terra,
non c'è nessuno che fa la guerra,
c'è la vera libertà
c'è la vera libertà
c'è la vera libertà.