venerdì 25 ottobre 2013

Contro il futuro.



Non solo le linguistiche teoriche (e la filosofia del linguaggio) hanno da dire molto sulla contemporaneità; anche la linguistica storica porta a considerazioni da tenere presenti. Ad esempio, ogni indoeuropeista sa che la ”protolingua”, vale a dire l'indoeuropeo ricostruito (o meglio, ipotizzato) attraverso la comparazione tra le varie lingue storiche e documentate nella loro evoluzione, era totalmente privo del futuro nella coniugazione verbale. Il ”futuro” è stato inventato molto dopo, e ogni lingua ha provveduto a modo suo; il greco antico, ad esempio, lo ha formato a partire dall'aoristo ”sigmatico”, ed ha quindi in origine un valore non tanto di futuro, quanto di tempo indefinito. Nello sviluppo di quella lingua, poi, ad un certo punto il futuro è di nuovo scomparso, ed è stato riformato in epoca medievale in modo del tutto differente (vale a dire premettendo una particella alle forme del congiuntivo, θα o θενά, derivata da θέλω να “voglio che”). Le lingue germaniche più antiche (gotico, antico alto tedesco, antico islandese, anglosassone...) non avevano la benché minima forma autonoma di futuro, e si sono poi arrangiate ognuna per sé (l'inglese col verbo “volere”, il tedesco con “diventare”, le lingue scandinave con “dovere” e così via). Il latino ebbe un futuro formato in parte con un suffisso derivato dalla radice dell' “essere” (-bo, -bis), in parte da un antico congiuntivo (faciam, facies); ma tale futuro si è perso del tutto nelle lingue neolatine, che in genere hanno detto “ho da fare”: facere habeo, da cui “farò”, “haré”, “ferai”. Il rumeno, però, che va sempre per conto suo, ha fatto in due modi differenti: uno letterario col verbo “volere” (ancora), voi face, e uno popolare con una particella e il congiuntivo, o să fac. Ciò non toglie che, anche nelle lingue neolatine compresa l'italiano, il “modo antiquo” sia rimasto come in tutte le altre lingue: vale a dire fare a meno del futuro. Il futuro è inutile, dire “domani faccio” invece di “domani farò” è esattamente la stessa cosa, come gli inglesi dicono I go tomorrow (o I'm going tomorrow) e i tedeschi ich gehe morgen. E i rumeni merg mâine, gli svedesi jag går i morgon e i greci πάω αύριο. Dalla gente che parla, il futuro non è riconosciuto: si usa il presente, come è sempre stato. Uscendo dalle lingue indoeuropee, l'ungherese ha un suo futuro formato o col verbo “cominciare” e l'infinito (menni fogok “comincio a andare” = “andrò”), ma è una forma libresca; per la strada si dice majd megyem “vado fra un po'” o semplicemente megyem, come dappertutto. Il suo “cugino” finlandese ha ritenuto del tutto superflua qualsiasi forma di futuro; non ce lo ha mai avuto e dice tuttora menen. Non si parli poi delle lingue, come il cinese o il malese, che non coniugano nemmeno i verbi; lì il problema non si pone. Il futuro, insomma, non esiste; ad un certo punto qualcuno deve avere avuto una geniale pensata.

Gli è che se ne può fare tranquillamente a meno, del futuro. Nei verbi come in qualsiasi altra cosa. Vuoi diventare geometra? Certo, non puoi dire “sono geometra” col presente, perché vorrebbe dire che lo sei già; ma puoi dire “voglio essere geometra”, poi dipende da te e dalla geometria. Il fatto è che il “futuro”, nei verbi come altrove, sembra essere stato inventato per tutta una serie di cose che vanno dal fregare all'illudere, dall'opprimere al piegare, dal convincere all'obbligare, dall'ingabbiare al morire. Così, a forza di “futuro”, si crea la macchinetta obbediente, si crea la “speranza” e la “delusione”, si dà a credere che “bisogna crearsi un futuro”, si fabbricano i “vincenti” e i “perdenti”; così si costruiscono le categorie sociali e generazionali, tipo i famosi “giovani in cerca di un futuro”, con tutte le conseguenti strutture al servizio di un'altra cosa che, lei sì, ha bisogno del “futuro” nella sua vera essenza: il profitto. Il profitto ha bisogno di programmare per riprodursi nei suoi meccanismi, quindi deve stabilire la trafila che porti l'essere umano ad essere inserito costantemente, e ineluttabilmente, nei suoi ingranaggi. Tutti questi “giovanotti in crisi”, “senza un futuro” e via discorrendo, tutte le loro “fughe” condite con le “speranze”, tutto quel loro “non avere un futuro” da Vimercate a Canicattì, è indice preciso di tutto questo stato di cose. C'è stato forse un periodo in cui dei loro coetanei hanno parlato molto poco del “futuro” basato sull'affermazione personale concepita come soddisfazione di “esigenze” interamente circoscritte in un tipo di società, e si sono concentrati sull'abbattimento di un presente che avrebbe creato il solito “futuro” da schiavitù; sono stati distrutti. Alcuni hanno pensato bene di rientrare nell'alveo, alcuni altri hanno addirittura abbracciato il profitto con passione, a volte servendosi del loro passato; ora basta accendere la televisione per sentire le quotidiane geremiadi dei “giovani senza futuro”. Che “futuro” desiderano, dunque, 'sti giovani?

Vogliono il lavoro, naturalmente. Il lavoro e tutte le sue “conquiste”. Vogliono il reddito, magari per potersi fare la famiglia. Vogliono le cose senza le quali, chiaramente, il “futuro” non può esistere; in questo senso, tra l'altro, non si creda che esistano bisogni “primari”, “secondari” e “superflui”. Nel sistema capitalista questa suddivisione non ha ragione di essere, la casa vale quanto l'iPad. Le “famiglie che non vanno avanti” non ci vanno perché non possono più permettersi il “tenore di vita” che è stato loro fabbricato come necessario. A questo modo non si va più via per conoscere il mondo, ma esclusivamente per cercare di ricreare altrove ciò che nel proprio paese, in un dato momento storico, non appare più possibile. Lavoro, casa, famiglia, soddisfazione personale, sicurezza della materialità. So che è un discorso parecchio duro da fare, ma è la molla che spinge anche la maggior parte degli immigrati, anche quelli che scappano sui barconi da guerre e carestie. Chi si è vista distrutta la propria materialità, scappa per cercare di ricrearsela altrove; e sono diventato parecchio scettico sul “valore rivoluzionario” o comunque di cambiamento che certuni attribuiscono ai flussi migratori. Gli immigrati “non ci salvano dagli italiani”, come si legge sui muri; vengono, o passano di qui, per andare nel famoso “mondo migliore”, vale a dire dove ci siano lavoro, terra e possibilità, dove possano fare figli, dove possano avere istruzione e “integrazione”. Non sono portatori in sé di nessuna forza di cambiamento, in quanto anch'essi facenti parte di un sistema i cui ruoli non sono messi affatto in discussione. Senza vedere e capire questa cosa elementare, si fa come sempre: il fine ultimo, anche della maggior parte degli immigrati, è una bella vita borghese nei suoi vari gradi, con tutta la famiglia di prammatica. Si può sopportare anche il razzismo, per questo. Per questo la “comunità senegalese” di Firenze si è accontentata di una bella preghierina dell'imam, e di due o tre cittadinanze concesse per far fare bella figura al sindaco, e non ha spaccato ogni cosa dopo i fatti di Piazza Dalmazia; per questo preferiscono la “moschea” alla rivolta, con noialtri che immaginiamo chissà quali sollevazioni che non possono esistere. I “dannati della terra” non hanno confini né colore; siamo tutti dannati all'interno di un percorso obbligato che, però, non viene assicurato a tutti.

Dovrebbe quindi essere chiara la truffa del “futuro”. Come scrivono alcuni sui muri, perlopiù anarchici: Lavoro, casa, famiglia, macchina, telefonino....e domani muori. Usando, come si vede, il tempo presente. Gran tecnologia, “comunicazione” planetaria senza in realtà comunicare mai nulla se non la propria impotenza e la propria incapacità di ribellarsi (a parte qualche ribellione personale espressa in “stili di vita” o “concezioni” che in gran parte si rivelano del tutto innocue), “sollevazioni” in pompa magna che si risolvono in colloqui col signor ministro, “lotte per la casa” che si concludono non appena ti danno un buco e chi s'è visto, s'è visto (vale a dire: chi il buco non lo ha avuto, cazzi suoi; basta che ora io e la mia famigliuola di merda ci abbiamo dove stare e dove arrivare a fine mese, italiano o immigrato che sia). In questi ultimi tempi hanno tirato fuori alcune perle, come ad esempio la “decrescita”: qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai si deve per forza “crescere”. O non si doveva abbattere il capitalismo? Che sarà mai questo “decrescere”? Del tutto persa la capacità di inventare e portare avanti nuove forme per superare l'esistente, senza perdere di vista quelle già inventate e che sono state peraltro dimenticate, irrise e distrutte, ci si è di nuovo infilati a pie' pari nell'esistente senza alternative, con conati di “lotta” che non supereranno mai un bel niente a parte la rivendicazione di “diritti” o di “beni comuni”. Rivendicazione che può essere soddisfatta o aggirata, ma che rimane sempre all'interno del capitalismo e delle sue strutture. Non è che non ci si accorga di questo: semplicemente lo si rifiuta. Si fa riformismo cianciando di chissà quale “rivolta”. Nemmeno capaci di atti squisitamente concreti tipo, che so io, ripulire una città dalle “telecamere amiche”, tutti gelosi della privacy e della riservatezza come siamo diventati, e poi zitti senza fiatare di fronte all'osservazione poliziesca continua cui non si sfugge. Si fa il bel corteone a Roma, e settantamila persone che vogliono cambiare sarebbero in grado di mettere a ferro e fuoco una città; altro che focherelli con qualche buffetto e qualche arresto non convalidato. Invece no: si sfila per la casina, per i “diritti”, “isolare i violenti”, la mammina di famiglia con cinque figli che fa la commovente intervista, e gli “antagonisti” che (ant)agonizzano. Contentandosi che “esista un movimento”, ma de che? Va bene, sono sconfortato e non mi sono accodato a chi si vuole ancora illudere a base delle stesse manifestazioni cui io stesso ho partecipato, a decine e decine. Ma il “futuro”, anche se non sono più “giovane”, l'ho definitivamente buttato nel cesso e tirato lo sciacquone. Almeno quello, per quel che mi riguarda, è abbattuto; come nelle lingue indoeuropee storiche, e contro tutte le fregature coi verbi ausiliari, le particelle e la maiala di su' ma'.

L'altro giorno, a una non so quale trasmissione televisiva, ecco l'ennesimo giòvine, ecco l'ennesima ragazzotta che “se ne vogliono andare” perché “non hanno un futuro”. La cosa sembra essere passata: le stesse cose le dice Gianni Letta, non so se avete notato. Il “futuro” serve a far inghiottire ogni cosa; la “legge di stabilità” non si fa mica per rastrellare soldi e per continuare a pagare le “missioni di pace” e gli F35, si fa per “creare un futuro ai giovani”. Bisognerebbe cominciare a fucilare un bel po' di giovani e del loro futuro del cazzo, delle loro Americhe e delle loro Inghilterre, dei loro lavorini e delle loro speranzielle di stramerda, ché tanto sono tutte uguali e non escono mai dalle gabbiette preparate. Fucilare i loro “profili Facebook” che poi servono per “fabbricare la storia” quando incocciano in un gruppo di pazzi briachi che li ammazzano a Milano come nel Kent. Fucilare il futuro potrebbe, questo sì, portare ad un reale cambiamento; ma prima bisogna cominciare a fucilare il presente. Ora come ora, al massimo gli si tira un uovo e questo può essere già sufficiente per la galera. Ma, del resto, la galera piace tanto. Piace nelle strutture mentali e nella pratica quotidiana. Piace perché è rassicurante al massimo grado. Piace, soprattutto, perché si crede che una galera sia soltanto un edificio con le sbarre, i reticolati, le celle e le guardie, dove si rinchiudono coloro che hanno contravvenuto alle “regole”; quella galera lì si può anche fantasticare di “abbatterla”. Ma la galera è dovunque, ed è dentro di noi che siamo incapaci di vederla in tutti gli aspetti della vita; la galera è nella famiglia, è nella scuola, nel lavoro, nei desideri inculcati, nel nostro zampettare al suo interno come scimmiette in gabbia; ed è una galera globale che ha il “futuro” come uno dei suoi più zelanti e spietati secondini. Quando cominceremo finalmente ad ammazzarlo, quando saremo capaci di eliminare il dopo per prenderci l'adesso, se ne riparlerà.

Peraltro, la lingua albanese, ora che ci penso, pure ci ha il suo futuro con la particella: do të shkruaj “voglio scrivere”; e così il bulgaro šte pišem. In russo hanno deciso che il presente dei verbi perfettivi abbia valore di futuro, per decreto, come con un ukase dello zar. E se si va nelle lingue artificiali, beh, dal doktoro “Esperanto” non ci si poteva aspettare che nella sua lingua non ci infilasse pure il futuro; ma che ti pare! Ora che ci penso, persino io stesso nel “kelartico” non ho saputo farne a meno: potevo anche tenermi il mio semplice madăm “io amo” ed evitare il madsyem “io amerò”. Certo, in passato ho eliminato dalla lingua tutta una serie di complicate declinazioni, chissà che il futuro non faccia presto la stessa fine; me lo posso permettere.

Nell'immagine: Qualcuno che, col "futuro", l'ha preso nel culo alla grande. Ogni tanto qualche scarna soddisfazione esiste; si completerebbe vedendo Gianfranco Fini emigrare in Inghilterra ed essere riempito di cazzotti da quattro o cinque estoni strafatti di "Vabarigis Valge".