martedì 1 ottobre 2013
Odio le fabbriche, di Sandrone Dazieri.
di Sandrone Dazieri.
Credo che fosse una delle mie prime
occupazioni, una fabbrichetta dismessa a Milano che durò giusto il
tempo di farci una cena militante prima che arrivasse la polizia.
Ricordo che salii all’ultimo piano, dove c’erano tre o quattro
stanzoni che una volta contenevano macchinari pesanti, di cui
rimanevano solo graffi sull’impiantito e cavi penzolanti. Tutti gli
stanzoni si aprivano nei muri divisori con una finestra orizzontale
protetta ancora da vetri sporchi. Ero con un compagno più vecchio –
anche se più giovane di come sono ora – e gli chiesi a cosa
servisse. Lui mi fece mettere di fronte alla finestra del primo
stanzone, che scoprii essere perfettamente allineata alle altre. “Da
qualsiasi punto si può vedere quello che succede in tutti i reparti”
mi disse. “Per controllare”.
Pensai che un posto costruito per il
controllo fosse un abominio. Non solo per i controllati, ma anche per
i controllori. Come diventi passando la vita a spiare i gesti degli
altri, a impedire che escano dagli standard, che si batta la fiacca?
Come si diventa a ripetere tutti i giorni il medesimo movimento?
Sperai che tutte le fabbriche diventassero come quella dove stavo,
vuota e polverosa.
Odio le fabbriche.
Da bambino, a casa mia arrivava due
volte il giorno il suono di una sirena. Veniva da lontano e la
immaginavo sull’altra riva del Po, anche se probabilmente si
generava poco dietro il mio quartiere. Mia madre mi aveva spiegato
che si trattava della sirena di inizio turno di una fabbrica. Mi
figuravo gli operai che entravano correndo e poi uscivano al secondo
fischio lenti, coperti di polvere e le facce stanche. Li vedevo
dentro aspettare quel suono che li avrebbe liberati, sentirlo anche
di notte mentre dormivano. Quando anni dopo vidi Metropolis, scoprii
che la marcia cadenzata dei lavoratori era identica a quella che
immaginavo da bambino. Anche le facce erano le stesse.
Odio le fabbriche.
Gli operai devono lottare, salire sulle
torri, minacciare il suicidio, per avere il privilegio di rientrare
in luoghi che fanno di tutto per renderli omogenei a un modello. Che
li costringono a compiti infami, ubbidendo all’arbitrio di una
complessa e ottusa catena di comando. Che fanno loro produrre merci
di cui spesso non vedono la totalità. Che li ammazzano. Li
schiacciano. Li bruciano. Li fanno ammalare. E schiacciano, bruciano
e fanno ammalare quanto circonda la fabbrica. Quando chiudono, quando
falliscono, non capisco perché ci si disperi. Io gioisco. Io dispero
per chi è costretto a tornarvi.
Odio le fabbriche.
E come campano gli operai se chiudono
le fabbriche? Questa è la domanda cui tutti sembrano avere una sola
risposta. Le fabbriche non devono chiudere e gli operai devono
tornarvi. Anche se le condizioni saranno peggiori, anche se si tratta
di una mostruosità avvelenatrice come l’Ilva, del buco nero di una
miniera di carbone. Una volta gli operai barattavno la loro vita con la certezza
di un reddito, ora la barattano con un’insicurezza prolungata. Se
la fabbrica chiude bisognerebbe dare un premio a quelli che
vi si sono consumati. Li si dovrebbe accogliere come chi esce da un
carcere, come chi esce da un lager. Li si dovrebbe ringraziare per il
sacrificio, e aiutarli a trascorrere una vita serena. Date
un’occhiata al valore delle transazioni finanziarie che si
effettuano in un solo minuto, a quanto costa un cacciabombardiere.
Con una frazione di quei soldi come reddito di cittadinanza, nessuno
dovrebbe tornare in fabbrica. Potrebbero non fare niente, oppure
dedicarsi a lavori socialmente utili. Gli scarcerati delle fabbriche
potrebbero diventare protettori del patrimonio artistico nazionale,
dei boschi, delle coste. Ausiliari nelle scuole. Ripagherebbero i
soldi spesi per il loro reddito in mille modi, a loro volta
generatori di reddito. E quelli che vogliono o se la sentono,
potrebbero essere accompagnati ad attività artigianali, ad aprire un
negozio, a imparare un’arte o un mestiere nuovo. Potremmo investire
su di loro, sulla loro voglia di fare. Ma a dirlo si passa per
eretici. Per criminali. Perché la fabbrica ce l’abbiamo in testa.
E tutto si ribalta. I padroni vogliono chiudere, i compagni vogliono
tenerle aperte, perché non riusciamo a immaginare o praticare
alternative.
Odio le fabbriche.
Lo so. Sto scrivendo un post contro le
fabbriche su un computer assemblato in una fabbrica cinese, e
sappiamo come ci si sta. Probabilmente un capo del mio abbigliamento
– oggi sono sull’elegante – l’ha cucito qualche bambino in
un’altra fabbrica. E anche il cavo che mi porta la corrente è
uscito da una fabbrica, la corrente stessa è prodotta in un luogo
molto simile a una fabbrica. Se davvero chiudesse tutto, mi dicono
gli amici, come faresti? Lo stesso argomento si può usare per tutto.
Come faresti senza gli schiavi, dicevano agli Abolizionisti, come
faresti senza la pena di morte o il laudano? Da piccolo leggevo
fantascienza. A quei tempi si osava immaginare futuri rosei, dove i
lavori ripetitivi li facevano le macchine, e all’umanità rimaneva
il tempo per tutto il resto. Supervisionare le macchine e inventarle,
ovviamente, esplorare lo spazio, combattere gli alieni (solo quelli
cattivi), espandere la coscienza. Trascendere. Ora si immagina solo
la povertà e l’obbligo. Ma anche senza i robot, siamo sicuri che
vi sia un unico modello possibile produttivo? Che l’obsolescenza
programmata delle merci sia necessaria? Ah, ma tu stai parlando della
fine del capitalismo, mi dirà qualcuno. Forse, rispondo io, ma più
probabilmente della sua trasformazione, anzi di un capitalismo che si
è già trasformato, mentre noi siamo rimasti al palo. Comunque, non
è compito mio trovare le alternative economiche. L’importante è
non difendere un esistente che non esiste più e che, quando c’era,
non era nemmeno bello.
Odio le fabbriche.
E odio la retorica sulla classe
operaia, sull’etica del lavoro, sui luoghi di ricomposizione di
classe.
Quando copioincollo, di solito il "cappelletto" lo faccio prima di riportare la cosa scritta da qualcun altro. Per questa cosa scritta da Sandrone Dazieri, lo faccio dopo. Non lo so nemmeno io perché, e del resto non ha grande importanza. Spero, comunque, che abbiate letto queste parole; e queste tre righe le potete anche, e tranquillamente, saltare.