Emiliona io non l'ho mai conosciuta, per il semplice motivo che è morta non so quant'anni prima che nascessi. Però, al tempo stesso, la conosco da sempre; non c'è una volta che sia una che non ne abbia sentito parlare da mia madre e mia zia, quando sono assieme. E che dico mia madre e mia zia; quando era ancora viva tutta la mia tribù allargata, Emiliona era ospite fissa delle lunghissime chiacchiere nel portico, con tutti i suoi aneddoti (che all'Elba non si chiamano aneddoti ma fatterelli).
Quando si nasce a Marina di Campo, ci sono circa 98 probabilità su 100 di far Dini di cognome; e, infatti, Emiliona per l'anagrafe era Emilia Dini. In quei tempi dove il politically correct non faceva parte di questo mondo, se un'Emilia Dini superava certe dimensioni bastava aggiungere il suffisso dell'accrescitivo, e restava per sempre Emiliona; tanto più che, almeno a giudicare dai racconti, "ona" doveva esserlo per davvero. Ma non è questo il punto. Emiliona ci aveva il male. Nessuno sapeva cos'avesse per davvero, e come si chiamasse; era semplicemente il male.
Successe che il marito di Emiliona, un contadino, a un certo punto dovette andare a fare il marinaio e imbarcarsi su qualche mercantile. Fra una vita di merda nei campi e una vita di merda sul mare, aveva scelto quella dove pagavano qualche soldo in più. E così se n'era andato, restando a volte fuori per mesi e mesi; e quando si resta fuori per mesi e mesi e si è magari ancora abbastanza giovani, c'è il caso che in qualche porto esista qualche signorina a pagamento specializzata in marinai. Per farla in breve, il marito di Emiliona, un giorno, era tornato a casa e si era gettato nel letto con la moglie attaccandole la sifilide in men che non si dica. Ma non era quello il male.
Quando Emiliona s'era accorta di stare male, non ci aveva dato peso; il marito era ripartito e andare a Portoferraio dal dottore costava troppo. Quando però la malattia aveva già fatto il suo corso e le si era installata definitivamente dentro, Emiliona ci dovette andare, dal dottore; e la diagnosi fu rapida e evidente. Nulla da fare. Se l'era beccata e se la doveva tenere. Ci sarebbero volute dosi massicce di Salvarsan per cercare di curarla a dovere, ma non ce n'era a sufficienza.
Bisogna sapere che Emiliona, oltre ad essere grossa come una motonave, aveva pure un vocione che sembrava uno scaricatore di porto. Sembra anche che, prima di attaccare qualsiasi discorso, emettesse un caratteristico grugnito che mi piacerebbe poter riprodurre in qualche modo; ci proverò con uno sgrùùùùnf. E così, appena ricevuta la terribile diagnosi, aveva apostrofato il dottore con uno dei suoi mirabili detti: Sgrùùùùùnf, quer troiaio der mi' marito, 'un gli bastava la su' Emilia, quello scostumato. Perché non sapeva né leggere e né scrivere, però nel mezzo del suo eloquio ogni tanto infilava dei paroloni che pronunciava con una proprietà incredibile, senza tirare sfondoni, e con studiata lentezza. Poi s'era alzata bestemmiando iddìo e aveva infilato la porta senza pagare, lasciando il dottore a ridere. La giusta nèmesi volle che il marito tirasse avanti si e no ancora un anno; poi s'imbarcò per sempre sul cargo Eternity, battente bandiera imprecisata.
Di Salvarsan ce n'era poco, e l'Emiliona ci aveva delle crisi terribili della malattia, dolorosissime. Per lenirsi un po' il dolore, cominciò a prendere la morfina. Prima un po', poi un altro po', e poi ancora un altro tanto po'. Alla fine diventò una morfinomane. Una drogata. Il male, quella cosa che a Marina di Campo nessuno sapeva come si chiamasse per davvero, ora lo chiamano: crisi di astinenza. Ora s'immagini una contadina di Marina di Campo negli anni '30 e '40 del secolo ventesimo, vale a dire in pieno Medioevo; un donnone d'un quintale e rotti, vedova, senza figli, con una voce da cignale arrochito e, come se non bastasse, con il male; in breve Emiliona diventò qualcosa di peggio dello scemo del villaggio. Diventò Emiliona, entrando a modo suo in una sua povera leggenda.
Lo scemo ufficiale e consolidato del villaggio, peraltro c'era già. Lo chiamavano Bìbbolo, faceva il cavatore e girava costantemente tenendo uno stecchino da denti in bocca e giocherellando a volte ad infilarsi l'altro capo nei buchi del naso (e questo posso dirvelo perché è morto a novantacinqu'anni e l'ho visto coi miei occhi). Lo chiamavano anche 'Ncorpocebbùio perché quando era a lavorare alle cave del Seccheto non si portava mai da mangiare. Si portava la gavetta vuota e all'ora di desinare passava fra i compagni di lavoro; chi gli buttava dentro due cucchiaiate di zuppa, chi un pezzo di pane, chi un po' di verdura lessa, chi un pezzo di pesce, chi un grassello di carnaccia. E lui mescolava e si mangiava tutto, dicendo: In corpo c'è buio. E' morto girando per i campi con il suo stecchino. C'erano degli operai a scavare un pozzo. Avevano lasciato scoperta una presa trifase a 380 volt per il compressore, e lui s'era messo a tocchicchiarla beccandosi una scarica che l'aveva lasciato secco. Sennò sarebbe ancora vivo, uno del genere non ci era riuscita nemmeno una vita a quel modo ad ammazzarlo.
E così Emiliona cominciò la sua carriera di drogata senza sapere di esserlo e senza che gli altri lo sapessero. Siamo durante la guerra. All'Elba non ci sono più nemmeno gli occhi per piangere, perché le lacrime se le sono già mangiate tutte. Ma Emiliona ci ha bisogno della morfina; e, non si sa per quale mistero insondabile, riesce sempre a procurarsela in qualche modo. I colleghi del defunto marito, sentendosi forse in qualche modo obbligati ad aiutarla, la vanno a fregare persino dalle infermerie delle navi, o se la fanno dare con le buone o con le cattive nei porti dove sbarcano; ma non basta. Arriva l'occupazione tedesca; e Emiliona, allora, escogita un sistema infallibile. Lei, che fino a tre giorni prima non sapeva nemmeno che esistesse la Germania, appena incontra un tedesco comincia a berciare: viva Mussolini! Viva ir fùrer! Morfin? Si doveva essere accorta che, quando chiedeva "morfina" ai tedeschi, questi ci levavano la "a" finale. E allora morfìn su morfìn; e quelli gliela davano sul serio, anche perché aveva una corporatura che avrebbe messo paura anche a un orso bruno. Poi i tedeschi se n'erano andati, anzi li avevano fatti andar via. E fu una gran disgrazia, perché Emiliona dovette ricominciare a farsi portare la morfina dai marinai.
I ragazzi del paese gliene combinavano di tutte; e quando dico di tutte forse non rendo bene l'idea. Non la voglio nemmeno rendere per non trasformare questa cosa in un campionario di crudeltà gratuite commesse in un'epoca tremenda. E lei non reagiva mai. Non gliene importava nulla. Gliene importava solo della morfina e di cucinare, perché sembra fosse una cuoca impareggiabile. Il problema è che viveva in un tugurio in mezzo a un lèzzo da far raccapricciare; e nessuno ci andava a mangiare, da lei. Dal letamaio uscivano fuori dei profumini deliziosi che si mischiavano al puzzo di merda e di marcio; e come animale di compagnia si teneva una gallina. Guai a toccargliela. Una sola. Ma alla fine la povera bestia morì di consunzione.
Emiliona stava sulla porta quasi sempre e chiacchierava con le verdure che puliva; poi le pigliava il male e si doveva fare la puntura di morfina che glielo faceva passare; e ricominciava a pulire verdure e a farci delle conversazioni vagamente filosofiche. Un giorno la videro che pelava la gallina morta, e piangeva come una vite tagliata. A ogni penna che cavava, uno sgrùùùùùnf e un "ma com'eri bella", un "ma perché si' morta", un "ma ora che fo". Piangendo era arrivata alla strinatura; e piangendo l'aveva messa in pentola. Dopo un po' si sentiva un odorino di brodo e di gallina lessa che non sto nemmeno a dirvi.
Arrivato a questo punto, resta da dire soltanto che un certo giorno, manco so precisamente quando, la trovarono morta a letto. Di solito, quando racconto storie di questo genere, c'infilo sempre il finale poetico; è una mia caratteristica, forse addirittura una fissazione, e ad ogni modo non mi sono mai curato né di originalità, né di altre stronzate del genere. Mi piace, alla fine delle mie storielle, fare qualche volo pindarico che magari sortisce un effetto contrario a quello voluto. Ma stavolta non mi viene, accidenti. Nessun volo. Son quasi quarant'anni che sento le storie di Emiliona, e ce ne sarebbero tante da riempire un libro intero; ma sono buffe storie in cui le risate sanno tutte quante di dolore.
1 commento:
Un pezzo di grande letteratura e umanità
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