martedì 2 ottobre 2007

Piove


La cosa accadde quando ero, credo, in prima o seconda elementare. Era la mattina del "pensierino", ovvero della libera composizione che, nei primi anni di scuola, sostituiva il "tema" dei più grandi; e quella mattina ci toccò il classico dei classici: "Piove". In effetti pioveva, doveva essere una mattinataccia di novembre e, inoltre, pochi giorni prima ci era toccato l'ancor più classico "Cadono le foglie". Tutta la classe, sentendo il titolo del pensierino, manifestò tanticchia di scocciatura; al che la maestra, Marziali Pierina da Livorno, proruppe in una frase che non mi è andata mai via dalla testa. "Ora stronfiate (= vi lamentate, manifestate disappunto), però quando vi daranno da scrivere qualcosa su questo argomento da grandi sarà tutto diverso". Ecco, ora credo di essere abbastanza grande per affrontarlo, questo argomento, da tutt'altra angolazione; anche perché oggi 2 ottobre 2007, a Firenze, splende il sole e fa caldo.

Non c'è, all'inizio, da esercitare i gesti di prammatica; nessuna tendina spostata, nessuno sguardo vagamente languido. Nessuna morte nell'anima. Piove, una goccia dietro l'altra, in maniera calma e convinta; del resto, pioverebbe anche senz'acqua. Bisognerebbe, anzi, chiudere la finestra del tutto, non lasciar trapelare niente dall'esterno, neppure il rumore della pioggia. Isolare tutto quanto. Isolarsi. Essere un'isola.

Non permettere che ti piova dentro. Mettersi all'esterno di se stesso, guardarsi mentre si compiono i gesti più consueti, più banali. Accendersi da fumare, mangiare, aprire o chiudere una porta. Piano piano si riesce anche a guardarsi pensare, o non pensare a nulla. Fare anche qualcosa che si detesta, come accendere la televisione su uno di quegli stupidi programmi del mezzogiorno, su un quiz, su "Forum". Alla propria faccia non deve importare neppure di chiedere una polemica di dignità; la assume da sola, senza comandi; ma è una dignità del tutto particolare, venata da un sorriso beffardo, di sfida, di tristezza che si autoelabora per trasformarsi in qualcosa d'altro come fosse una qualche reazione chimica dentro una stella.

Piove. E' martedì. Sono a Firenze. Nel parafrasare l'attacco della famosa poesia di Marino Moretti, mi devo fermare a questo punto; non ho sorelle, spose o libere, non sono ospite di nessuno se non di me stesso. In un momento, la pioggia diventa astratta. Ti sei convinto che piove, là fuori, ma là fuori non c'è niente. Fermo in mezzo alla stanza, a tagliare e montare fotogrammi. Tutto, in fondo, è cinema; ed è bene, talvolta, mettere in scena il proprio film senza che nessuno lo sappia. Sentirsi brevemente sotto le luci di una ribalta che non c'è. Condividere questo momento con gli altri, ma soltanto in un incrocio d'onde immaginarie. Solo per un attimo; poi, all'improvviso, correre alla finestra, spalancarla e vedere che c'è un sole, sfavillante, che ti applaude. Poi si torna al normale alternarsi degli eventi atmosferici, dentro e fuori. Piove. C'è il sole. Tira vento. Cadono le foglie. E' di nuovo primavera e poi l'estate, e poi l'estate, e poi l'estate.

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