lunedì 29 ottobre 2007

Sventola


La mia è stata una vita costellata di sgabuzzini. Stanzette piccolissime, stipate fino all'inverosimile di ogni cosa (con prevalenza di libri), privi di finestre. Minuscoli mondi che si sono ripetuti in vari luoghi, spesso lontanissimi l'uno dall'altro. Questa cosa, scritta il 23 maggio 2006, proviene dal penultimo di essi; è tornato probabilmente, ora, alla sua primitiva funzione di piccolo corridoio d'ingresso di un monolocale. Ma per due anni e rotti è stato una parte di me. Quando non esistono finestre, se ne debbono per forza spalancare altre; e ne vengono fuori cose come questa.

Ogni tanto sventola qualcosa.

Sventola, una sera sempre più qualsiasi, la voglia di ripigliare in mano un libro. Letto decine di volte. Il Sovversivo di Corrado Stajano. La storia della vita e dell'assassinio di un anarchico di vent'anni.

Ad un tratto, tac. Sventola una frase. Ci casca sopra l'occhio. "Vicino alla fossa parlano un militante di Lotta Continua e un anarchico del Gruppo Durruti di Firenze. La folla, poi, se ne va per i viali. Gli anarchici cantano piano una loro canzone: Figli dell’officina o figli della terra, già l’ora s’avvicina della più giusta guerra."

Un anarchico del gruppo Durruti proprio mentre l'autore del libro sta paragonando i funerali di Serantini a quelli di Durruti. “No, non erano funerali regali, erano funerali popolari. Nulla in essi era ordinato, tutto avveniva spontaneamente, in modo improvvisato. Erano funerali anarchici, ecco la loro maestà. Talvolta bizzarri, essi restano pur sempre grandiosi, di una grandiosità strana e lugubre” (Barcellona, novembre 1936, i funerali di Buenaventura Durruti).

E penso che quell'anarchico del gruppo Durruti di Firenze io lo conosco. Penso di averla sentita dalla sua voce, quella cosa. O letta comunque dalle sue parole. E mi sventola in testa che nei luoghi e nelle lotte ci si è comunque se i luoghi e le lotte, in qualche modo, sono in te. Se passando senti qualcosa e qualcuno che ti chiamano. Se la memoria degli altri è anche la tua memoria. Se per quella memoria ci campi non come un catalogatore, ma come uno che tiene accesi un fuoco e una speranza con il cuore e con la mente.

E così si va mentre sventola. Una burrasca.

Sventola un pomeriggio di gennaio sotto un buffo e sgraziato tendone che ora è stato sostituito da un'architettura firmata e sponsorizzata. Sventola con una sigaretta e una chitarra. Sventola con un giovane Davide Riondino che introduce il grande cantautore pigliando per il culo e facendo il verso a Branduardi: "...le gambe ignude". Sventola con dei capelli bisunti da sedici o diciassettenne, mentre il grande cantautore biascica che quando si vive per anni in un posto, come minimo s'impara il dialetto. Da chiddu che babbu ci ha laccatu la meddu palti ti si' prisu. Lu munticchju ruju cu' lu suoru, li 'acchi sulcini, lu trau mannu.
Sventola la bella che fa paura.
Sventola quella voce in una nuvola di fumo e di bellezza.
Era la prima volta che lo vedevo così vicino.

E si mette a sventolare ogni cosa.

Mio zio Ulisse. Un lontanissimo giorno di luglio. Del 1976. Non c'è ancora la televisione nella casa dell'Elba. Solo una vecchia Radiomarelli che gracchia. Non c'è nemmeno il telefono, e l'acqua corrente c'è per due ore al giorno. Mio padre che fa la spola con una Fiat 850 beige carica di bidoni per andare a prendere l'acqua alla fonte di San Piero o del Monte Perone. Roma. Stamani in un mortale agguato è stato ucciso il giudice, gracchio, rsio, l'assassinio è stato rivendicato da Ordine Nuovo.

"Come si chiama il giudice?", chiede mia zia. "Accursio", dico. "No, Occorsio", dice mio zio Ulisse. Poi si alza. Scuote la testa con un sorriso beffardo. "Prima manda in galera Valpreda e poi lo ammazzano i fascisti". Piglia la porta e se ne va nell'orto. Lo ha sempre fatto, l'orto. Lo sa fare. Ora lo fa uno dei suoi figli.

Sì, sventola. E non smette di sventolare.

'a vita mia me porto 'n pietto,
'o core mio fa oilì oilà,
e nun v'a rong' pe dispiett'
'sta libbertà.

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