Sono appena tornato da una Piola. Che cosa sia una Piola lo sapranno sicuramente già tutti i famosi milioni di lettori di questo blog, quindi non mi ci dilungo; a chi invece si trovasse a fare il casual viandante in queste procellose plaghe, dico che si tratta di riunioni musicali, mangerecce e di varia umanità (e di ancor più svariate vicende) che si svolgono oramai da quasi dieci anni (la prima si tenne il 27 giugno 1999 a Bologna) tra i frequentatori, in senso molto lato, di un certo numero di luoghi "virtuali" (newsgroups e mailing list in primis; e, ora, di blog). Ne abbiamo fatte oramai a decine.
Ieri sera, per me, però era una Piola molto particolare. Ne avevo timore. Confesso candidamente che all'ultimissimo momento prima di partire avevo seriamente meditato di "dare buca", come si dice dalle mie parti. A un quarto d'ora dalla partenza, mi sono letteralmente forzato, quasi fatto violenza; ho messo due cose nello zaino e sono uscito fuori ad aspettare Tom Joad che mi venisse a prendere. Si doveva prima andare a casa dell'Eleonora, dove c'erano Franco, Enrica e il "Compagno Giovane" che reca un cognome che mi sta intrigando foneticamente (me lo sto ripetendo continuamente in testa, sillabandolo); siamo partiti con due macchine.
Siamo arrivati sopra Aulla, in un posto bellissimo, in una giornata stupenda e quasi calda. Ed io con in testa l'atrabile al posto del cervello. L'atrabile che non doveva e non poteva manifestarsi. Guai! Come tentare di farsela passare? Siamo in un ristorante che serve la specialità della zona, i panigacci. Una specie di tortillas calde servite con formaggio grattugiato, con pesto, con sugo di funghi, con salumi vari, con nutella e miele. Beh, mangiamoci su, Riccardo. Che altro fare? Mi sono fermato a quindici, quando gli altri saranno arrivati a quattro, cinque, sei al massimo. C'era poi un vinello rosso che diceva bevimi…e sono arrivati anche Alle Casappa e Sara, quegli splendidi due parmigiani, gli apostoli della birra Panil e…ma no, vai. Loro sono una coppia consueta, conosciuta, anche se si amano come ragazzini. Sono sposati. Sono quel che io non sono, che non mi riesce di essere. La vita che si è intrapresa, la strada che si è imboccata, hanno delle conseguenze. Inutile starci a ragionare sopra. Si cerca, e quando finalmente si crede di aver trovato…lei interviene e presenta il conto.
Eleonora, quella meravigliosa tizzona d'inferno, mi chiede cosa c'è che non va. Con lei non posso fingere. Nulla. Le dico onestamente che mi girano i coglioni. Mi domanda come mai; le dico di lasciare perdere. Non posso dire nulla. S'infila in una gabbia dove ci sono cinque cani da caccia, tre giovani e una coppia di vecchissimi basset hound. Lui quasi decrepito. Dorme. Lei si rotola, li coccola, li accarezza, li chiama "amore" con quel suo tono sempre ribelle e sfrontato. Vent'anni o poco più. Io guardo. Quarantaquattr'anni e poco più. Guardo chissà dove.
Dichiaro, quasi solenne e assai convinto, di voler fare una passeggiata per Sarzana perché bisogna che non mi fermi mai. Con squisita coerenza, appena arrivato al bed & breakfast Corte degli Ulivi, dove ci siamo sistemati tutti, crollo sul letto e mi addormento come un sasso, dopo fatta una doccia che definire una "DAC" è poco. Non un getto, ma un idrogetto a 150 atmosfere di acqua bollente. Una cosa rarissima in questo paese di docce striminzite, di gocciolìi insignificanti, di getti asfittici. E poi il sonno, mentre tutti gli altri sono fuori. Un sonno duro, senza sogni, nero. La morte nel pomeriggio, dalla quale mi risvegliano dei tuoni. La giornata bellissima si è trasformata in un temporale. Piove a catinelle. Bisogna partire per il locale dove si svolge la Piola Messicana organizzata da Andrea Parodi, visto pochi giorni prima sulle rive di un lago, pochi giorni prima che sembrano tre secoli.
Il locale, dove arriviamo sotto la pioggia, è sulla strada provinciale, o statale, che porta –credo- a Lerici. Un misto fra Messico e Irlanda e altre terre celtiche, i frijoles e la Gwenn-ha-Du bretone, le corde di chitarra rotte dagli artisti che vi si sono esibiti, le locandine, il palco. Eccoli tutti qui, i piolanti. Gli amici. C'è Max Larocca con la Claudia, c'è Franco, c'è Alberto Martino, ci sono Federico e un'amica, c'è Andrea Parodi con un bizzarro cugino arrivato su una Porsche assieme al figlio di Mario Poltronieri (il famoso ex commentatore RAI delle gare di Formula 1), c'è tutto il calore di questo mondo mentre un tizio alto e grosso con una felpa color vino vaga tra dentro e fuori senza sapere esattamente dove andare a sbattere. Fuori fuma, dentro guarda ripetendosi tutta la sequela delle famosi frasi: "E' dietro l'angolo", "Potrebbe essere qui", "Vai avanti" eccetera eccetera eccetera. Siate benevoli con questo tizio, che inoltre si rende benissimo conto di essere vagamente ridicolo come si è ridicoli sempre in queste circostanze. Non può neanche mancare il discorsetto molto impegnato: "Ma no, cavolo, va bene che l'abbandono è un'esperienza dolorosa, ma non è mica una grave malattia o la morte di qualcuno"….e tutti che annuiscono, che approvano, che magari pensano "Ma guarda quanto è forte". Sapessero quanto sono forte. Lo avrebbero visto dopo.
E si comincia a mangiare, e gli artisti cominciano a cantare le loro canzoni. Quante volte. Si cantano insieme, si fa casino, si cerca di convincere il Larocca a cantare "Le donne di Carrara", che non vuole fare. C'è un ragazzo sardo di diciannove anni, soprannominato Amsicora il guerriero, che s'è innamorato il giorno prima di una tizia che non lo caca o quasi. Allora il Venturi si trasforma in buon padre e si mette a ammannire consigli su consigli mentre il ragazzo lo guarda con aria impietosita dicendosi probabilmente: Ma questo qui chi l'ha sciolto. Si alza e ricomincia a vagare; si mette a chiacchierare con una ragazza qualsiasi, che gli racconta cinque minuti della sua vita. "Come ti chiami?" "Riccardo. E tu?" "Manuela". E vai. Momento di défaillance, ovviamente impercettibile; poi lei se ne va via col ragazzo, con il quale sta insieme da nove anni. Lei ne ha ventitré. Ci sta insieme da quando ne aveva quattordici. Mi ricorda vagamente qualcosa di lontano, di molto lontano, di talmente lontano da domandarsi oramai se non sia un sogno.
Le Piole, in fondo, sono sempre uguali. Quasi immutabili e eterne. Gente che canta, che mangia e che beve in locali sparsi in mezza Italia. Stanzoni, capannoni, porcherie più o meno saporite. Ci sono sempre le stesse persone che si vogliono bene. Ci hanno persino l' "inno ufficiale", la canzone Gli amici di Francesco Guccini. Ogni paio di mesi, rieccoci. Puntuali come un orologio neozelandese. Questo all'apparenza. Perché durante le Piole, è la vita che cambia sempre. La vita di ognuno di noi. E a volte cambia, o comincia a cambiare, per una banalità. Per un episodio insignificante. Un messaggio su un telefonino, ad esempio. Una borsa piena di formaggi. Oppure uno scalino. Fuori dal "Pegaso" di Arcola, La Spezia, c'è uno scalino. La vita comanda a Claudia, la ragazza di Max Larocca, di salire su quello scalino mentre io le sto davanti. Si butta, decisamente brilla; e io la piglio al volo. Così. Con la massima naturalezza. La tengo sollevata con un braccio solo. Ora, certo, è uno scricciolo; ma nel prenderla mi sento dentro una cosa strana. Una forza fisica che credevo di avere perso.
La gente guarda, e arriva Andrea Parodi; il quale non è uno scricciolo. Sono 80 chiletti buoni di cantautore emergente. Mi fa: "O Venturi, o vediamo se lo fai a me". Sale sullo scalino. Si butta. E io lo piglio al volo, tenendolo bello stretto. La gente fuori guarda, un tizio sussurra a un amico: Con questo è meglio non averci a che fare. E mi sento addosso una specie di Krakatoa che ha scelto quella sera per manifestarsi. Il Piano Quinquennale volge al termine.
Poco dopo riesco, e Alle Casappa mi segue; attraversiamo la strada e ci mettiamo un po' a chiacchierare. Mi parla di certi suoi amici a Parma cui ha fatto leggere Resurrezione, un buffo raccontino "probabile" con Piero Ciampi scritto un paio d'anni prima; sembra che giri sotterraneamente, che sia stato letto da persone di cui non ho mai sentito parlare, che ci siano sparsi per l'Italia dei tizi che sanno il mio nome senza sapere minimamente a chi corrisponda. Così decido di raccontargli come e perché veramente sia nato Resurrezione. Per una data che mi frullava in testa. Una data ripresa da una canzone popolare veneziana, Adio Venesia Adio. Il 18 di novembre. Me la ascoltavo e cantavo spesso quella canzone, nell'esecuzione del "Gruppo Pane e Guerra", i primi giorni d'agosto del 2005 a Friburgo.
Mi venne all'improvviso di scrivere una storia che si svolgesse il 18 novembre. Una cosa qualsiasi; l'idea seminale era una semplice data di calendario. Mi misi a scrivere la prima riga e bussò Piero Ciampi. Toc Toc. In tre minuti la storia era già tutta nella mia testa.
Piero Ciampi morì a Roma il 19 gennaio 1980. Risorse inaspettatamente alle cinque di mattina del 18 novembre 2005 a Livorno, alla vecchia stazione di servizio dismessa dell'Api (con Api si vola) in via dell'Antimonio; non c'era nessuno. Lo videro solo tre vecchi distributori arrugginiti, quello per la super, quello per la normale e quello per il gasolio, la tettoia che perdeva sempre più pezzi e il baracchino coi vetri sfondati che faceva da rifugio ai gatti della zona. Lo videro le erbacce tirarsi su mezzo intontito da un terrain vague che il comune aveva delimitato con il nastro di nailon bianco e rosso; aveva addosso una giacca marrone senza un bottone e dei pantaloni troppo corti, da acqua in casa. Spettinato lo era sempre stato; le scarpe ordinarie, coi tacchi; aveva sete. Una gran sete. E aveva anche fame, ma in sottordine.
Alle Casappa ascolta. Per mostrargli quanto gli voglio bene, mi metto a cantargli quella canzone contenente quella data:
El diciaòto de novembre,
una giornata scura,
montando in vaporèto
ghe n'ha fato ciapar paura…
Canto quasi forte, con un accento veneziano da fare talmente ribrezzo che, se lo sentisse Gualtiero Bertelli (che della canzone è stato il riscopritore e il bravissimo esecutore assieme a Luisa Ronchini), mi toglierebbe il saluto. Alle ascolta, con quel suo sguardo da casappa innamorata; poi torna dentro. Senza che nessuno se ne accorga, io mi metto a fare una corsa.
Una corsa. Fino a pochi giorni fa avevo il fiatone anche correndo per dieci metri. Mi faccio cento o duecento metri per la strada provinciale, senza pensare. Sento le gambe che vanno. Sento il fiato che tira, anche se in questi giorni sto fumando come un camino. Sento il sangue che ricomincia a scorrere. Ci avessi una bicicletta! Riprendersi la bici ed i vent'anni…
Poi torno dentro. Nessuno si domanda stasera dove vada ogni tanto. Perché lo sanno. Perché non dicono niente, e fanno come se niente fosse, ma lo sanno. Mi metto a sedere, e dopo un po'…Alle Casappa mi si mette in collo, mentre si canta e si beve. Nessuna ubriachezza, stasera. Sì, si beve. Ma voglio ricordarmi ogni cosa, senza che altri abbiano a dovermelo raccontare. Magari, fra un mese o fra un anno, potrei ricordarmene come l'inizio di una nuova luce, e non voglio avere davanti il buio. Mi alzo, lentamente, dalla sedia. Con Alle Casappa sempre in collo. Alle Casappa è magro, ma è bello alto; un 75 chili buoni sarà ben pure lui. Me lo tengo per un po'; poi mi rimetto a sedere, sempre tenendolo. Alle Casappa? Potrei sollevare anche un'automobile da solo, stasera.
Bisogna, in questa serata, in questa Piola uguale e diversa da tutte al tempo stesso, mettere un punto. Bisogna chiudere un periodo e iniziarne un altro. La cosa mi appare urgente, imprescindibile. Ora o mai più. L'occasione me la fornisce Andrea Parodi, invitandomi a cantare sul palco una canzone di Piero Ciampi. Eccolo, di nuovo, Piero. Si era presentato poco prima, là fuori; si presenta sempre nei momenti di cambiamento. Come a farmi da compagno di strada. Cerco di resistere. Non ci voglio andare, su quel palco a cantare una certa canzone. Perché si sa quale canzone canto, io, di Piero. Ne canto una che cinque anni prima, durante una Piola…
Vado di nuovo fuori. Amsicora, il guerriero sardo, mi segue. Gli dico: Ascolta, non mi venire dietro, devo stare cinque minuti da solo. Devo avere uno sguardo convincente; il povero ragazzo si blocca sulla soglia e torna indietro. Attraverso di nuovo la strada. E mi metto a cantare, da solo. Quella canzone lì. Quella canzone che poco più di cinque anni prima, durante una Piola a Livorno, in un momento in cui la vita mi era passata addosso, mi ero presentato a cantare sul palco dopo aver bevuto di tutto, dopo non avere più nulla. E' l'ultima cosa che mi ricordo prima di crollare. La avevo cantata senza ricordarmene il testo, come fosse un grido di vomito e di disperazione. Era stata l'inizio tragico dei cinque anni più belli della mia vita.
Torno dentro, e annuncio: sì, ci vengo. Mi fanno pure l'applauso di prammatica. Io che non sono un cantante, io che non so suonare niente, io che non so scrivere canzoni, io che la musica è una specie di chimera. Mi metto a sedere e mi avvicino il microfono chiedendo solo due minuti di attenzione perché voglio dire una cosa. Credo di ricordarmene così:
"Quella che sto per cantare è una canzone che ho già cantato, cinque anni fa, a una Piola. Io non so cantare, ve lo devo dire. La cantai perché mi era appena successa una cosa, chi c'era se ne ricorderà bene. Quando andai a cantarla avevo bevuto tutta una vita di barbera, come diceva Ivan della Mea. Non mi ricordavo nemmeno il testo perché ero troppo ubriaco. Stasera no. Sono bello sveglio. Fu l'inizio di cinque anni che sono stati bellissimi, gli stessi che si sono appena chiusi. La fine di un ciclo. E l'inizio di un altro. Vi avverto che non è una canzone allegra."
E l'ho cominciata a cantare, con Alle da una parte, e Federico dall'altra, alle chitarre. Mi hanno accompagnato in questo mio passaggio, con amore, e non saprò mai ringraziarli abbastanza. Davvero mai.
Il Natale è il ventiquattro,
non so più neanche contare,
la vita va così…
Ho una folle tentazione
di fermarmi a una stazione
senza amici e senza amore.
Mio fratello è all'ospedale,
sono giorni che sta male,
la madre non l'ha più…
Anche Pino è separato,
Elio al gioco s'è sparato,
mi sorprendo sempre più.
Io vado,
quando sono abbandonato vado in cerca di una donna,
senza danni,
Sento
quelle volte che non pago che rimane pure amore
per un'ora…
Ma il mattino mi consegna
Francescangelo drogato,
non mi conosce più…
Per vederci un poco chiaro
bevo un litro molto amaro,
sono dentro un'osteria.
Io vado,
quando sono abbandonato vado in cerca di una donna,
senza danni,
Sento
quelle volte che non pago che rimane pure amore
per un'ora…
Ma il Natale è il ventiquattro,
Gianna ha un cuore molto strano,
la vita va così…
Ho una folle tentazione
di fermarmi a una stazione
senza amici e senza amore.
E il Natale non è stato il ventiquattro, ma il sette ottobre. Il nuovo Piano Quinquennale. S'è cantata da sola, quella canzone. Mi rivedo, mentre sto scrivendo, abbarbicato al microfono, senza guardare la gente, a volte a occhi chiusi, con le prime e forse uniche lacrime di questi giorni. Poi è finita e sono sceso da quel palco. Mi sono rimesso a sedere e avevo saltato il fosso. Tom Joad che, con quella sua aria da Tom Joad, mi dice: "E menomale che non sapevi cantare, era da registrazione". Vaglielo a spiegare che, mentre la cantavo, ci avevo un'altra data addosso, il ventotto settembre. Proprio giorno in cui è nato Piero. E il giorno in cui a me finiva un sogno, con un microfono all'orecchio, davanti a un computer, sentendo una voce.
E la Piola è continuata, per un po', per un altro po'. Poi è finita, coi saluti, coi "Quando si fa la prossima". Già, la prossima. Senti un po', tu, carissima Nuovo Inizio. Ci vieni tu, alla prossima. Ci devi essere. Cosa mi stai dicendo? Che non ci conosciamo? Ma non diciamo baggianate, per favore. Noi due ci conosciamo da sempre. Quarant'anni e rotti di Nuovo Inizio. Fatti viva, e vieni. Io ci sono. Tu ci sei. Dietro il famoso angolo, no? E se tu avessi una faccia già nota? O se ce la avessi del tutto nuova? Chi lo sa. Però ci sei, e vieni. Si mangia, si beve, e si canta.
1 commento:
Letto tutto d'un fiato ...
quasi passando tra i tuoi occhi i tuoi poensieri e il tuo cuore
caro amico mio ...
con te ci sono anche nelle mie assenze.
con affetto Alleluia
oh per un farti confondere Fulvio!
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