Può essere, anzi sicuramente lo è, che questo sia l'ultimo post del genere che abbia scritto per l'oramai defunto newsgroup di Guccini. Perché da una canzone di Guccini, la vecchia "Amerigo", trae lo spunto (a volte persino ricalcandone la struttura). Ancora una volta per una storia dall'isola d'Elba, quella di due miei zii emigrati in Argentina. Mi sembra fosse Jorge Luis Borges che, una volta, ebbe a dubitare fortemente di essere un vero argentino, perché non aveva neppure un lontano parente italiano. E l'Argentina è rimasta fortemente nella mia famiglia: la moglie di mio fratello, vale a dire mia cognata, è di Buenos Aires. Divagazioni familiari, insomma. Questa cosa è stata scritta il 3 febbraio 2007.
Perché di porte pitturate di verde, porte di case e di magazzini, di persiane e di tuguri, a Marina di Campo ce n'erano. Fino alla memoria mia. La memoria di un vecchio glicine, e d'un magazzino dove si tenevano anche le botti del vino. Quell'odore dei vecchi magazzini. L'interruttore con la levetta, e i fili scoperti, intrecciati. La lampadina piena di ragnatele fino all'inverosimile. Aveva, quel magazzino, la porta verde.
Uscirono, Dini Dino e Dini Sebastiana, marito e moglie neppure parenti alla lontana malgrado l'identico cognome, e fecero il cammino di tutti gli emigranti: prima Genova, e poi l'Argentina. L'anno era il 1935.
Sebastiana era sorella minore di mia nonna; Dino veniva da San Piero ed era stato, perlomeno fino al matrimonio, di quella specie di poveri latin-lover di paese, di campagna. Era un bell'uomo, comunque. C'era da andarsene. La storia di tutti.
Mi chiedo a volte dove si sia inceppato, Guccini. Credo che sia stato quando ha smesso di raccontarci la nostra storia attraverso la sua. Amerigo, come Van Loon, è una di quelle canzoni che ce la dicono, questa nostra storia; ma sono canzoni oramai vecchie. Amerigo, in stereocassetta, me la portò un pomeriggio Vincenzo, in regalo, nella mia vecchia cantina che mi faceva da stanza. Era il 1978. La misi su, e dopo poche note della canzone mi misi a pensare a Dino e Sebastiana. Già da allora. Oggi pago un debito. Una cosa che avevo cominciato a scrivere non so quante decine di volte. Troppa identità, forse.
Arrivavano lettere da posti dai nomi fantasmagorici, rutilanti. Mendoza, dove prima si erano stabiliti, lei a servizio di una signora pure italiana, lui a fare il sarto a domicilio. Poi, dopo Mendoza, Rosario. In Argentina non c'era la guerra. Fu là che li raggiunse la notizia della morte in mare di mio zio Mamiliano, ovvero di uno dei fratelli di Sebastiana e di mia nonna. Capo Matapan, 1941. Nave Alvise Cadamosto. Silurata. Il caduto, pure quello. Il suo nome è sul solito monumento. La piazza si chiama della Vittoria, ma si è sempre perso.
In piazza di Pavana c'è anche un Guccini, sul monumento ai caduti.
Poi il grande salto. Prima a Mar del Plata, dove restarono poco perché la casa dove stavano andò bruciata, nel 1948. Aveva preso fuoco una cosa che da noi non esisteva. La televisione. Ce l'avevano. Mia zia Clara mi parla di quelle lettere, che conosce quasi a memoria. Due soldi e giovinezza, e nessun figlio. Non ne ebbero. Non ne vennero.
E poi, infine, a Buenos Aires. Da Buenos Aires arrivò una fotografia. Se l'erano andata a fare in un vero "atelier", mettendosi i vestiti buoni, disponendosi in posa. E' l'unica immagine che ho, nella memoria, di Sebastiana e Dino in Argentina. E' strano, o forse no, come i luoghi cambino l'aspetto delle persone; avevo di fronte le facce elbane della mia famiglia, facce che sapevano di muri a secco, di zuppe di verdura, di comari nel portico e di granito, e nella foto c'era una coppia di argentini, oramai maturi. Lui coi baffi, naturalmente. Il vestito scuro, la cravatta e quell'espressione ispanica che riconduceva non più a un Dini, ma a un Mendizábal, a un Arroyo, a un Ortiz. Lei, ancora di più. Una doña già pingue, in un paese dove si mangiava. La foto è del 1954. Nella lettera allegata, il panegirico di Perón, e, soprattutto di Evita. Un anno dopo, il colpo di stato. Erano diventati peronisti, i miei zii. Due zii peronisti mica ce li hanno tutti. O forse sì, chissà.
Si mise male. Lavori persi a ripetizione. Niente più foto negli atelier. Si diradarono anche le lettere. Finché, nel 1965, trent'anni dopo la partenza, decisero di tornare all'Isola d'Elba. Non ce la facevano più, ma non per nostalgia (da ricchi o da poveri, fa lo stesso). Non ce la facevano più a campare. Percorso inverso. Rividero Genova, dove tutta la famiglia era andata a prenderli. Io avevo due anni.
Quand'io li ho conosciuti, o inizio a ricordarli, erano già vecchi.
Lui era dell'11, lei del '13. Erano andati a stare al Vapelo, in una vecchia casa sulla salita del Salandro che mena a Galenzana, con il gabinetto esterno sporgente puntellato al muro con due sbarre di ferro. E me la ricordo, quella casa, piccola, piena di odori, la radio, e loro lì dentro.
Ci andavo spesso perché mi piaceva sentirli parlare. Soprattutto lei aveva preso quella parlata mezza spagnola, e una lingua non è soltanto parole. E' accento. E' musica. E' una diversa tensione. Così avevano preso a chiamarla la Titta, per via dei frequenti diminutivi spagnoli in "-tita" o "-ita" che usava, una preguntita, una cosita. Lui, col tempo, era rimasto paralizzato alle gambe. Se ne stava tutto il giorno a sedere al tavolino, a becchettarsi con lei che doveva far tutto, lavare, preparare da mangiare, fare la spesa, metterlo a letto.
Credo che avessero cominciato a odiarsi quietamente, come spesso accade tra marito e moglie di lunghissima data. A lui erano rimaste solo le mani, che aveva forti come un toro; una volta, mi ricordo, mentre lui "faceva le forze" con me, lei gli urlò: te le friggi le tu' mani, sciancato. Così. Lui aveva biascicato qualcosa. Poi era rimasto zitto.
Beveva, lui, quantità industriali di Nesquik.
E' morto nell'ottantacinque. Lei, il giorno di Pasqua del novanta. Da due anni le avevano fatto lasciare quella casa, al primo piano, con una rampa di scale troppo ripida. La avevano messa a San Piero in un bilocale comunale. Si usciva e si vedeva un panorama da troncare il fiato, il golfo di Campo, persino Montecristo e la Corsica nelle giornate più limpide.
Quand'è morta, si è scoperto che aveva dei quaderni. A matita, mezzi in spagnolo sgrammaticato e mezzi in italiano più sgrammaticato ancora. Ci scriveva le sue cose. Vecchie canzoni che si ricordava di quand'era bambina o ragazzina; ce n'è persino una sull'affondamento dello Sgarallino, il piroscafo silurato nel '43 da un sommergibile inglese davanti a Nisportino. Trecentotrenta morti.
Non aveva smesso di scriverci per tutti i trent'anni passati in Argentina. Li tiene mio cugino, che sta pure a San Piero. Bisognerebbe che li leggessi tutti. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa e quanto ci possa essere dentro. Magari, chissà, ci sono anch'io. E in ogni caso ci sarei, anche se di me non fosse fatta nemmeno mezza parola.
Anche quella casa sulla salita del Salandro aveva la porta verde. Le pitturavano con quella vernice spessa, da legno, che a un certo punto si staccava a pezzi enormi. Ogni tanto toccava riverniciare tutto daccapo. Probabilmente vi uscirono, e un giorno vi rientrarono. Così, sembra, sempre va.
5 commenti:
grcias Riccardo, desde "la otra orilla" de tu recuerdo.
rita.
Gracias a ti, Rita...y la "otra orilla" sólo es la orilla del mismo mar. De agua, de vida y de recuerdos.
siamo d'accordo :-)
has usado una bella metáfora, además.
mi recuerdo es hacia quienes "se quedaron" e hicieron con su aporte un lugar en el que me gusta vivir.
Yo suelo decir que, si me zambullo a la mar por doquiera en este mundo, puedo alcanzar todas las orillas del universo con mis brazos; y mi recuerdo es la mar, y las orillas que he visto y también las que nunca veré. Y eso es mi pequeño aporte a tu lugar...y a tu vida :-)
gracias, hace un tiempo, desde que te leo, que aportas a mi vida tus comentarios y tu coherencia ideológica. y como tenemos un amigo en común me es fácil sentirte cercano :-)
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