mercoledì 31 ottobre 2007

Lettera a Francisco Xenia, 10 dicembre 1513


In questo blog ho spesso l'abitudine di inserire vecchie cose da me scritte in giro per la Rete; ma non antiche come questa qui che segue. E', anzi, probabilmente la più vecchia che abbia mai scritto in vita mia: risale nientepopodimeno che al 10 dicembre 1513, quando mi trovavo in forzato soggiorno (date certe mie complicate vicissitudini che non sto a dirvi) presso una casuccia di campagna in Val di Pesa, non lontano da San Casciano, messami fortunatamente e gentilmente a disposizione da un amico priore. Quivi, per ingannare il tempo, vergai questa missiva indirizzandola ad un altro mio amico a Firenze, ove gli raccontavo le mie giornate con dovizia di particolari, e le mie occupazioni, e delle persone con cui avevo a che fare. Destino volle che avessi come vicino di casa un altro tizio (di cui compare qui il ritratto), anch'egli in soggiorno obbligato, con cui in realtà i rapporti erano poco buoni; aveva un carattere tutto suo, si millantava segretario della Repubblica, ed il suo aspetto segaligno non m'ispirava nulla di buono. Ma si sa come vanno le cose tra vicini; per amor del quieto vivere si passa sopra a certe cose, e si stabilisce quel minimo di familiarità che alle volte può pure restar comodo. Mal me ne incolse; perché una sera che lo avevo invitato a condividere meco il mio magro desinare, ebbi a mostrargli la lettera che avevo scritto e questi volle "darle un'occhiata" dicendo che gl'interessava; ed io, ingenuo, gliela diedi. Tempo dopo, la mia povera lettera, modificata ma ancora ben riconoscibile, passava già per un capolavoro della letteratura italiana e, va da sé, con il nome di quel mio vicino, copiatore del malaugurio, plagiario spudorato. Si chiamava Niccolò, ma il cognome non voglio rammentarmelo; ciononostante, con tutta la sua immortal gloria, gli è morto e sepolto fin dal 1527 mentre io sono ancora vivo. Però, stasera, vorrei farvi vedere come sonava la mia lettera, quella originale; la copia, quella –ohimé- passata ingiustamente alla storia, la potete leggere qui.

Magnifico Retium gestori Syracusano Francisco Xeniae apud Comptabile Officium et benefactori suo. Florentiae. francisco.xenia@manivella.fl

Magnifico gestore di Reti. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio che voi poteste essere un poco incazzucchiato meco. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, dalle amiche & drude nostre Eleonora et Henrica in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l'ultima vostra de' 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico servendovi anco delle machine calculatrici, autografe & parlanti testè inventate dal Vincino or migrato in Franza; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d'altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.

Io mi sto in questa villa, che poi è un tugurio che in usum mi concedette il nostro comune amicho Fulvio, priore del vicino Mercatale; viene costui sovente a visitarmi, cercando di recarmi qualche suo conforto all'anima mia peccatrice. Ma si finisce, come d'uopo è che sia, a prepararci qualche cosuccia da desinare, e scordando il divino si passa ben più libenter al vino della su' vigna, che recami in copia e che ha sulla mia anima effecti ben più consolatori d'una preghiera all'Omnipotente, che pur ne è autore. Giunta l'ora, quasi sempre lo raccompagno per certe viottole, di maniera che possa arrivare in tempo per dir lo vespro; ma qualch'altra volta preferisco starmene qui, in ispecial modo se mi bussa alla fenestra una pulchra contadinotta di queste parti, cotale A., colla quale ci sollazziamo per qualche ora in un modo che un priore dorebb'essere lungi dall'approvare.

Di poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a' tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, coi capegli avvolticciolati in una maniera che parevo el nostro amico musico di Cantù quando 'e non si pectinava da du' mesi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò.

Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove dorei stare almeno dua ore a rivedere l'opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co' vicini. In verità, dell'opere del giorno passato generalemente non mi cale una madonna, e nemmanco di quelle del giorno a venire; stòmmene in vece a grattarmi sotto un arbore, osservando faticar quegli tagliatori di cui sopra, ched ispesso & volentieri mi gettano occhiate cariche d'odio, e alle volte anche qualche volgare improperio. Ma che si fottano; a me non soltanto non mi garba puncto di faticare, ma godo impersino nel veder faticare gli altri.

E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Mauricio Tressoldi e Maximiliano dalla Rocca e con altri che voleano di queste legne per farne leùti & altri istrumenti, sendo dato che cotesti villici pur nutrono qualche velleitade musicale componendo cantioni, laj & villanelle; ma al pagamento, il Tressoldi mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me cinqu'anni sono, che prestommi quando m'haveano discacciato da Liburno. Io cominciai a fare el diavolo, e volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem el Federicho Marino vi entrò di mezzo, e ci pose d'accordo. Luca de' Mirti, Dauide Giromini, Marco Sciusterio e certi altri musici, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta per lo loro istrumenti. Io promessi a tutti; e manda'ne una anco a Alexandro da Torre Chiara, la quale fu ispedita in loco con millanta difficultà ma che ne mandai libenter perché detto musico sonava per la ganza del signor del su' castello, e m'aveva impromesso in iscambio una conspicua quantitade de prociutti langhiranesi. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie Alexio da Otranto, che minaccia di comporre un'invectiva in rima contro di me.

Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o quello dello Scaltione umbro che tanto ebbe a incorrere nella censura papale, o quello di certi alemanni sull'arte d'assaltare i banchi pugnale alla mano; o pure qualche amena historia, come quella sul Padreterno che muore cascando in mare del Giacomo Morro sàssone, e simili: dopo un po' cesso di leggere, e pongomi a ricordar le mie amorose passioni, e gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell'hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'huomini. Viene in questo mentre l'hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, el beccaio Tommaso Gioddo, el mugnaio Niccolò Chillemo, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto el dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose e di moccoli a Dio patre, e alle volte anco qualche mazzata ne' denti, qualche seggiolata nella cervice o qualche bottigliata ne' coglioni; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo la mia natural cattiveria e la merdàggine che ho a dosso di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e m'infilo du' mutandoni e una camicia pulitami al ranno dalla fedele A.; e rivestitomi un po' meno da stracciajo, pongomi finalemente a scribacchiar a quel nostro ordigno mechanico con le lucine & le manivelle inventato non sàssi da chi, fors'ancora dal Vincino; e quivi apro el mio diario cotidiano che l'inghilesi nominano bloggo, o el sito de certi carmina contra bellum, o li fori de discussione, o le liste de missive; e in queste or ricevuto amorevolmente, or mandato in culo, mi pasco di tucta una serie di bischerate & cialtronerie, oppur iscrivo certi miei pensieri scaturiti dalla mia mente malata, oppur ancora mi ringaglioffo con una serie di microcefali di cui questo disgraziato paese abbonda; e pur non mi vergogno parlare con quelli e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli a volte anco mi rispondono, e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: come porebbe isbigottirmi a fronte di siffatti minus habentes?

E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De Capitibus Mentulae in Permagna Rete, ov'io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa sia un demente telemathico, com'e vi si tratta, come li si manda a bruciar nelle fiamme dell'inferi, come s'offende i lor genitori, parenti & familia tucta. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un adepto di codesta Rete che poc'anchor cognoscano, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Vostra Magnificentia.

Voi vorresti, magnifico Gestor di reti, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo, ispecialmente se l'amica nostra Heleonora cocinasse certe su' paste secche coi petonciani o alla carbonaja; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l'harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costì a Fiorenza certi huomini cui temo d'essere inviso, e dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.

Die 10 Decembris 1513.
RICHARDO VENTURI in Sant'Andrea in Percussina.

2 commenti:

BlackBlog francosenia ha detto...

E potevi dirlo subito che A. eri tu, Alessandro o Aldo, comunque tu! :-)

salud

Riccardo Venturi ha detto...

Ma sono sempre io, sempre e comunque, lo sai! :-)

Oddio, quasi sempre.

Salut!