Volle ribellarsi, assieme a settanta suoi compagni. E non fu una rivolta spirituale. Non c'era da combattere per nessun altro mondo, ma per questo mondo. Al primo scontro coi soldati regolari che erano stati mandati a catturarli, li annientò con degli attrezzi agricoli come armi. Si armarono poi con ciò che avevano preso ai soldati morti, presso il Vesuvio.
Non agiva in nome di alcun dio, ma soltanto in nome della vita e della libertà per chi era considerato soltanto come una cosa, un oggetto da comprare e vendere. Altri schiavi si unirono a lui, fino a formare un vero e proprio esercito. Presa all'inizio sottogamba, la rivolta di diffuse; per la prima volta nella storia degli schiavi erano riusciti ad affermarsi come esseri umani.
Gli fu mandato contro un esercito ben addestrato per ordine di un proconsole. E fu una nuova sconfitta per i signori e padroni, che a questo punto iniziarono a tremare. E non si poteva tremare di fronte a uno schiavo ribelle che dimostrava di essere un avversario temibile. Nell'esercito dei signori serpeggiava lo sconforto e, forse, anche in esso v'erano dei germi di rivolta. Il proconsole la soffocò nel sangue. Prese quattromila dei suoi soldati sconfitti, e li fece uccidere a bastonate. Passò alla storia come verberazione.
Alla fine, lo Schiavo fu isolato. Il proconsole si era servito di ogni mezzo: tradimenti, alleanze con pirati, stratagemmi. Arrivò a far costruire un muro ed un fossato che tagliava da parte a parte la Calabria, per bloccare lo Schiavo. Non ce la fece. Il blocco fu forzato. Si diresse verso il mare, chi dice per tornarsene nel suo lontano paese, e chi invece per far insorgere gli schiavi di quella regione. Il proconsole lo attaccò alle spalle, ma lo Schiavo riuscì ancora a farcela. Nonostante la stanchezza, nonostante la lotta impari. Ovunque si muovesse, a lui si univano altri. Non stava dando speranze vuote, ma una ragione di vita a migliaia di persone che vita non avevano.
Subì ancora tradimenti. Giunse infine la battaglia decisiva, sulle rive d'un fiume. Prima della battaglia, lo Schiavo uccise il suo cavallo: disse che, se avesse vinto, avrebbe avuto tutti i cavalli che voleva; se, invece, avesse perso, non voleva essere tentato di scappare. Contro l'esercito più potente del mondo di allora, sessantamila schiavi perirono. Sessantamila esseri umani che non lo erano. Il potente avversario perse soltanto mille uomini. Lo Schiavo si gettò per primo contro il nemico: uccise alcuni avversari, poi fu crivellato da talmente tanti colpi che ne rimase fatto a pezzi. Non fu mai ritrovato.
Fosse stato catturato vivo, lo avrebbe atteso la stessa sorte dei seimila compagni che furono presi dai signori e padroni, e trasformati in ammonimento. Poiché erano schiavi, fu riservata loro la pena degli schiavi: la crocifissione. Il proconsole li fece crocifiggere tutti e seimila, nudi, lungo la maggiore strada che esistesse, per decine di miglia.
E io credo in questi Crocifissi, in questi uomini che vollero e seppero lottare in nome della libertà e della vita. Dopo la loro atroce fine, non fu creato alcun sistema organizzato di dogmi e di potere che, utilizzando una croce come simbolo, avrebbe prodotto altra schiavitù, altra morte. Credo in questi Crocifissi che non blaterarono di amore universale, ma presero le armi e si diedero a una lotta disperata, fino all'ultimo momento. Credo in questi Crocifissi la cui memoria non è stata tramandata da alcun testo canonico; eppure, anch'essa, è sopravvissuta al tempo. E c'è, e non se ne andrà mai via.
Credo in questi Crocifissi, perché se avessero vinto la storia sarebbe cambiata realmente. Credo in loro, ed in chi seppe organizzarli e guidarli. Il suo nome era Spartaco.