Non c'è niente di male, a volte, nel preparare qualcosa. Per una data precisa. Questo 1° novembre, ad esempio. Il trenta ottobre dello scorso anno, Enrico se ne è andato. Il primo novembre c'è stato il funerale popolare.
Non so se sono la persona più qualificata a parlarne, e del resto chissà quanti altri lo hanno fatto e lo staranno facendo in questo momento. Persone che ben più di me hanno condiviso la sua vita, le sue allegrie, le sue incazzature improvvise, la sua generosità assoluta.
Ma mi è bastato conoscerlo solo per qualche tempo per accorgermi di tutto quanto.
Mi ero preparato tutto, fin da ieri sera. Fin dalla serata di ricordo tenuta al CPA. Anche io l'ho cantata, Nella mia ora di libertà, appoggiato con la mano su un vecchio attaccapanni. Tutti insieme, a cantare per chi quell'ora di libertà ha saputo davvero che cosa volesse dire. In una maledetta galera.
Ho alzato anch'io la mano nel brindisi, vinaccio e bicchieri di carta. Ché c'era da brindare anche per un'altra persona che non c'è più, Anna Laura. Sì, mi ero preparato davvero tutto. Coi miei ricordi. Che non sono numerosi, ma tutti di eccelsa qualità.
Solo che, a volte, interviene il destino.
In questo primo novembre in cui m'ero preparato tutto, ecco che prima muore una donna in un carcere. Si impicca con un lenzuolo. S'è impiccata ad un chiodo perché. E non erano vent'anni, erano un ergastolo. Una terrorista, mi dicono. Un'assassina. E la sessantesima persona che si uccide in un carcere quest'anno, in Italia. E allora, se assassina è lei, il carcere è ben più assassino. Il carcere e lo Stato. I carceri e gli stati.
Era, si legge sui giornali, guardata a vista per le sue precarie condizioni psichiatriche. A modo suo, ha eluso la sorveglianza, quella piccola donna con gli occhiali, disprezzata, marchiata, condannata. È scappata nell'unico modo che ha ritenuto possibile. La coscienza comune si sentirà, forse, sollevata. E nelle carceri si continuerà a morire, per mano propria o per quella di qualche caduta dalle scale. Si continuerà a morire come Diana Blefari Melazzi o come Marcello Lonzi. E come l'ultimo degli immigrati sbattuti nel fondo di una cella. Dal carcere non ci si redime. Dal carcere si deve scappare e basta, in qualsiasi modo.
Non bastava.
Poco dopo, è morta un'altra donna. Una che ha conosciuto il manicomio. Una che scriveva poesie, bellissime. Una che era nata il 21 a primavera. Una che tante cose. Una che parlava di esclusi, e viveva da esclusa, con i suoi infiniti numeri di telefono scritti dovunque in casa, sui muri, sugli specchi, sugli armadi, sugli scaffali dei libri. Ci sono persone che, giorno dopo giorno, diventano parte della tua vita. Alda Merini, come Ivan Della Mea, era per me una di queste.
Ad un certo punto di questa domenica mi sono chiesto se tutto ciò avesse un nesso.
Enrico, la galera, l'abbandono, la solitudine trasformata in agire, in voglia di vivere fino all'ultimo momento concessogli dalla sua malattia schifosa.
Diana, la galera, le scelte, il sangue, il crollo, e una fine in solitudine completa. Lo Straniero di Camus si augurò che, il giorno della sua pubblica esecuzione capitale, ci fosse una piazza piena di gente ad accoglierlo con grida di odio.
Alda, il manicomio, la povertà, gli dèi, le sigarette, la poesia.
Ci sono, sì, parole e retropensieri che ritornano. Soprattutto uno. Nella loro ora di libertà. Ecco, è questo. O, forse, sono solo confusioni che si aggiungono ad altre; o forse ancora, sono dolori, pene, schianti che però non riescono, e non riusciranno mai a soffocare il rumore delle catene che si spezzano. L'è 'l dì, dee mort, alègher! Ché ci toccherà spezzarle tutte, tutte quante, finché non ne resterà nemmeno una; verrà quel giorno.
Il giorno dei cani randagi, delle sigarette, delle follie, di Proserpina lieve e delle zolle aperte che sommergono le inferriate e le sbarre.
Sì, verrà quel giorno.