Alla manifestazione dove mi trovavo fisicamente, nella città dove abito, si protestava per un atto di repressione poliziesca, l'ennesimo, che ha colpito chi ancora non si rassegna a starci. La possiamo oramai, tranquillamente, chiamare repressione preventiva, esattamente come durante il ventennio fascista. Perquisizioni. Un ragazzo arrestato, un militante, con addosso una caterva di capi di accusa più un tentativo, da parte del procuratore, di affibbiargli una sua fantasiosa interpretazione della cosiddetta aggravante di terrorismo. Il suo nome è Francesco Mannucci, detto Mannu.
Il principale capo d'accusa riguarda un gravissimo attentato: l'aver, secondo loro, piazzato una bomba carta (denominazione giudiziaria e mediatica di un arnese che fa molti meno danni, ed è molto meno pericoloso, di un qualsiasi botto di Capodanno) all'ingresso dell'Agenzia delle Entrate. Alle sei di mattina, vale a dire quando tutto era vuoto. Un raudo, o poco più. Secondo i criteri degli inquirenti, il 31 dicembre centinaia di migliaia di persone dovrebbero essere messe in galera, senza contare che a tutti i capodanni ci sono decine tra morti e feriti, e danneggiamenti veri.
Tra i fatti per i quali il Mannu è a Sollicciano ci sono anche una rissa seguita all'aggressione subita da parte di alcuni fulgidi ribelli futuristi, o roba del genere; vale a dire come ai fascistelli piacerebbe al giorno d'oggi farsi chiamare. Va da sé che codesti ribelli, alla prima occasione buona, vanno a far querele e lai presso i loro (numerosi) amichetti in Qvestvra; i quali intervengono immediatamente. E via con perquisizioni, repressione, arresti. E così i vigliacchetti dal cuore nero girano più o meno indisturbati, mentre i compagni vanno in cella. Davvero dei ribelli, sono. Ben protetti dai questurini, come sempre. Bastano due buffetti e una frignatina, e scatta il pronto intervento, come a Pistoia lo scorso ottobre.
Non è finita. Forse non tutti sanno che il Mannu è in galera anche per un altro gravissimo atto. Il furto di una palma. Sto parlando proprio di una palma, sapete, quell'albero con le foglione spioventi, il tronco a tasselli e che fa i datteri. Per riassumere: carcere, aggravante di terrorismo e immancabile gogna mediatica (i padroni ordinano e i servi con la penna obbediscono) per un petardo, due cazzotti a dei fascisti e l'appropriazione di un alberello. Potreste provare anche voi: domani mettete un raudone fischione all'ingresso, che so io, dell'Ufficio del Catasto, date una manata a Giovanni Donzelli (che già se ne intende) e fregate un ulivo. Brutti terroristi che non siete altro.
Lo Stato. Quello dell'Agenzia delle Entrate. E anche quello di ferrovie che non funzionano un cazzo, che licenziano lavoratori scomodi, che provocano dissesti idrogeologici. E la loro bella dose di morti sul lavoro. Era anche per l'operaio Domenico, questa manifestazione. Morto mentre lavorava su un binario alla stazione di Rifredi. Se si chiede la libertà per un compagno arrestato e sbattuto in galera con delle accuse ridicole e strumentali, non è possibile dimenticarsi di chi muore, tutti i giorni, per la quotidiana schiavitù del lavoro. E a chi dice e pensa che queste manifestazioni non servano a nulla, rispondo che, oggi come oggi, decidere di scendere in piazza immediatamente e gridare forte queste cose in faccia a tutti, ha un'importanza la cui sottovalutazione, condita con una dose più o meno massiccia di snobismo, equivale a complicità.
Contemporaneamente a questa manifestazione, se ne stava svolgendo un'altra. Quella nella città lontana, ma al tempo stesso vicinissima. Tutte le città sono vicine, ora, in qualsiasi parte del mondo. Una città dove si manifestava per l'uccisione di un ragazzo qualsiasi, avvenuta in una galera. Un ragazzo andato dentro per due stupidissime canne, ed uscito morto. Non solo morto. Sconciato. Massacrato. Un assassinio per il quale tutti fingono di indignarsi; tra due giorni sarà dimenticato. Resteranno a ricordarlo, e a gridarne il nome, soltanto pochi. Senza chiedere però alcuna giustizia allo stesso Stato che lo ha ammazzato. Ancora non lo si vuole capire che chiedere giustizia agli assassini è soltanto un tragico controsenso. Totalmente inutile che i familiari proclamino di volere giustizia: non ne avranno, mai, alcuna. Lo Stato non si autocondanna. Decine e decine di episodi analoghi, oramai, dovrebbero averlo più che ampiamente dimostrato; dai più lontani ai più recenti.
È quindi inutile continuare a cianciare di legalità e ad implorare giustizia agli stessi che hanno coscientemente mandato a morte una persona. Durante la manifestazione per Stefano, vi sono stati -come si legge sulla stampa di regime- dei momenti di tensione con la Polizia. E vorrei anche vedere che non vi fossero stati. Qui si sta parlando di un giovane di trent'anni ammazzato in stato di detenzione, senza un perché. C'era uno striscione, a quella manifestazione, che riportava il verso di una canzone di De André: Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte.
Non so se le guardie che hanno ucciso Stefano siano o meno bigotte, ma è certo che per il loro agire ricevono un regolare stipendio e che di “giustizia” non ve ne sarà alcuna.
Mi domando allora che cosa sia passato per la testa della sorella di Stefano Cucchi. Dichiara infatti costei: “La mia famiglia comunque si dissocia da qualsiasi gesto sconsiderato e offre la sua solidarietà alla polizia. Qualsiasi gesto fuori dalla norma può compromettere la situazione." Da restare allibiti. A questa qui le ammazzano il fratello, e cosa fa? Offre solidarietà ai suoi assassini. La situazione non è già abbastanza compromessa? Eppure lo avrà visto come è stato ridotto Stefano. Chiama gesti sconsiderati due bottiglie lanciate contro dei blindati e tre cassonetti della spazzatura arrovesciati. E l'omicidio del fratello, cos'è allora? Proprio mentre un manifestante, con un megafono, urla quanto segue: “E' passato dalla Stazione dei carabinieri di Tor Sapienza e loro non sono stati, è passato per Regina Coeli e loro non sono stati, è passato per il tribunale e non sapevano niente e alla fine è morto in un letto dell'ospedale Pertini". Insomma non è stato nessuno; ma che importa. Basta offrire solidarietà alla Polizia e rispettare la legalità. La legalità è quella cosa che la si deve rispettare solo quando dall'altra parte non ce n'è neppure la minima parvenza. Bisognava che qualcuno fosse andato a dirlo, alla sorella di Stefano Cucchi; oppure, meglio ancora, a dirle di tacere. Non è bastato il fratello? Vuole per caso che le ammazzino anche qualche cugino? Ché, tanto, anche lei lo sa benissimo che la giustizia che tanto invoca non la avrà. Lo vada a chiedere a degli altri familiari d'un morto ammazzato, quelli di Gabriele Sandri. Non sono bastati cinque testimoni che hanno visto un poliziotto prendere la mira a due mani in mezzo a un'autostrada e sparare. No, piccinino, mica lo voleva ammazzare. Fa bene lo Spaccarotella a chiedere di essere reintegrato in servizio: quello per cui è pagato, lo ha svolto benissimo. Una mira infallibile.
Così va, oggi. Persino la sorella di un ragazzo ammazzato si preoccupa di non dispiacere troppo ai servitori dello Stato; e quando la giustizia non la avrà, pazienza.
Ci saranno già chissà quanti altri ragazzi uccisi, e quante altre sorelle a chiedere, domandare, invocare, e magari anche a esprimere solidarietà a quelle brave persone tutte ordine e dovere. E poi chiede che “altre persone non debbano passare quello che ha passato Stefano”. Spero soltanto che il fratello le appaia in sogno facendole delle tragiche risate in faccia.